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Stanotte è stato terribile. Ho fatto un incubo talmente assurdo che, anche se sono ore che cerco di interpretarlo, non mi raccapezzo proprio. Questa volta, l’inconscio mi ha giocato davvero un brutto scherzo. Non so che cosa esattamente cerchi di comunicarmi. Non sono nemmeno certa che ci sia qualcosa da capire. Cioè. C’è senz’altro un significato. Una traccia. Un filo. Un segno. Ma ogniqualvolta provo a mettere insieme le immagini, mi perdo. E nonostante ce la metta tutta, non vado da nessuna parte.

So che, quando mi sono svegliata, erano le 4.50 – Jacques si è alzato per andare in bagno, è tornato, mi ha preso tra le braccia, ha detto: «Piangevi».

So che nel sogno c’era un uomo, e che quest’uomo aveva una figlia – ma, ripensandoci adesso a mente fredda, mi viene un dubbio: l’uomo aveva una figlia soltanto? Oppure le figlie erano due? Oppure c’erano un maschio e una femmina? Niente. Non me lo ricordo proprio. Inutile insistere.

So che l’uomo urlava “puttana” alla figlia. “Dove vai conciata così?” diceva vedendo che la ragazzina indossava una minigonna – ma l’uomo che gridava era veramente suo padre?

So che assistevo impotente alla scena – ma assistevo solo o ero io la puttana? – e che ero terrorizzata. E che il pianto arrivava dopo. E che, svegliandomi, mi ritrovavo zuppa di sudore – sono due notti che mi succede, ho la febbre? Che c’ho che non va?

So che sentivo una voce chiedere aiuto, prima di sparire, inghiottita dalle fogne. Era la voce di una bambina risucchiata dallo scarico dell’acqua – ma come c’era finita là dentro? Chi era? Perché non c’era nessuno a salvarla?

C’è senz’altro un significato in questo sogno. Una traccia, un filo, un segno. Nonostante provi a incastrare i ricordi per comporre il puzzle, però, il disegno non viene fuori. Mancano i bordi. Mancano i pezzi. Manca sempre qualcosa perché l’immagine acquisti coerenza.

Oppure i pezzi ci sono già tutti, e sono io che non posso, o non voglio, incastrarli?

Scrivo su un foglio la lista delle parole chiave: uomo, violenza, puttana, terrore, morte. Le leggo e le rileggo, ma non mi viene in mente nulla. Sento solo il rumore dei battiti del mio cuore.

Cos’è quest’incubo? È per via del libro o a causa della pandemia?

Pare che il coronavirus stia iniziando a insinuarsi nei nostri sogni, e che l’inconscio – quando riusciamo infine a prendere sonno e la razionalità non può più aiutarci a controllare emozioni e pulsioni – trovi il modo di sbatterci in faccia ciò che, durante il giorno, ci ostiniamo a negare o cancellare. Lo spiega alla BBC uno scienziato che studia le fasi del sonno e che dice che sono in tanti, in questa strana primavera del 2020, a fare incubi legati alla pandemia: un’adolescente sogna d’indossare un golfino a collo alto che le impedisce di respirare; un’anziana insegnante si sveglia in preda al panico dopo aver visto le mura della propria casa andare in frantumi; una bambina dice di essersi ritrovata chiusa in un vecchio armadio pieno di coperte e lenzuola.

È per questo che anch’io faccio così tanti incubi in questi giorni?

C’è chi dice che questa pandemia sia l’evento più tragico dopo la Seconda guerra mondiale. Il presidente Macron, parlando ai francesi e decretando lo stato d’urgenza sanitaria, ha detto che siamo in guerra. “È come durante la guerra” pensano le tante persone che si precipitano nei supermercati e riempiono i carrelli: pasta, latte, carta igienica, farina, zucchero. È come in tempo di guerra, penso pure io, da giorni, aspettando il bollettino della Protezione civile italiana alle 18, poi anche quello delle 19.15 di Jérôme Salomon, il direttore generale della Salute in Francia. Si vive come in tempo di guerra, gli occhi pieni delle immagini dell’ecatombe – penso a quelle del 18 marzo, quando i camion militari pieni di salme percorrono in fila indiana viale Pirovano, cinquecento metri di asfalto punteggiati da due file di cipressi, la strada che dall’ingresso del cimitero monumentale di Bergamo porta alla circonvallazione e da lì al raccordo per l’autostrada in direzione di Ferrara, Bologna, Modena, Vicenza, Padova, i morti non entrano più nella camera mortuaria, neanche il forno crematorio riesce a smaltire i cadaveri di chi è morto solo, in ospedale o in una casa di riposo, senza nemmeno un addio o un “ti voglio bene”.

Mi tornano in mente le parole della canzone che Barbara dedica al padre: “Madame soyez au rendez-vous / Vingt-Cinq rue de la Grange-au-Loup / Faites vite, il y a peu d’espoir / il a demandé à vous voir” [...] Il voulait avant de mourir / se réchauffer à mon sourire / mais il mourut à la nuit même / sans un adieu, sans un “je t’aime”. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. E se papà muore adesso? E se non posso stringerlo un’ultima volta tra le mie braccia? E se non posso dirgli che gli voglio bene, anche se l’ultima volta che ci siamo visti gli ho detto che lo odiavo?

Ci vorranno anni per trovare le parole giuste per dire cosa significa per una figlia non avere avuto la possibilità di dire addio a sua madre. E ricordare le cose fatte e quelle mai compiute, le parole rinnegate e quelle mai pronunciate, le carezze sottratte e quelle rifiutate. La memoria, sempre e ancora quella, con cui fare i conti pure quando questi maledetti conti davvero non tornano.

Non riesco più a lavorare. È come se fossi precipitata in un buco nero, in uno spazio-tempo immobile, in cui nessuna parola riesce a consolarmi.

Io, che ho sempre detto che le parole ci aiutano a mettere ordine nel mondo e a contenere la sofferenza, affogo nel disordine. E, proprio mentre cerco di ricostruire gli anni più bui del fascismo e il disastro della Seconda guerra mondiale, navigo a vista nel caos di una pandemia che stravolge ogni quadro concettuale.