Il 23 luglio, è mio fratello che va all’Archivio centrale di Roma. Alla fine, è lui che mi viene in aiuto; se ho bisogno di lui, Arturo c’è sempre – come quando, nel 2011, mi ero operata al ginocchio, ero immobilizzata a casa, e lui, rendendosi conto che Jacques non sapeva nemmeno da dove iniziare, aveva preso un biglietto aereo ed era venuto a Parigi, aveva fatto la spesa e aveva cucinato, e i primi passi con le stampelle li avevo fatti con lui.
“Busta 619, Fascicolo 84021 legato con una corda rossa, spessore: 15 cm” mi scrive su WhatsApp, inviandomi le prime immagini del dossier, fotografato prima di fronte, poi di profilo. Sulla copertina, ci sono il nome e il cognome di mio nonno scritti a mano con una matita blu. All’interno, centinaia di documenti: stato matricolare, encomi, onorificenze, lettere, decreti di nomina, promozioni, ricorsi, raccomandazioni, verbali. C’è anche un “fascicoletto riservato”, che mio fratello riproduce integralmente, e dal quale risale poi, grazie ai consigli di Giovanni, un suo amico, ad altre due buste, la n. 5 e la n. 9, relative al processo di epurazione cui venne sottoposto mio nonno nell’ottobre del 1944.
Mio fratello fotografa diligentemente tutto. È partito alle 5.30 del mattino per essere a Roma alle 9 precise, e approfittare così delle poche ore durante le quali è aperta la sala lettura. Deve concludere entro le 13.30, il tempo non è molto, non ha un minuto da perdere. Ogni tanto mi manda un SMS o mi chiama, lo storico è lui, ma essendo ormai da mesi immersa nella storia di mio nonno, sono io che posso aiutarlo a contestualizzare un documento o una circolare, e a decidere se qualcosa mi interessa o meno.
La sera stessa, mi invia il materiale che nel frattempo, da bravo storico, ha già organizzato in dossier e sottodossier: stato matricolare, “fascicoletto riservato”, sottofascicolo grande, deduzioni difensive, allegato 1 e allegato 2, sentenza. Quando ricevo i documenti, ho un momento di sconforto, mi sento persa, non so dove mettere le mani. Apro le foto a caso, leggo qualcosa, poi chiudo tutto: troppa roba, troppo tardi, troppa vergogna, troppo dolore.
Dico a Jacques: «Non ce la faccio». Dico: «Ci sono scritte cose orribili». Dico: «È al di là delle mie forze». Poi torno davanti al computer, respiro forte, riapro la cartella “nonno” e inizio a leggere in ordine i documenti.
Pian piano mi rendo conto che tante cose già le sapevo, molte le avevo ricostruite a partire dalle foto e dai ricordi, parecchie le avevo intuite grazie agli archivi online della «Gazzetta Ufficiale». Quando però arrivo al “fascicoletto riservato” e alle buste n. 5 e n. 9, capisco che la realtà supera di molto l’immaginazione, e che è tutto peggio rispetto a quanto avessi pensato. Cioè. Non proprio peggio, ma più doloroso. Cioè. Non proprio più doloroso – di dolore ne ho provato tanto quando ho capito che della storia della mia famiglia non sapevo nulla, che non è vero che eravamo sempre stati dalla parte buona della storia, che non ero affatto nata partigiana, come in fondo avevo sempre creduto – ma più vero: quella verità che non si può negare perché certificata dalle carte, anche se le carte dicono solo un pezzo della realtà, e dietro le requisitorie, gli atti di accusa, i processi e le sentenze c’è tutta la vita di una famiglia che le carte dimenticano, un mondo che si sfalda e che precipita, una vita nuova da inventare ricominciando tutto daccapo.
Cosa successe esattamente a mio nonno alla fine del 1944? E mio padre, che all’epoca aveva otto anni, cosa capì e cosa invece non seppe mai? Quali segreti diventarono cripte e quali cripte seppellirono per sempre la sua joie de vivre?
Ripenso al libro di Anne Weber. Ripenso a quando riceve dagli archivi tutto il materiale che riguarda suo nonno, e d’un tratto realizza che il ritratto che viene fuori da quelle carte non corrisponde all’idea che ne aveva. Via via vengono a galla brandelli di verità. Suo nonno aveva fatto parte del Sicherheitsdienst, i servizi segreti nazisti. Ma più va avanti nella lettura dei documenti, più prova imbarazzo: si sente come un’intrusa che spia dal buco della serratura la vita di una persona vissuta in un’epoca ormai inesistente. Se suo padre non aveva mai voluto guardare in faccia la realtà, che diritto ha lei, ora che il padre è anziano, di buttargliela addosso?