19

Siamo in vacanza al mare, è il mese di agosto: mio fratello deve avere tredici anni, al massimo quattordici, e io, quindi, sedici o diciassette. Il coprifuoco stabilito da mio padre è alle 23.45, con un margine di manovra di non più di un quarto d’ora. Che palle! penso ogni giorno quando guardo l’orologio e realizzo che mi tocca rientrare, e allora mi eclisso senza dire nulla a nessuno, altrimenti ti immagini come mi prendono in giro gli altri? Però mi attengo scrupolosamente alle regole – tanto è inutile, papà non cede, quando mamma ha provato a dirgli che siamo i soli ragazzi a dover rientrare così presto l’ha fatta tacere: «Le regole le stabilisco io! Tu devi stare zitta, quante volte ancora te lo devo ripetere!».

Quella sera, mezzanotte è passata da una decina di minuti. Papà comincia a innervosirsi: «Dov’è tuo fratello?».

«Non lo so, non eravamo insieme.»

«E perché non eravate insieme?»

«Abbiamo comitive diverse, mica posso stare con quelli più piccoli di me, papà!»

«Ma dov’è adesso Arturo?» Mio padre alza il tono della voce.

«Non ne ho la minima idea, ma ora torna, calmati, papà, ti prego.»

«Io non mi calmo affatto!» grida lui.

Comincio a respirare a fatica. Non sopporto le urla, non le sopporto più. E poi ora sentono pure i vicini, che vergogna!

«Dov’è tuo figlio?» Papà entra in camera da letto e fissa mamma. Che nel frattempo si è andata a coricare, tanto non c’è nulla che faccia ragionare il marito quando si arrabbia. «Adesso ti alzi e vai subito a cercarlo!» Mio padre sembra un pazzo.

Mamma si alza, senza aprire bocca si infila un vestito, sta per uscire di casa. La blocco. «Mamma non va da nessuna parte!» Ora sono io che urlo. Ancora più forte di lui. «Lasciala in pace, che c’entra lei?» Tremo. «Ti detesto.»

Mio fratello arriva in quel momento. Sorride. Quel sorriso strafottente, che poi non è affatto strafottente, è il suo modo di proteggersi. Lo faceva anche da piccolo, ogni volta che c’era un problema, una discussione, un dolore, lui rideva. Ma a me non frega nulla che anche lui stia male, e cerchi di proteggersi, e sfidi papà per sopravvivere. Io non sopporto più che papà umili mamma. E allora sono io ad avventarmi contro Arturo: «Dove cazzo eri! Hai visto l’ora?». Mio fratello continua a sorridere. «Stronzo!» Gli tiro uno schiaffo. Lui resta immobile, è abituato agli schiaffi, cosa può mai importargli se ora ci si mette anche sua sorella?

Ogni volta che ci ripenso, mi si stringe il cuore. Era mio fratello. Era un ragazzino. E io che facevo? Invece di stare dalla sua parte, gli davo addosso come mio padre. Invece di ribellarmi, pretendevo che fosse lui a adattarsi. La stronza ero io, non lui. Mi sono sempre comportata come una stronza collaborazionista.

È difficile descrivere il clima che si respirava a casa mia. Per tanto tempo, Jacques mi ha detto di non riuscire a capire cosa mi avesse impedito di oppormi a mio padre. «Non è mica un mostro» diceva. «È insopportabile e rompipalle, sì, ma come tutti i padri, no?» Anche suo padre urlava, e litigava con sua madre, ma erano fatti loro, non era questo che gli aveva impedito di vivere la sua vita. A casa mia, però, nessuno poteva farsi i fatti propri. Era come vivere in un acquario: papà era onnipresente, non c’era alcuna possibilità di sottrarsi al suo controllo – c’è stato un periodo in cui speravo con tutto il cuore che mamma trovasse il coraggio di separarsi, di prendere me e mio fratello con sé e di andarsene via di casa. «Perché resti con lui, mamma?» le chiedevo, ma lei non rispondeva; poi, un giorno, mi confessò che avrebbe voluto farlo, ma che mio padre l’aveva minacciata: «Se te ne vai, non vedrai più i bambini».

«E tu ci hai creduto, mamma?»

«Certo, lo avrebbe fatto, avrebbe convinto tutti che era per il vostro bene... che ne sai tu di quello che ho dovuto passare quando eravate piccoli?»

Durante i primi anni di psicanalisi, ho odiato mia madre. L’ho odiata per non essere stata il modello che avrei voluto, l’ho odiata per non averci difeso da nostro padre, l’ho odiata perché avrei voluto avere anch’io una mamma sicura di sé, una mamma su cui contare. Mentre lei, che faceva di tutto per essere perfetta e per sentirsi dire anche solo una volta “brava” da mio padre, era un disastro su tutta la linea: papà la mortificava, mio fratello le disobbediva, e io non sopportavo quel suo essere sempre avvilita e offesa.

«Che ne sai tu di quello che ho dovuto passare quando a ventun anni mi sono ritrovato capofamiglia?» diceva papà quando gli chiedevo perché fosse sempre nervoso, volesse controllare tutto, trattasse male mamma.

«Che ne sai tu di quello che ho dovuto passare quando eravate piccoli?» diceva mia madre quando ho cominciato a rimproverarle di non aver protetto né me né mio fratello.

Il potere distruttivo dei segreti e dei silenzi.

Almeno altrettanto distruttivo del potere delle parole, che mio padre scagliava come pietre contro mia madre e la sua famiglia: razza maledetta, sangue malato. «Che stai dicendo, papà? Basta, ti prego! Basta, basta, basta, basta!» Mi tappavo le orecchie per non sentire. Andavo in camera mia, chiudevo la porta, mi mettevo a leggere, le dita pigiate sulle orecchie.