Il 25 luglio 1943, Mussolini viene arrestato. Vittorio Emanuele III nomina il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo e annuncia alla radio di aver ripreso il comando delle forze armate: “Nell’ora solenne che incombe sui destini della patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione essere consentita”. Il 2 agosto viene soppresso il PNF, viene ordinata la cancellazione della dicitura “fascista” dalla denominazione di ogni ente e organizzazione e si decide di eliminare dalle divise, dai timbri e dalla carta intestata i fasci littori. L’8 settembre, Badoglio rivela di aver firmato l’armistizio. All’alba del 9 settembre, senza lasciare né ordini né disposizioni precise per le truppe e per gli apparati dello Stato, il re, Badoglio e alcuni esponenti del governo abbandonano Roma alla volta di Brindisi. Il 13 ottobre, mentre Mussolini – nel frattempo liberato dai tedeschi – prende il controllo della Repubblica di Salò, l’Italia dichiara formalmente guerra alla Germania. Il 28 dicembre, il re firma un decreto sulla defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali e delle aziende private esercenti servizi pubblici.
L’Italia prova a voltare pagina, ma la ripulitura è di superficie: la stragrande maggioranza dei prefetti, dei questori e dei sindaci resta al proprio posto, e il personale dell’apparato fascista viene di fatto quasi integralmente assorbito all’interno dello Stato monarchico. “Tutti si conoscevano, e nessuno poteva certo pensare di scagliare la prima pietra, visto che tutti – chi più chi meno – erano stati fascisti o avevano avuto a che fare con il fascismo” commenta lo storico tedesco Hans Woller, specialista dell’epurazione in Italia.
Badoglio si è impegnato con gli Alleati a far di tutto per evitare rigurgiti fascisti sul territorio del nuovo governo. Ma anche nel Regno del Sud l’epurazione viene applicata col contagocce. Sebbene la guerra si stia via via allontanando, la scia di sangue che si lascia alle spalle è lunga. La gente ha paura. Gli spiriti sono inquieti.
«È per motivi di pubblica sicurezza, don Pippi» risponde imbarazzato un giovane carabiniere a Giuseppe Guarino. L’ex podestà di Campi è sulla soglia della propria abitazione, e fissa incredulo quel gruppo di compaesani che sono venuti per arrestarlo. «Ssignuria perdonaci, ma abbiamo ricevuto ordini precisi.»
La sera del 13 ottobre 1943, quattro carabinieri si presentano in casa Guarino e fanno il saluto romano. «Sono gli angloamericani, don Pippi, noi non c’entriamo, ti pare ssignuria?»
Immagino la scena mentre leggo le memorie di Tonino, il figlio di don Pippi, che si lamenta di come a Campi, nel giro di poche settimane, tutti avessero cambiato casacca e voltato le spalle alla sua famiglia, abbandonando il padre a un infame destino. Tutti, precisa Tonino, tranne il procuratore Marzano.
Di nuovo? Dapprima sbuffo. Poi ci ripenso. Sono incerta se scandalizzarmi per l’aiuto dato al cognato di Starace – che nel frattempo aveva aderito alla Repubblica di Salò e che nell’aprile del 1945, dopo un sommario processo, sarà fucilato in piazzale Loreto – oppure rallegrarmi per la fedeltà dimostrata da mio nonno all’amico in un momento così delicato. Fatto sta che, alcuni giorni dopo l’arresto di don Pippi, mio nonno si attiva e mette a disposizione della famiglia Guarino mezzi e relazioni. Chi potrebbe d’altronde impedirglielo? È procuratore militare del re, non ha nulla da rimproverarsi, si sente in pace con la propria coscienza.
«Sursum corda, ragazzo!» Arturo cerca di rassicurare Tonino. Ha chiesto al proprio autista di condurlo a casa di don Pippi, è sceso dall’auto, si è avvicinato al portone. Ma non ha fatto in tempo a bussare che Tonino è già fuori. È uscito in punta di piedi e ha accostato piano la porta, non vuole svegliare la madre, desidera soprattutto evitarle inutili e ulteriori preoccupazioni.
«Da quando sono venuti a prendere papà, è molto agitata.» Tonino prova a darsi un contegno, ma quando Arturo lo abbraccia non ce la fa a trattenere le lacrime. «Grazie, procuratore.»
«Sciamune, Tonino! Sali veloce in macchina che siamo già in ritardo. E poi cce bbede stu procuratore? Quante volte te lo devo ripetere di non chiamarmi così?» Gli dà una pacca sulla spalla, lo lascia entrare in auto, gli si siede accanto.
Le strade di Campi sono deserte. Nessuno si azzarda a violare il coprifuoco. “Sembra che ogni sera il paese si svuoti” pensa Arturo guardando fuori dal finestrino. Anche se il buio è talmente fitto che non si riescono a vedere nemmeno i vigneti e gli uliveti. L’aria è come immobile. A tratti arriva l’eco di uno sparo lontano.
«Statti calmo, Tonino! Ci penso io» dice Arturo quando il veicolo inchioda di fronte a un posto di blocco, e un soldato americano, col fucile puntato, chiede dove stiano andando a quell’ora della notte. «Siamo diretti al Comando del 9° corpo d’armata» risponde fermo mio nonno. «Tutto in regola, soldato.» Gli porge i documenti e il lasciapassare. «Sono il procuratore Marzano.» Alza il tono della voce. «Al servizio della regia marina militare.» Scandisce parola per parola.
Che mio nonno fosse un uomo autorevole e avesse parecchie relazioni, lo sapevo già. Che fosse un uomo generoso, l’ho capito mettendo insieme brandelli di ricordi dei miei parenti. Che dopo l’armistizio continuò a servire il re, assolvendo nel marzo del 1944 dieci membri dell’equipaggio del MAS 433 accusati di insubordinazione e violenza contro Ruggero Frezza – il tenente di vascello che, subito dopo l’armistizio e l’ordine di raggiungere un porto italiano non occupato dai tedeschi, scelse di collaborare col nemico e per due mesi, con bandiera tedesca, ordinò una decina di missioni –, l’ho scoperto durante le mie peregrinazioni online. Adesso, però, percepisco un’ulteriore sfaccettatura del suo carattere: la profonda e sincera lealtà che legava Arturo ai propri amici. E nonostante l’imbarazzo che provo – visto che l’amico in questione è il cognato di Achille Starace – sento anche come un sollievo. In fondo, nulla è peggio del qualunquismo dei voltagabbana.