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È il 25 aprile 2020. È la prima volta che mi accade di vivere il giorno della Liberazione con imbarazzo. È la prima volta, da che ho memoria, che non mi sento con la coscienza a posto. Anch’io vorrei andare sui social e scrivere con orgoglio e fierezza: #iorestolibera – perché ci credo, ci ho sempre creduto, e allora perché non dovrei scriverlo, perché non dovrei cantare anch’io dal mio balcone Bella ciao, #bellaciaodaibalconi visto che in piazza, quest’anno, non ci si può andare? Ma quest’anno faccio fatica. Quest’anno ho il magone dentro.

Il mio passato non è quello di chi ha avuto nonni o zii o genitori partigiani. Io, a differenza loro, non sono nata partigiana. E già, perché c’è anche questa frase che circola da quando Verdelli, il direttore di «Repubblica», è stato congedato e, nel suo ultimo editoriale, ha scritto: “Partigiani si nasce e non si smette di esserlo”.

Ma ci si nasce davvero? È un fatto di natura? E chi non ci è nato che fa? Chi lo è diventato più tardi è meno partigiano di chi ci nasce o lo eredita dai nonni? Partigiano nel senso di libero, ovviamente. Libero e pronto a tutto pur di restarlo. Visto che è questo che ci rende umani: la scelta della libertà e della sua difesa, con il prezzo da pagare che c’è sempre quando si decide di essere liberi. Perché poi è questo che troppo di frequente si omette: il prezzo della libertà. Che è salato. Soprattutto oggi che vige il conformismo, ed è proprio chi si dice libero che poi piega la testa e risponde: sissignore!

È facile parlare del 25 aprile 1945 a settantacinque anni di distanza. Ma dov’erano allora i vostri nonni? E i vostri genitori? Erano partigiani veri o convertiti all’ultimo, cambiando casacca tanto uno vale l’altro e uno vale uno? Non è questo il nuovo motto: basta destra, basta sinistra, basta ideologie? C’ero anch’io in Parlamento quando erano schiere a obbedire e chinare la testa mentre il capo del PD predicava il cambio di passo, perché ormai non si trattava più di opporre la sinistra alla destra, ma il movimento all’immobilismo. E tutti dietro a dire “bravo”, per una poltrona o una promozione. Non è anche questo un modo di collaborare? Dov’è allora la resistenza, compagni?

Mi sto inacidendo. Deve essere la reclusione. Oppure anche la paura di non poterci tornare per un bel po’, in Italia. Sul sito dell’ambasciata italiana a Parigi è scritto nero su bianco che, anche se le frontiere non sono chiuse, per tornare in Italia ci devono essere motivi seri, familiari o lavorativi, ma la nostalgia profonda non è anche lei un motivo serio? E il desiderio di ascoltare la mia lingua, quella materna, la sola nella quale io riesca davvero a essere me stessa?

Mi sto inacidendo. E la scoperta del passato di mio nonno non mi aiuta. E allora niente diretta su Instagram, oggi. Niente post sui social per il 25 aprile. Forse sbaglio, ma oggi penso che il mio silenzio valga più di tante parole. La Liberazione ce la si deve meritare, non posso mica far finta che mio nonno c’era!

Lui non c’era, non c’era affatto, era dall’altra parte, era tra i cattivi.

Non sono nata partigiana, non ho avuto questa fortuna. Ma la mia resistenza cerco di viverla quotidianamente. Resisto al conformismo del pensiero unico e al buonismo. Penso a modo mio e me ne assumo le conseguenze. Ma è il solo modo per diventare partigiana e restarlo. Perché no, partigiani non si nasce. Mi spiace dirlo così, e apparire rigida, radicale. Ma la resistenza non è nei geni né nella natura. È una scelta, è una decisione, è la volontà di credere che, senza libertà, siamo morti prima ancora di morire.

Pago il prezzo del mio passato, ma la mia scelta è chiara.

Sono in resistenza anch’io. E mi nutro del coraggio di chi ha imparato a resistere alle avversità della vita, perché il coraggio è anche tener testa alle sciagure e attraversarle, stringere i denti e andare avanti.