«Ho trovato una cosa che apparteneva al nonno, ti interessa?»
Papà, al telefono, cambia discorso. L’ho chiamato per essere certa che non faccia stupidaggini. Anche se in Italia non c’è più il lockdown, il virus continua a circolare, e mamma mi ha detto che lui si comporta in maniera irresponsabile: si è fissato che ha bisogno di far venire a casa Giorgio, un ragazzo che da un paio di anni lo aiuta col computer, e non vuole sentire ragione. «E se Giorgio ci porta in casa il virus?» insiste mamma, che non ce la fa più, questi mesi, per lei che è rimasta chiusa in casa da sola con lui, sono stati molto pesanti. «Ti prego, Michela, parlaci tu con lui, tu sei l’unica a cui dia retta!»
E allora lo chiamo. Anche se non è vero che papà mi ascolta, fa soltanto finta. Papà ascolta solo se stesso. E fa il furbo, perché poi è intelligente, quindi trova sempre il modo di svicolare, imbrogliare, cambiare le carte in tavola. È per questo che, mentre gli sto ripetendo per l’ennesima volta che è anziano e che deve fare attenzione, lui sposta il discorso.
«Ti interessa?»
«Certo che mi interessa, cos’è?»
«È un libro. E sulla prima pagina c’è pure un’annotazione. Ma ti dico tutto solo se convinci tua madre a far venire di nuovo Giorgio a casa.»
Papà. Identico a se stesso. Sempre. Anche se ha più di ottant’anni.
«Guarda, papà, che se ti ammali, poi sei tu che rischi di morire, mica io!»
«Ora ci penso.»
«Va bene, pensaci. Nel frattempo, mi dici che cos’è che hai trovato?»
È un romanzo di Arthur Koestler, uno scrittore ungherese, intitolato Buio a mezzogiorno. Pubblicato in inglese nel 1941, e tradotto in italiano qualche anno più tardi, il romanzo racconta la storia di un alto funzionario del partito sovietico che, accusato di attività controrivoluzionaria, viene arrestato in piena notte, chiuso in cella, giudicato colpevole e condannato a morte. Sulla prima pagina del libro, con quell’attenzione maniacale che mio nonno aveva sempre per i dettagli, si legge: “Avvocato Arturo Marzano, Studio Legale, Campi Salentina e Lecce, 8 gennaio 1949”.
Ho lasciato il nonno nell’ottobre del 1944, quando viene congedato. Lo ritrovo nel gennaio del 1949, che fa l’avvocato. Cos’è successo nel frattempo? Perché non è più magistrato?
Provo a chiederlo a papà, che però non lo sa. Lui ricorda solo che, nel luglio del 1949, suo padre partecipò come sostituto procuratore a un celebre processo contro alcuni comunisti accusati di aver organizzato una strage a Ginosa, e che poi vennero giudicati innocenti e assolti. Di quando il padre faceva l’avvocato, invece, non ricorda niente.
Cerco su internet, ma non trovo assolutamente nulla. Inutile che mi accanisca. Lo studio legale dell’avvocato Arturo Marzano è assente dal web. Ho davvero bisogno di accedere al suo fascicolo personale, mi dico. Ormai non posso più farne a meno, penso mentre sulla pagina online dell’Archivio centrale di Roma leggo che è stata riaperta al pubblico la sala lettura: dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 13.30. Ottimo, commento con Jacques. Faccio un salto a Roma prima dell’inizio della seconda sessione di esami.
Piccolo problema: per motivi di sicurezza, nella sala lettura non sono ammesse più di dieci persone al giorno, è necessario prenotarsi online e, quando provo a selezionare una data, mi rendo conto che non c’è più alcun posto almeno fino a fine luglio.
Far di necessità virtù. È così che si dice, vero? Chi mi impedisce di provare ad aggirare il problema e di inoltrare una richiesta di ricerca archivistica per corrispondenza? Chi mi vieta di fare come Anne Weber, la scrittrice franco-tedesca che per ricostruire la storia del nonno scrive agli Archivi federali tedeschi e nel giro di pochi giorni riesce a farsi inviare una copia integrale dell’intero dossier? “L’amministrazione tedesca corrisponde a tutti gli stereotipi” scrive Anne nel suo libro, Vaterland – che leggo nella versione francese, è lei stessa che si è autotradotta dal tedesco; vive come me da anni in Francia; come me scrive sia in francese sia nella propria lingua madre; come me è fuggita dal proprio Paese, anche se non so perché. “[L’amministrazione tedesca] è rapida, efficace, e risponde ai miei messaggi in maniera neutra e discreta” continua dopo aver ricevuto via mail tutti i fascicoli e le numerose carte del nonno. “Sono stupita di non incontrare alcun ostacolo; nessuno mi prega di giustificarmi, di dimostrare ad esempio che sono davvero la nipote che pretendo di essere nonostante non abbia lo stesso cognome di mio nonno. A quanto pare, tutti possono avere accesso a questi fascicoli e ottenerne una copia, a condizione di pagare le spese di riproduzione.”
Oddio, penso nel momento stesso in cui sto per decidermi a scrivere. Se pure gli Archivi di Roma corrispondono agli stereotipi che circolano sull’amministrazione italiana, passeranno settimane prima di capire quanti moduli si debbano riempire e quante pratiche ci siano da sbrigare prima di ottenere qualcosa. Poi mi dico che sto reagendo esattamente come mio padre – è complicato, non c’è modo di risolvere il problema, rinuncio – e che in fondo non costa niente provare. Al limite nessuno mi risponderà e saranno solo confermati gli stereotipi, no?
Due giorni dopo, ricevo una risposta del tutto contraria agli stereotipi: precisa, chiara, neutra. La dottoressa Arfé, responsabile degli Archivi, mi scrive di aver controllato gli elenchi dei magistrati e di aver trovato il nominativo di mio nonno. Mi spiega che il fascicolo di Arturo Marzano si trova nella busta numero 619. Conclude dicendo che posso effettivamente inoltrare una richiesta al responsabile della sala lettura e ottenere via mail una riproduzione.
È allora, però, che molti stereotipi si confermano. Il responsabile della sala lettura – o chi per lui, impossibile sapere chi scriva visto che nessun messaggio che mi arriva da acs.salastudio@beniculturali.it è firmato – mi chiede di trasmettere a chi di dovere (cioè?), e debitamente compilata, una domanda di ammissione alla consultazione telematica. Cerco allora di compilare debitamente il modulo in cui, oltre ai dati anagrafici, mi viene chiesto di specificare in che anno io abbia conseguito il mio dottorato, in quale istituto di ricerca io svolga la mia attività, e la lista delle principali pubblicazioni legate al materiale archivistico che intendo consultare. Specifico che non ho ancora nessuna pubblicazione legata al materiale che intendo consultare, e che la ricerca riguarda la ricostruzione della vita di mio nonno. Ma la risposta non deve piacere al responsabile della sala lettura – o a chi per lui – perché la mia mail resta per giorni senza risposta. Riscrivo specificando che la ricerca in oggetto mi è comunque necessaria per una futura pubblicazione, incrociando le dita. A quel punto la replica arriva, ma non è esattamente quella che speravo: “Abbiamo richiesto la busta da lei indicata, appena possibile le sarà inviato un preventivo per la riproduzione del materiale, ma la lista di attesa è lunga, dovrà avere pazienza”.
«Come volevasi dimostrare» diceva sempre la mia professoressa di matematica del ginnasio quando finiva di svolgere un teorema alla lavagna, si voltava a guardarci, e sorrideva soddisfatta. Anche se io non sono affatto soddisfatta. Perché in Italia è sempre tutto così faticoso?
Scrivo nuovamente a Stefano, che gli Archivi li conosce bene, e gli chiedo un aiuto. Gli spiego il problema, e lui dopo un paio di giorni mi dice che il fascicolo di mio nonno si era arenato in un ufficio: «Ma adesso dovrebbe essere tutto a posto, il responsabile della sala lettura ti scriverà o chiamerà a breve, vedrai che la cosa, adesso, si risolve». E infatti, il giorno dopo, un archivista mi chiama, ma nulla si risolve. Mi dice che il materiale è stato identificato, ma non è possibile riprodurlo perché il fascicolo di mio nonno è alto una quindicina di centimetri: «La cosa è inusuale, i fascicoli sono in genere smunti, ma questo è molto voluminoso, impossibile farne una copia».
«E quindi?»
«Quindi posso provare a prenotarle un posto intorno al 23 o al 24 luglio, va bene per lei?»