Il 14 aprile 1939, il segretario dei Fasci di combattimento di Lecce chiede a mio nonno di entrare a far parte della Commissione federale di disciplina. C’è un trafiletto sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» che ne parla, lo trovo frugando nell’archivio online del giornale. Sto cercando di ricostruire il percorso di mio nonno tra il 1939 e la fine della Seconda guerra mondiale, ma sul web c’è poco.
Avevo previsto di andare a Roma, all’Archivio centrale di Stato. È lì che si trovano i dossier di chi fu magistrato tra il 1860 e il 1970. Avevo già racimolato un certo numero di informazioni per procurarmi facilmente le buste: identificativi, consistenze, strumenti. Avevo prenotato l’aereo e avvertito i miei genitori. Avevo organizzato in anticipo il lavoro in università. Avevo previsto tutto. Assolutamente tutto, tranne la pandemia. E la reclusione. E l’impotenza.
Sono giorni che, su internet, digito ossessivamente “arturo” “marzano” “procuratore” “re” “lecce” “1939” “1940” “1941” “1942” “1943”. Ma, a parte i decreti ufficiali e qualche citazione sui giornali dell’epoca, non trovo molto. Anzi. Cercare online il nome di mio nonno ha l’effetto straniante di vederlo associato a quello di mio fratello. Che, a differenza sua, sul web è citato in riferimento alla storia degli ebrei italiani che emigrarono in Israele tra il 1920 e il 1940, oppure al conflitto israelo-palestinese, oppure anche alle pari opportunità e ai gender studies.
Mi soffermo in particolare su una pagina di Google. Sembra una beffa del destino. C’è il link di Amazon con l’ultimo libro di mio fratello, Onde fasciste, la propaganda araba di Radio Bari (1934-1943), e, subito dopo, c’è il link al portale storico della Camera dei deputati: “Arturo Marzano (1897-1976), II Legislatura della Repubblica Italiana, Partito Nazionale Monarchico”.
Beffa del destino o nemesi storica. O entrambe le cose, penso, mentre continuo a cercare, quando potrò finalmente rientrare in Italia e andare in Archivio? E a Campi, quand’è che potrò tornarci? Come faccio ad andare avanti senza il fascicolo personale di mio nonno e senza aprire gli scatoloni pieni di libri e documenti conservati nello scantinato del palazzo delle cugine di papà?
Torno a concentrarmi sugli elementi in mio possesso – che poi non è vero che non ho niente in mano, cerco di rassicurarmi; la mia è semplicemente pigrizia! mi rimprovero da sola; oppure imbarazzo, ecco, sì, è soprattutto l’imbarazzo che mi impedisce di andare avanti. Nel 1939, i legami tra Arturo e il PNF sono strettissimi. Mio nonno partecipa persino alle riunioni della Commissione per il confino della provincia di Lecce, insieme al prefetto Petragnani. Non ho bisogno di inventare o interpretare, è un fatto.
L’anno prima era stato modificato lo statuto del PNF: oltre a precisare che non potevano essere iscritti al partito “quei cittadini italiani che, a norma delle disposizioni di legge, fossero considerati di razza ebraica”, e a disporre che ogni fascista dovesse prestare giuramento di fronte al segretario di un Fascio di combattimento secondo la formula: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue, la causa della Rivoluzione Fascista”, il nuovo statuto dice chiaramente che, tra i gerarchi, figurano anche i componenti delle Commissioni federali di disciplina. E quindi mio nonno. Che a partire dal 1939, insieme agli altri cinque membri della Commissione di Lecce, ha ormai la possibilità di decidere se “deplorare”, “sospendere”, “radiare” o “espellere” chiunque venisse accusato di violare “la disciplina politica o morale del partito”. E che, sempre nel 1939, riceve gli elogi del prefetto di Lecce per lo zelo e la competenza con cui partecipa alle riunioni della Commissione per il confino.
Qui mi fermo. Che altro c’è da aggiungere?
Ma davvero non c’è altro, oppure sono io che non riesco, non voglio, che mi vergogno troppo?
Tra le foto di mio nonno c’è un ritratto, 9x6 cm, in cui Arturo è in tenuta militare e ha un berretto con il fregio dell’aquila e della corona; affisse sulla giacca, si intravedono numerose decorazioni. Cerco di leggere tutte le informazioni scritte a mano ai margini e sul retro. Leggo che è tenente colonnello del corpo Giustizia Militare con ruolo ausiliario. Leggo che viene richiamato alle armi il 14 giugno 1940 e inviato a Bologna come sostituto avvocato militare presso il tribunale di guerra del 6° corpo d’armata, e che poi viene congedato un paio di mesi più tardi. Leggo che viene nuovamente richiamato alle armi il 1° dicembre 1941 e destinato come giudice al tribunale militare di Taranto – dove poi, a partire dal 1° agosto 1943, riveste il ruolo di procuratore militare del re. Nel settembre del 1943, gli Alleati sono sbarcati a Taranto. Ma cosa succede allora ai dignitari fascisti? E a mio nonno? Leggo: “Trasferito a Lecce il 1° aprile del 1944”. Leggo: “Congedato il 16 ottobre 1944”. La grafia diventa invece illeggibile quando il nonno, accanto alla data del congedo, aggiunge qualcosa tra parentesi. Prendo una lente di ingrandimento, ma continuo a non capire cosa ci sia scritto. A un certo punto, mi pare di intravedere la parola “epurazione”, ma non ne sono poi così sicura. Forse sono io che proietto quello che penso di sapere: la caduta del fascismo, il trasferimento del governo Badoglio nel Sud Italia, la defascistizzazione.
«Ma senza accesso al fascicolo di mio nonno non posso andare avanti, mica posso inventare, no?» dico a Jacques che, però, non mi dà retta, sono io che trovo scuse, non voglio fare alcuno sforzo.
Quando sto per rinunciare, mi ricordo di una delle foto che avevo visto nell’album di mio padre in cui lui, piccolo, è ritratto a Campi, accanto a un gruppo di soldati. Non so più bene in quale anno sia stata scattata, ma se c’erano dei soldati doveva per forza essere durante la guerra.
Cerco nella cartellina blu con l’etichetta “appunti-nonno”: a Roma avevo fatto una copia di alcune delle foto in modo da poterle poi consultare anche a Parigi. E infatti, aprendola, trovo subito la foto cui avevo pensato, anzi, ne trovo addirittura due risalenti al 1941: la prima è del 16 marzo, l’altra è del 6 aprile.
Nella prima, c’è mio padre che fissa l’obiettivo stringendo gli occhi – deve avere il sole di fronte, ecco da dove gli era venuta questa mania, a papà, di volermi sempre mettere di fronte al sole prima di scattarmi una foto quand’ero piccola! Dietro di lui, si intravede un gruppo di soldati in posa, tutti in divisa e tutti sorridenti, con la didascalia: “Soldati al rancio”.
Nella seconda foto, ci sono il nonno, la nonna e mio padre, con un’altra didascalia: “Sul fronte di Lecce”. Il nonno è in tenuta civile, la nonna indossa un cappellino bianco, papà ha un cappotto color cammello e una coppola scura. Il viso di Rosetta è tirato, papà ride, Arturo pare disteso, sembra sorridere pure lui.
L’Italia è in guerra, ma il nonno è adesso con la sua famiglia, e non sembra particolarmente angosciato. Cosa pensava di quella guerra, lui che in trincea c’era stato, e aveva visto morire centinaia di compagni e amici, ed era stato fatto prigioniero, e aveva detestato ogni singolo giorno passato nel campo di concentramento di Nagymegyer, e una volta tornato in patria non aveva mai perdonato il governo per essersi dimenticato dei suoi figli?
Cosa poteva passargli per la testa nel 1941, quando la guerra stava già mietendo migliaia e migliaia di vittime italiane?