«Papà, ma tu quand’è che hai sentito parlare della Shoah per la prima volta?»
Sono al telefono con lui e glielo domando. Se ha tanto insistito affinché mio fratello e io, da bambini, vedessimo Olocausto, ci deve pur essere un motivo. Era il maggio del 1979, e furono tanti i genitori che vietarono ai figli di guardare la serie televisiva convinti che certe cose, quando si è piccoli, è meglio ignorarle. Ma non è per questo che gli ho telefonato. L’ho chiamato per sapere i nomi dei genitori di suo nonno, Ferruccio. Sulla famiglia Campo, l’albero genealogico è completo, almeno a partire da Carmelo Malvani, il figlio di don Vincenzo, il giudice regio che all’inizio dell’Ottocento aveva comprato l’ex convento di via Vittorio Emanuele. L’albero genealogico dei Marzano si ferma invece a Ferruccio e Giulia, i genitori di Arturo. Quando ho cercato tra i documenti online dell’Archivio di Lecce, ho trovato una pista: nell’inventario dei ruoli matricolari “classe 1871”, l’anno di nascita del nonno di mio padre, figura un certo Ferruccio nato a Lecce da Gabriele Marzano e Adelaide Grande. E se poi è un omonimo? Nessuno dei parenti sembra però ricordare o sapere come si chiamassero i genitori di Ferruccio. Quando ne parlo con una cugina di papà, l’unica cosa che apprendo è che sono fuori strada: Gabriele Marzano era un noto farmacista, ma tra la sua famiglia e la nostra non c’è alcun legame. «Il nonno» continua la cugina «non parlava mai dei suoi genitori, ora che mi ci fai pensare questa cosa è strana, hai ragione!»
Stavolta è mio padre ad aiutarmi. I nomi non li conosce nemmeno lui, ma sa che Ferruccio nacque a Neviano, e che si trasferì a Botrugno solo dopo essere diventato maestro. Mi appunto “Neviano” su un foglio e cambio discorso. O meglio. Il fatto che ci sia un ennesimo buco nella storia di mio nonno, per un’associazione di idee non poi così strana, mi fa pensare alla Shoah. Quindi non è proprio che cambi discorso, faccio solo un passo avanti. Quand’è che papà venne a conoscenza dello sterminio degli ebrei?
«Fu quando andai ad Harvard.» In occasione delle feste di Pesach, in America, c’era l’abitudine di invitare a pranzo gli studenti stranieri che frequentavano l’università, mi racconta. «Era la primavera del 1962, il giorno esatto mi sfugge, ma ricordo perfettamente che durante il pranzo non si parlò d’altro.»
«E tu?»
«La cosa mi colpì molto. Prima di allora non avevo mai sentito parlare dei campi di concentramento e delle camere a gas.»
Questa volta i conti tornano. È passato meno di un anno dalla fine del processo a Gerusalemme contro Adolf Eichmann, catturato in Argentina dagli agenti del Mossad. In Israele, il processo era stato trasmesso in diretta dalla radio. Nel resto del mondo, con lo scarto di qualche giorno, erano arrivate le immagini televisive. Nonostante la concorrenza della missione spaziale russa che spedì in orbita Jurij Gagarin e l’inasprirsi della crisi a Cuba, il processo contro Eichmann era stato l’evento mediatico del 1961. Milioni di persone avevano scoperto allora l’orrore dei campi di sterminio; un orrore di cui, fino a quel momento, si era taciuto anche in Israele.
«Si parlò di Eichmann?»
«Questo ora non me lo ricordo. Ma quando poi andai in Inghilterra, sì, seguii tutta la vicenda. Anche perché nel frattempo, ad Harvard, ero diventato intimo con Duccio che era ebreo. Te lo ricordi Duccio? D’estate, quand’eri piccola, ci vedevamo sempre con lui e le figlie. E poi dopo, al Churchill College, di ragazze e ragazzi ebrei ne ho conosciuti tanti. Te l’ho mai raccontata la storia di Eva?»
Eva Colorni, la figlia di Eugenio e Ursula Hirchmann. Che era andata pure lei a Cambridge seguendo il marito, anche se poi si era innamorata di Amartya Sen. «Povero Giorgio» diceva sempre mio padre quando narrava questa vicenda; faceva una strana smorfia, agitava la mano e commentava: «Mah! Com’è strana la vita...».
«Sì, papà! Me l’hai raccontata mille volte la storia di Eva e Giorgio» taglio corto. Anche se, da quando ho iniziato a scrivere questo libro, il periodo che mio padre ha passato a Cambridge – l’economia neokeynesiana e Joan Robinson, il socialismo e le discussioni sul sionismo – è scivolato in un angolo cieco della memoria. «Ma tornando a Eichmann, che hai fatto una volta rientrato in Italia? Hai cercato di capire meglio la posizione di tuo padre?»
Silenzio. I conti non tornano più: papà scopre il dramma della Shoah, ne discute con gli amici, simpatizza per la causa sionista e poi, tornato a casa, non fa nulla?
Certo, nell’Italia degli anni Sessanta, le cose non vanno come in Israele o in America o in Francia. Non vanno nemmeno come in Germania. Persino lì, dopo quasi dieci anni di amnesia collettiva, il capitolo sul nazismo inizia pian piano a riaprirsi. E nel 1963, due anni dopo il processo contro Eichmann, prende avvio a Francoforte il “secondo processo di Auschwitz”, fortemente voluto da Fritz Bauer, il procuratore del distretto dell’Assia. Dopo aver vissuto in esilio in Danimarca e in Svezia, Bauer torna in patria convinto della necessità, per i tedeschi, di un serio confronto con il passato. E anche se di anni ce ne vogliono tanti prima di riuscire a smuovere le cose – pare che fu proprio Bauer a segnalare al Mossad la presenza di Eichmann in Argentina quando si rese conto che l’apparato amministrativo e giudiziario tedesco non aveva la minima intenzione di muoversi – pure in Germania, alla fine, i conti col passato si iniziarono a fare.
Un’amica mi ha parlato di un romanzo, I senza memoria di Géraldine Schwarz, in cui l’autrice racconta la storia segreta di casa sua e cerca di capire come sia stato possibile rimuovere per anni il passato nazista o collaborazionista. L’ho comprato. Ma sono ormai alcuni mesi che giace intonso sulla mia scrivania. Cosa mi blocca?
In compenso, ho subito guardato il film Il labirinto del silenzio, sempre su consiglio della mia amica. Parla di un giovane procuratore che nel 1958, su istigazione di Fritz Bauer, inizia a indagare sui crimini commessi ad Auschwitz. Deve avere più o meno la stessa età che aveva mio padre quando andò in America. Come lui, non sa ancora nulla della Shoah. Ma nel film non si parla della sua storia, non c’è nemmeno un accenno al passato dei suoi genitori o dei suoi nonni. Il labirinto del silenzio non riguarda una storia familiare, come il romanzo di Schwarz. È per questo che non l’ho ancora nemmeno aperto?
È arrivato il momento di leggerlo, mi dico dopo la conversazione telefonica con papà. Prima di farlo, voglio però risolvere l’enigma dei genitori del nonno di mio padre. Iniziamo a tappare questo buco, penso. Poi passiamo anche a tutti gli altri. Torno sul sito dell’Archivio di Stato di Lecce e cerco il registro degli atti di nascita del comune di Neviano allargando le ricerche agli anni 1869, 1870 e 1872. Il nonno di mio padre è nato davvero nel gennaio del 1871, come il suo omonimo, ma i genitori non sono Gabriele e Adelaide, bensì Francesco Marzano e Agata Vetere. Aprendo anche i registri del 1872, però, mi rendo conto che Ferruccio aveva un fratello, un certo Armando. Com’è che pure quest’Armando è sparito nel nulla? Com’è che pezzi interi della vita di una persona possono scomparire senza lasciare alcuna traccia nella memoria familiare?
Continuo le ricerche. Scopro che Armando faceva il contadino e che Francesco era invece un proprietario terriero. Richiamo papà e glielo racconto, ma a lui questi due nomi non dicono molto. Quando invece riparlo con sua cugina e le cito Armando e Francesco, le si apre una finestra; a casa non si nominavano mai i parenti del nonno, ma ora che le dico che Francesco era un proprietario terriero, qualcosa se lo ricorda: i soldi dilapidati e la brutta fine del figlio minore. «Forse è questa l’origine dell’attenzione maniacale di nonno Ferruccio per i soldi, della sua fissazione per lo studio, del suo carattere insopportabile» mi dice. «Quando si andava a casa sua lo si doveva salutare baciandogli la mano, nessun nipote poteva dargli del tu. Io detestavo fargli visita.» Poi il suo tono cambia, si addolcisce. «Ma allora stai davvero ricostruendo la storia di zio Arturo?»
«Ci sto provando, sì.»
«Che bella cosa!» Si commuove. «Io ero molto legata allo zio, era una persona buona, generosa, gentile.»
«Senz’altro» commento fredda. «Ma era anche un fascista.»
«Erano tutti fascisti in quegli anni, Michela. Lo sai bene anche tu che nel 1931 furono solo dodici i professori ordinari che rifiutarono di giurare fedeltà al Duce. Come avrebbe potuto ribellarsi tuo nonno che faceva il magistrato?»
«Ma Arturo divenne subito fascista, non ebbe mica bisogno che glielo imponessero!» ribatto alzando leggermente il tono della voce. «E poi il fatto che a un certo punto tutti fossero fascisti non è una scusa, no?» Ora sono proprio arrabbiata. Ma lascio perdere. Perché me la devo prendere con la cugina di mio padre se quasi nessuno, in Italia, sembra aver mai davvero fatto i conti col Ventennio?
Géraldine Schwarz ha più o meno la mia età. Ha una madre francese e un padre tedesco. E ha deciso di ripercorrere la storia dei nonni intrecciando pubblico e privato, le vicende dei suoi parenti con quelle del popolo francese e del popolo tedesco.
“Non ero predestinata in modo particolare a interessarmi dei nazisti” scrive nell’incipit. “I genitori di mio padre non erano stati né dalla parte delle vittime né da quella dei carnefici. Non si erano segnalati per atti di coraggio, ma non avevano neanche peccato per eccesso di zelo. Erano semplicemente Mitläufer, persone che seguono la corrente, conformisti, gregari.”
Non è esattamente la storia di mio nonno, penso iniziando a leggere. Arturo non fu un semplice Mitläufer, fu un fascista convinto! Ma andando avanti nella lettura mi rendo conto che anche nel caso di Géraldine le cose sono più complesse. E che attraverso I senza memoria pure lei cerca di fare la pace con i segreti e i non detti della propria famiglia: nel 1938, Karl Schwarz rileva l’azienda petrolifera di Julius Löbmann, un imprenditore ebreo di Mannheim, pagandola una miseria; e quando alla fine della guerra viene contattato dall’avvocato di Löbmann – che a differenza del resto della famiglia si è salvato rifugiandosi in America – si rifiuta di risarcirlo.
Géraldine lo scopre frugando tra le carte di famiglia conservate in cantina. Da bambina, aveva vagamente sentito parlare della storia dell’acquisto di un’azienda, ma non aveva approfondito. Il padre non aveva mai affrontato direttamente il tema. Ed era stato solo più tardi, discutendo con sua zia, che la scrittrice aveva realizzato che c’era qualcosa che non tornava nella vicenda.
È esattamente come nel mio caso, penso, c’è di mezzo il rapporto con il padre. Dev’essere per questo che ci ho messo tanto prima di iniziare a leggere il romanzo e che adesso non riesco più a staccarmene. Le ore passano, ma io resto con gli occhi appiccicati al libro, senza aver più né fame né sonno. Voglio solo andare avanti nella lettura.
Le pagine in cui Géraldine riporta alcuni estratti di una lettera che suo nonno scrisse a Julius Löbmann nel 1948 sono molto belle. Commoventi i passaggi in cui racconta di quando decise di recarsi in Inghilterra per incontrare Lotte Kramer, una lontana parente di Löbmann. Ricchi di spunti e di informazioni i capitoli nei quali Schwarz analizza il processo attraverso il quale, in Germania, fu solo all’inizio degli anni Sessanta che si iniziò davvero il lavoro di rielaborazione dei crimini nazisti.
Vado avanti per ore, senza interruzione. Quando arrivo alla fine del libro, però, ho come un sentimento d’insoddisfazione.
Torno alle pagine in cui Géraldine ritrascrive stralci delle lettere di Karl a Julius, rileggo attentamente frase per frase, parola per parola. “Benché noi, come la maggior parte dei tedeschi, non avessimo voluto il destino crudele dei suoi correligionari, ormai dobbiamo soffrirne tutti quanti. La nostra controversia, che non mi aspettavo, ne è un esempio, visto che di certo io non l’ho mai messa in una situazione difficile [...] La situazione economica da noi è desolante. Ho l’impressione che si stia facendo un’idea sbagliata dei nostri affari [...] Quest’anno mia moglie è stata operata due volte per un’ulcera intestinale. Capita sempre qualcosa.” Leggo più volte pure i commenti della scrittrice: “[Karl] deve essere rimasto sinceramente sconvolto apprendendo che gli ebrei deportati erano stati assassinati in modo abietto nei campi. Ma non coglieva la portata di quella realtà, al punto da paragonare il suo dolore a quello di Julius Löbmann”. Géraldine è perfettamente consapevole che suo nonno negò ogni responsabilità nei crimini nazisti e che, come la stragrande maggioranza dei tedeschi, attribuì la colpa ai soli dirigenti del Terzo Reich. Ma alla fine, almeno secondo me, suo nonno, lo giustifica: Karl, in fondo, non fece altro che seguire la corrente e, alla fine della guerra, considerò giusto mettere un punto e andare a capo. Suo nonno ebbe la sfortuna di nascere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Perché Géraldine si nasconde dietro la storia con la S maiuscola? Perché continua a dire che i nonni furono dei semplici Mitläufer anche quando, raccontando le “aste nauseabonde” che vennero organizzate nell’ottobre del 1942 con i beni degli ebrei appena deportati, ammette che la famiglia Schwarz vi prese parte? “Date le massicce dimensioni dei loro mobili, anche i miei nonni devono aver acquistato in loco. Avevano conosciuto gli ex proprietari? Probabilmente no, ma li immagino introdursi come dei ladri in quelle case abbandonate nella fretta di una partenza improvvisa.” Le aste erano annunciate sui giornali, ed era chiaro che si trattava di beni degli ebrei, anche perché a volte l’annuncio precisava: “Suppellettili di appartamenti di proprietà non ariana”. E quindi? penso leggendo e rileggendo queste pagine. A partire da quando si diventa colpevoli? È colpevole solo chi organizza o mette in atto lo sterminio, oppure anche chi lascia che le cose accadano? Come i suoi nonni, che vivevano a Mannheim e che, il 22 ottobre 1940, assistettero muti al rastrellamento di duemila ebrei.
Ma forse sono io che esagero. Sono io che sono ostinata e intransigente. Cos’altro avrebbe dovuto fare la scrittrice? Non mi basta che abbia riaperto armadi e cassetti per raccontare la storia dei nonni mettendo una toppa all’amnesia dei propri genitori? Non è in fondo quello che cerco di fare anch’io, dopo la generazione dei miei genitori che è stata, come quella dei genitori di Schwarz, una generazione senza memoria?
Il vero punto è questo: l’amnesia di un padre. Che poi, nel caso di Géraldine, non era nemmeno una vera e propria amnesia. Il figlio di Karl, dopo aver visto alcune fotografie dell’appartamento com’era prima della guerra, qualche sospetto l’aveva avuto: da dove venivano quei mobili e quelle suppellettili? Ma nonostante i sospetti non aveva indagato. “A cosa sarebbe servito?” risponde a sua figlia quando lei glielo domanda. “Già quando pronunciavo il nome di Löbmann la faccia di mio padre diventava tutta rossa. Si alzava in piedi, chiudeva la finestra per riguardo verso i vicini e si metteva a urlare così forte che lo si sentiva fino in fondo alla strada.”
A cosa sarebbe servito. È questo che ha pensato mio padre?
Jacques dice di fare attenzione a non mischiare tutto. Dice: «Lo sterminio degli ebrei è opera dei nazisti, l’idea stessa di sterminio è la colonna vertebrale del nazionalsocialismo, era presente già in Mein Kampf». Dice: «Non puoi mettere sullo stesso piano persecuzione e sterminio».
«Ma c’è una continuità, no? A partire dal momento in cui si accetta l’idea della “purezza di una razza”, si censiscono gli ebrei e li si priva di ogni diritto, tutto diventa possibile, non credi? Dove la metti l’ideologia dell’uomo nuovo? E la folle antropologia fascista secondo cui, a dire del Duce, si doveva tutelare la razza italiana da ogni pericolosa contaminazione di sangue?»
Jacques mi rimprovera di cadere nella trappola della china scivolosa. Lo ascolto. Rifletto. Smonto il ragionamento. Ricomincio tutto daccapo.
Chiunque si occupi di filosofia morale conosce la fallacia della china scivolosa. Quando ne parlo ai miei studenti, cerco di far capire loro che si tratta di un sofisma, ossia di un modo errato di ragionare: «Pensate a una biglia su un piano inclinato che parte lentamente, poi accelera, fino a quando non c’è più modo di controllarne la traiettoria. Pensate a chi si oppone all’IVG farmacologica. Il ragionamento che viene fatto è sempre lo stesso: con la pillola RU486 si può abortire in maniera meno intrusiva, senza che una donna si sottometta a un intervento chirurgico; questo implica che abortire diventa semplice come bere un bicchier d’acqua; conclusione: chiunque abortirà. Anche se ovviamente il ragionamento è tutto sbagliato: solo chi ha già deciso di interrompere una gravidanza abortisce, e poterlo fare in maniera meno dolorosa non significa istigare all’aborto, ma limitarne i danni. Analogo discorso vale per il fine vita: permettere a chi dalla vita si è già allontanato di andarsene via significherebbe, nella logica della china scivolosa, far poi morire anche chi non lo vuole, e quindi legittimare l’omicidio. Come volevasi dimostrare».
È questo il modo in cui ragiono parlando degli ebrei? È questo che faccio quando dico che discriminare significa perseguitare e perseguitare, prima o poi, porta allo sterminio?
Provo a mettere in fila tutto: la legislazione antiebraica in Italia ha un’impostazione razzistica biologica; gli ebrei vengono censiti, indipendentemente dalla religione, ed espulsi prima dalle cariche pubbliche e dall’insegnamento, poi anche dagli impieghi privati; nel 1942, Mussolini viene a conoscenza della soluzione finale ma mantiene salda l’alleanza militare e ideologica con la Germania nazista; nel novembre del 1943 viene predisposto non solo il sequestro dei beni degli ebrei, ma anche il loro arresto e il loro internamento.
Non c’è alcuna fallacia nel mio ragionamento: le leggi del 1938 sono la premessa allo sterminio. Tanto più che la persecuzione contro gli ebrei in Italia non fu né improvvisa né imposta da Hitler – come hanno invece sostenuto studiosi quali De Felice o Mosse. La persecuzione contro gli ebrei è perfettamente in linea con l’esperienza coloniale in Etiopia. Quando, nel 1936, il Duce parte in guerra contro il “meticciato”, e pretende che i “meticci” siano un attentato biologico all’integrità della razza, ci sono già tutte le premesse affinché gli ebrei diventino il “nemico interno” da abbattere.
Questo capitolo della propria storia, gli italiani lo vogliono cancellare; continuano a considerarsi “brava gente”, ma la verità è tutt’altra.
Sbaglia chiunque cerchi inutili giustificazioni. Ma forse sbaglio anch’io quando mi concentro solo sull’amnesia di mio padre. La vera questione, infatti, riguarda me stessa. Cos’ho fatto io per quasi cinquant’anni? Non sono stata pure io complice del rimosso familiare?
All’improvviso, mi rendo conto che buttare la colpa addosso a mio padre è solo un modo per giustificare me stessa: la famosa teca con le medaglie del nonno era appesa nel salone rosso della casa di Campi, e quand’ero piccola e giocavo a nascondino ci passavo sempre davanti, così come passavo davanti alle foto in cui Arturo era ritratto in tenuta militare, con il berretto col fregio fascista e l’aquila dorata. E quindi? Quali conclusioni ne traggo?
Lista delle scuse: a Campi abbiamo smesso di andarci alla fine degli anni Settanta dopo la morte dei nonni, e la teca non l’ho mai più rivista; quando a scuola ho iniziato a studiare gli anni del fascismo, la situazione a casa era tesa: papà era tornato a Roma da poco e passava i pomeriggi chiuso a chiave nello studio con mio fratello; io ero ossessionata dal bisogno di andarmene e di lasciarmi tutto alle spalle; arrivata a Pisa, ho cominciato a soffrire di anoressia; dopo la laurea e il dottorato mi sono trasferita a Parigi; per oltre dieci anni, in Italia sono tornata solo di rado.
Ho la mania delle liste: lista dei capi d’abbigliamento da lavare, lista delle cose da comprare, lista degli articoli da scrivere, lista dei libri da leggere. Sono fissata: mettere le cose in fila l’una dopo l’altra, giorno per giorno, talvolta anche ora per ora, mi rassicura. Cresciuta circondata dalle regole e dalle scadenze, non so cosa significhi non avere orari, e quando qualcosa va storto mi impallo. Sulla scrivania del mio Mac c’è un file, “cose-da-fare”, che aggiorno ogni settimana, sottolineando in rosso le scadenze più urgenti, in verde quelle meno importanti, in giallo le cose che posso forse rimandare, anche se ogni volta che utilizzo il giallo mi sento a disagio, mi manca l’aria, e per riuscire a respirare talvolta forzo talmente tanto che poi finisco col fare un movimento sbagliato e mi viene il torcicollo – cervicali, dorsali, lombari: ho sempre male da qualche parte, il dolore non passa nonostante i cerotti e le fasce termiche, l’altro giorno un’amica mi ha detto che è perché ne ho “plein le dos”, “la schiena piena”, e allora cedono le vertebre, cedono i muscoli, cedono i tendini; tiro, tiro, tiro... finché la corda non si spezza. A volte penso che la mia vita sarebbe stata completamente diversa se da bambina fossi stata meno stritolata dagli orari e dalle regole, e allora quando ascolto qualcuno lamentarsi di non aver avuto un’educazione sufficientemente ferrea, lo odio: che ne sai tu di cosa significa non aver mai potuto vivere una giornata senza il peso schiacciante del “devo”, “non posso”, “dài”, “ancora uno sforzo”?
Ma sto divagando.
Mi nascondo dietro la mia ossessione per le liste e per l’ordine, ed evito di guardare in faccia la realtà.
Evito soprattutto di cercare il minimo comun denominatore che c’è dietro tutte le scuse che ho appena messo in fila, anche se la strategia per nascondere la mia responsabilità, pure adesso, è esattamente la stessa: la fuga.
Fuggo da quando sono piccola.
Fuggo dal mio passato e da mio padre.
Fuggo dall’Italia e dalla mia madre lingua.
Fuggo dalla colpa. Ma qual è esattamente la mia colpa?
Quando per la prima volta ho rimesso piede nella casa di Campi, dopo aver convinto papà a non venderla, sono stata travolta dai ricordi.
Appena entravo in una stanza, ero investita dai colori e dai suoni del passato. Mi spostavo dall’immagine di quando alla fine dell’estate partivamo, e papà chiudeva il portone, e la nonna si attaccava alla maniglia e la baciava, e papà la tirava via – «Tornerai l’anno prossimo» diceva brusco, «ora basta!» – a quella del giorno in cui morì la nonna, e papà piangendo a dirotto si precipitò tra le braccia del medico, che era un suo amico d’infanzia, e io volevo correre da lui, e mamma mi disse di lasciarlo stare. Rivedevo la zia che ci regalava i dolci, li contava sistemandoli nel piatto, avvicinando il viso e toccandosi gli occhiali spessi per vedere meglio – una volta, approfittando di un istante in cui si era voltata, avevo afferrato una pasta, e lei ricontando i dolci ne aveva aggiunto un altro. Ripensavo alla fronte gelida della nonna: era nella bara, in salone, io mi ero avvicinata di nascosto e l’avevo toccata, ma ero corsa via spaventata dal freddo cavo e profondo che avevo sentito sul palmo della mano.
La prima estate che ho passato a Campi da proprietaria è stata quella del 2017. Immersa nel presente, scacciavo con la mano anche solo l’ombra della storia dei miei nonni. E, quando papà è venuto a vedere la casa ristrutturata, ero talmente fiera che avevo solamente voglia di urlare: “Hai visto che ce l’ho fatta, papà? Hai visto che non era impossibile?”. Ma poi non l’ho né urlato né detto. Che cosa cercavo di ottenere? Volevo umiliarlo? Dirgli che io ce l’avevo fatta solo per sottolineare che lui, invece, non ne era mai stato capace? E poi di cosa, esattamente, ero fiera? Avevo riparato la casa di famiglia, certo. Ma bastava ristrutturare un palazzo per riparare anche la storia di chi ci aveva abitato e vissuto?
Sono dovuti passare ancora due anni prima che la smettessi di prendermi in giro da sola e di mentirmi. Due anni esatti. Fino alla nascita di Jacopo, nell’agosto del 2019. Come se fosse quello il punto di non ritorno e mi trovassi di fronte a un muro: se mio fratello, che è gay, era riuscito a diventare padre, perché io non ero stata capace di avere un figlio?
Sono settimane che penso in maniera ossessiva ai cumuli di fascicoli e documenti accatastati nello scantinato delle cugine di mio padre, e mi arrabbio con me stessa: perché non li ho messi in ordine l’estate scorsa? Che cosa aspettavo? Papà non voleva che li toccassi, è vero. Ma questo non mi ha impedito, a gennaio, di entrare nella cantina e trovare il diario di guerra di mio nonno, no? Inutile che cerchi scuse, Michela! mi sono rimproverata. Questa volta tuo padre non c’entra niente, sei tu la sola responsabile, tu e la tua smania di fuggire!
Sono ancora bloccata a Parigi.
Tra la fine delle lezioni del secondo semestre e l’inizio degli esami, avevo previsto di passare a Campi un paio di settimane. Ma la pandemia ha squadernato pure questi piani. E adesso sono furibonda con me stessa. Quanto tempo ho sprecato! E se ora le carte sono illeggibili perché nel frattempo l’umidità le ha rovinate tutte? Sono stata una stupida, una superficiale, un’idiota! È tutta colpa mia!
«Dai tempo al tempo» diceva sempre mamma quand’ero piccola e vedeva che avevo tanta fretta – ho sempre fatto fatica ad aspettare quando c’era qualcosa che mi interessava o che volevo. Lei lo diceva per calmarmi, anche se il risultato che otteneva era l’esatto contrario. Ma questa frase che da bambina non sopportavo, d’un tratto assume tutt’altro significato: il tempo dell’elaborazione non è mai lineare; il tempo, per depositarsi, ha bisogno di tempo.
Altrimenti lo si attraversa, ma non si vede nulla.
E i bordi e gli angoli del passato restano bui.
Nonostante le tracce che certe cose e certe parole, inevitabilmente, lasciano su di noi.