«No, non erano ebrei in casa di mamma» rispondo alla mia analista la prima volta che questa storia della “razza” viene fuori durante una seduta. Che c’entrano ora gli ebrei? penso. La mia analista straparla.
“Razza.” Non so nemmeno più quante volte ho sentito pronunciare da mio padre questa parola. Accompagnata da “maledetta”, “infame”, “malata”. Papà lo diceva quando litigava con mia madre e perdeva il controllo. Lo urlava contro mio fratello, quando Arturo tornava a casa con una nota della maestra sul diario o un brutto voto. Oppure disobbediva. Papà non sopportava che non gli si obbedisse. Per lui era inconcepibile che mamma, Arturo o io non eseguissimo alla lettera tutto ciò che lui ci chiedeva di fare – un giorno era venuto a prenderci a scuola e, prima di rientrare, si era fermato di fronte a una cartoleria: mio fratello aveva sette anni e la maestra gli aveva domandato di procurarsi alcune penne di diversi colori, una blu per i dettati, una nera per le addizioni e le sottrazioni, una rossa per le regole di grammatica, una verde per le moltiplicazioni e le divisioni; «Mi raccomando, prendi una confezione di BIC a punta media, non prendere quelle a punta fine: scrivono male, l’inchiostro non esce, si è costretti a pigiare sul foglio e si bucano le pagine del quaderno!». E quando mio fratello era tornato con una confezione di venti BIC a punta fine – ovviamente non aveva obbedito – in macchina si era scatenato il pandemonio: urla, schiaffi, maledizioni... e tutto per una cazzo di penna!
“Razza.” E se non era “razza”, era “sangue”. Anche lui “malato”, “maledetto”. Quando papà perdeva la testa, se la prendeva con mamma e con la sua famiglia, l’origine di ogni male, l’esempio da non seguire. Non avrebbe mai permesso al figlio di diventare un fallito, si sarebbe dovuto passare sul suo cadavere, ma non sarebbe successo, c’era lui per correggere e educare Arturo. Mio fratello alla scrivania, lui seduto accanto, in una mano un libro, nell’altra un mestolo di legno. «Leggi ad alta voce, così non ti distrai.» «Ricomincia daccapo il tema, questo non vale nulla.» «Cos’è che non capisci nelle frazioni?» «Perché il quaderno dei compiti è pasticciato?» «Maledetta la vita!!!» urlava papà. Mentre Arturo imparava a fabbricarsi un mondo parallelo: fisicamente era lì, ma con la mente era altrove – inventava, creava, evadeva, ha sempre avuto un’enorme fantasia, a differenza mia che mi incastro nel reale, persino la mia temperatura corporea si adatta a quella esterna, nemmeno fossi una lucertola.
“Razza”: è la parola che è infame. Perché papà l’utilizzava? Che c’entrava? Come c’era finita nella bocca di un intellettuale socialista degli anni Settanta? Da bambina, quando lo fissavo impaurita, mio padre diceva che certe cose non le potevo capire, ero troppo piccola.
Ho iniziato a mangiarmi le unghie. Ho iniziato ad arrotolarmi i capelli, girandoli tra le dita, si facevano i nodi, li strappavo. Ho iniziato ad avere sempre fame. Mi controllavo, non volevo diventare una “cicciona cafonesca”, come diceva papà parlando delle donne sovrappeso. Ma avevo fame, una fame che non passava mai, quand’ero adolescente non avrei fatto altro che mangiare. Prima di iniziare i digiuni e ribellarmi anch’io, facendomi male da sola. Quando cedevo alla fame, dovevo costringermi a vomitare. Solo così le cose potevano rimettersi a posto. Solo così potevo calmarmi.
Ho provato mille volte a chiedere spiegazioni a mio padre. Che scaricava su mia madre e sulla madre di mia madre la responsabilità di quel figlio che non era esattamente come lui avrebbe voluto che fosse.
«Tua nonna era una poveretta.»
«Perché, papà?»
«Era intrigante e pettegola.»
«Perché?»
«Invece di occuparsi di tua madre andava a giocare a canasta, e il marito, succube, lasciava correre.»
Ma ancora oggi non capisco.
I fatti: la madre di mia mamma, il pomeriggio, giocava spesso a canasta con le amiche; si riunivano di volta in volta a casa dell’una o dell’altra, bevendo il tè e mangiando i pasticcini; una volta, da bambina, sono andata anch’io con la nonna a casa di una sua amica, mi piacevano tutti quei gettoni rossi, gialli, verdi, bianchi: «Come si gioca, nonna, con questi cosi colorati? È come con i chiodini?». Mia nonna giocava a canasta come tante sue coetanee che, all’epoca, non lavoravano e che, sbrigate le faccende domestiche, passavano il pomeriggio insieme, chiacchieravano, andavano a passeggio.
E quindi? Va bene, forse nella vita si può fare altro: leggere un libro, andare al cinema, dipingere, visitare mostre, imparare una lingua straniera, fare del volontariato. E poi lavorare ed essere indipendenti, certo. Ma non era l’epoca. Mia nonna veniva da una famiglia piccolo borghese e non aveva studiato. Non è quello che ho fatto io, non è quello che avrei voluto che facesse mia figlia, se ne avessi avuta una, ma non era poi così che viveva anche la madre di mio padre?
«Mica leggeva nonna Rosetta, no?» dicevo a papà. «Né ha mai imparato una lingua straniera o fatto volontariato, che io sappia.»
«Vergognati!» rispondeva lui. «Mia madre, dopo l’incidente di papà, si è dedicata anima e corpo al marito. E comunque che c’entra, ora, mia madre?»
«Va bene, lasciamo stare nonna Rosetta, parliamo allora di tuo zio Nino, che quando giocava a carte, invece di utilizzare i gettoni, si è giocato le terre. È meglio come esempio, papà?»
Ancora i fatti: il padre di mamma adorava sua moglie. E la riempiva di regali. E la viziava. E non protestava quando lei il pomeriggio andava a giocare a canasta. Ma perché avrebbe dovuto protestare? Si erano costruiti un loro equilibrio. La nonna si occupava della spesa, della casa e della cucina e poi, il pomeriggio, stava con le amiche. E allora? Dov’è il problema, papà? Doveva restare a casa? Doveva essere a disposizione del marito ventiquattr’ore su ventiquattro? E poi, comunque, anche il nonno aveva le sue manie, papà! Mi ricordo che un giorno aveva messo il muso solo perché la carne era troppo cotta. E non aveva mangiato. E per ore era stato a rimuginare su questa storia della carne troppo cotta. Si dà e si tiene in una coppia, papà, non trovi?
I fatti, di nuovo: mia mamma è stata una bambina trascurata; quando mio padre non l’aggredisce, lo riconosce anche lei; quand’era piccola, veniva spesso mandata a casa di sua nonna, talvolta non dormiva nemmeno con i genitori. Mamma lo sa, ne soffre, e non ne ha mai davvero capito le ragioni. Mi dice di averlo chiesto, un giorno, alla nonna, e dice che lei non le ha saputo rispondere. E allora?
Ci sono buchi e segreti anche nella famiglia di mia madre, ma in base a quale logica assurda papà ha deciso di utilizzare contro sua moglie cose che lei gli aveva confessato quando si erano conosciuti? Forti con i deboli e deboli con i forti? È questo, papà? È così che si fa e si insegna? Di cosa hai avuto sempre paura, papà? Cosa ti terrorizzava quando vedevi che tuo figlio non voleva essere come te, che tu, per lui, eri un modello negativo, e che quella virilità che tanto sbandieravi gli faceva schifo? Cosa ti spaventava quando mamma cercava uno spazio di libertà e di autonomia? Perché ti sentivi in pericolo?
I fatti: Giuseppina Malvani, la nonna di mio padre, rimane vedova a trentasette anni. Il marito muore all’improvviso, lasciandola sola con tre figli: Nino che all’epoca ha diciotto anni, Enzo, il secondogenito, che di anni ne ha diciassette, e mia nonna Rosetta, che è appena dodicenne. Certo, sua sorella non si è sposata e può senz’altro aiutarla e sostenerla, e il fratello abita nel palazzo accanto. Ma ormai è lei il capofamiglia; tocca a lei occuparsi delle terre e dell’educazione dei figli; è lei, e lei soltanto, che comanderà a casa sua.
Rosetta, mia nonna, non resta vedova come la madre, ma a cinquantanove anni si ritrova sola, con un marito su una sedia a rotelle.
Nella vita di papà, gli uomini muoiono o si ammalano.
Oppure non si sposano, ma dilapidano il patrimonio tra gioco d’azzardo e amanti.
Sono le donne che sopravvivono e comandano. Apparentemente docili, sono loro che dettano legge.
Quando provo a parlarne con mio padre, lui si irrigidisce.
Esce dalla stanza.
Non mi rivolge più la parola.