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Il 16 ottobre 1944, Arturo Marzano è convocato dal procuratore del re di Lecce. È lunedì mattina, l’appuntamento è alle 10, ma alle 9.30 lui è già davanti alla porta dell’ufficio. Sa perfettamente cosa lo aspetta, ma in cuor suo serba ancora una vaga speranza.

Il procuratore lo fa accomodare, mormora: «Mi dispiace, Arturo» e gli consegna la nota n. 472 con la quale la Commissione di epurazione gli comunica che è sottoposto a giudizio. Gli si contesta di aver partecipato attivamente alla vita politica del fascismo e di averne fatto l’apologia; lo si accusa di essere stato conferenziere, propagandista, docente di storia e dottrina del fascismo e componente del consiglio di disciplina presso la federazione fascista di Lecce; gli si imputa di aver rivestito le qualifiche di “squadrista”, “marcia su Roma”, “antemarcia”, “sciarpa littorio” e di essere stato ufficiale della MVSN, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.

Arturo scorre velocemente la nota, ha un termine di dodici giorni per presentare eventuali deduzioni difensive. La vista gli si appanna. Se non è servita a nulla la relazione di Giacomo Vita, avvocato generale della Corte d’Appello, che certificava la sua ineccepibile moralità privata e pubblica e negava l’esistenza di tracce di una sua vera e propria attività politica, cos’altro mai poteva fare? All’improvviso l’ottimismo, la volontà, le certezze, la forza, la spocchia, la vanità, ogni cosa si sbriciola e il mondo gli crolla addosso.

Il procuratore gli consiglia di non perdere tempo, di preparare un solido memoriale difensivo, di non esitare a cercare l’appoggio di colleghi e amici. Arturo annuisce, ringraziandolo per la cortesia. Ma quando esce dalla procura le gambe gli tremano. Vaga alcune ore per le strade di Lecce. Cambia direzione quando, riconoscendo da lontano visi noti, teme che qualcuno voglia intrattenersi con lui, invitandolo magari a prendere un caffè o a bere un bicchiere di vino. Ripensa a quel giorno di maggio in cui partecipò alla nascita dei Fasci di combattimento di Roma, ripensa al 28 ottobre 1922, ripensa al processo dell’agosto del 1924 contro i sovversivi che cantavano Bandiera rossa, ripensa all’incontro col Duce del 1926, ripensa agli ultimi anni durante i quali, da sostituto procuratore del re e procuratore per i minorenni, non ha fatto altro che battersi per il rispetto dell’ordine e della disciplina. Ripensa a tutte queste cose insieme e, nel suo foro interiore, si sente in pace con la propria coscienza.

Ma, quando nel pomeriggio torna a Campi, è perso, svuotato.

Non vuole che la moglie si preoccupi, non vuole far soffrire i figli, non vuole soprattutto dare adito a chiacchiere e pettegolezzi. Non sa di chi fidarsi, non capisce il perché di tanto accanimento contro di lui, che in fondo è solo un umile servitore dello Stato, sono ben altre le persone con le quali eventualmente prendersela!

Arrivato a casa, Arturo si chiude nel suo studio. Ha bisogno di riflettere, capire chi, in quel momento, possa venirgli incontro e aiutarlo. “La prima cosa da fare è smontare le imputazioni” si dice. Non può ovviamente negare di aver rivestito le qualifiche di “squadrista”, “marcia su Roma”, “antemarcia” e “sciarpa littorio” – è lui stesso che il 13 gennaio, sperando di approfittare di un articolo del decreto legge del dicembre del 1943, si era autodenunciato. Ma cosa c’entra tutto ciò con l’accusa di settarismo e di apologia fascista? Non può negare la sua appartenenza ai Fasci di combattimento sin dall’inizio, ma cosa c’entra il suo entusiasmo giovanile con la faziosità o l’intemperanza?

Prende un foglio, comincia a buttare giù qualche idea. “Devo insistere sull’obiettività e l’onestà di cui ho sempre fatto prova nell’esercizio del mio dovere” si dice posando la penna e alzandosi dalla scrivania. Si dirige verso la libreria, cerca il fascicolo dove ha sistemato in ordine cronologico tutti gli encomi che gli sono stati fatti dai superiori gerarchici, lo apre, lo sfoglia, tira fuori alcune lettere. Poi cerca il dossier nel quale ha raccolto alcuni documenti processuali, ce ne sono alcuni che possono essergli utili, è bene che si concentri sugli elementi fattuali, non è quello che ha sempre fatto quando ha redatto una requisitoria? Tira fuori dallo scaffale un grosso fascicolo nero, passa in rassegna alcune cartelline, ne afferra un paio e le posa sulla scrivania. Si siede di nuovo e ricomincia a scrivere.

“Affermo, sul mio onore di uomo, di magistrato e di ufficiale, di non essere stato né settario o fazioso, né intemperante fascista. Obiettività, serenità di giudizio, equilibrio sommo, umanizzazione del diritto positivo, comprensione delle miserie umane, bontà (non debolezza) di animo e finezza di sentimenti hanno costituito i principi informatori del mio esercizio professionale e del mio operato giudiziario, lusinghevolmente apprezzato e lodato dai miei superiori gerarchici, come risulta abbondantemente dalle informative degli stessi.”

Arturo rilegge la prima frase, ha la sensazione che manchi qualcosa, ma non riesce a capire esattamente che cosa. La legge nuovamente e, subito dopo la parola “ufficiale”, aggiunge: “nel modo più categorico”. “Ecco, ora va meglio” si dice rileggendo per l’ennesima volta tutto il paragrafo. “Adesso, però, devo dare esempi concreti, altrimenti rischio di essere frainteso” pensa prendendo in mano le cartelline che aveva tirato fuori poco prima dal fascicolo nero.

“In alcuni processi a me affidati dal mio capo della regia procura, contro ufficiali della MVSN o militi della stessa, ho preso netta posizione, malgrado le commendatizie di persone molto in vista del partito, e, guidato soltanto dal senso di giustizia, ho tirato per la via dritta del dovere con obiettività e serenità, raggiungendo le supreme esigenze della giustizia.”

Arturo ripensa al processo che, nel 1929, aveva istruito a carico di Salvatore Mannucci e che era terminato con una condanna del farmacista per condotta indegna di una camicia nera (N°1958/R.G. del P.M. 1929). “Anzi, sono stato io stesso a fare appello e a chiedere un nuovo processo, visto che la condanna in primo grado era stata troppo tenue!” si dice sfogliando gli atti processuali e rimemorandosi l’intera vicenda. “Anche quando si è trattato di chiedere la condanna di Raffaele Mauro non ho esitato. Che tipo, quel Mauro! Approfittando della propria posizione era andato a nascondere a casa del Turrisi una bandiera rossa e poi lo aveva denunciato per reato politico. Ma anche quella volta sono andato avanti e ho fatto fino in fondo il mio lavoro.” Arturo sfoglia le carte, si appunta il numero del processo, ricomincia a scrivere.

Quando getta un occhio all’orologio, sono circa le 20. Prima o poi la moglie verrà a cercarlo, gli annuncerà che la cena è pronta, gli dirà che Rosaria e Ferruccio lo stanno aspettando per iniziare a mangiare. Arturo si passa la mano sulla fronte, si toglie gli occhiali, pigia leggermente le dita sulle palpebre, pensa a cosa dire a Rosetta: vorrebbe evitarle questo dispiacere, ma forse non può, forse deve parlarle del processo, deve dirle come stanno effettivamente le cose.

Sta ancora pensando al modo in cui spiegarle la situazione quando Rosetta si affaccia alla porta dello studio, entra senza bussare e gli dice di sbrigarsi: «La cena è pronta, quand’è che vieni? I bambini ti stanno aspettando!».

Arturo le risponde che non ha finito, dice: «Iniziate senza di me», dice: «Domani ti spiego per bene tutto». Rosetta insiste. Arturo resta in silenzio, la fissa alcuni istanti, poi abbassa gli occhi, si prende la testa fra le mani, piange.

«Cos’è successo, Arturo?»

«Mi vogliono buttare fuori dalla magistratura. Mi vogliono togliere persino la pensione.»

Rosetta sbianca. Si lascia cadere su una sedia. Poi: «È così che ringraziano un servitore della patria? Che vergogna, che gente! Ma tu fatti valere, Arturo! Fagli capire con chi hanno a che vedere. Sei sempre riuscito a uscirne pulito, perché questa volta non dovresti? Ti ricordi di quando ti hanno mandato a Vico del Gargano? Ti ricordi della denuncia di quell’avvocato? Hai sempre vinto tu, Arturo, ce la farai anche questa volta!».

«Torna dai bambini» la supplica Arturo – “Non sta capendo, non si rende conto, come potrebbe d’altronde? Sono io stesso che non riesco a farmene una ragione, figuriamoci lei che di queste cose non sa nulla...”.

Quando la moglie esce dallo studio, ricomincia a scrivere. C’è un punto importante che vuole assolutamente chiarire: “Sull’aver io rivestito le qualifiche di squadrista, antemarcia, marcia su Roma, sciarpa littorio e ufficiale della MVSN, nulla quaestio. Va soltanto rilevato che sono stato riconosciuto squadrista dalla federazione dell’Urbe nell’ottobre del 1940, anziché nel marzo del 1939, data alla quale venne istituita la qualifica; che il brevetto della marcia su Roma mi venne concesso il 10 ottobre 1940, mentre agli altri venne accordato pochi mesi dopo il 28 ottobre 1922, e che la sciarpa littorio mi è stata concessa come conseguenza diretta, e non in ragione di decennale attività politica. Quanto al ruolo di ufficiale della milizia nazionale, venni nominato di ufficio, col grado di capomanipolo, nel febbraio del 1924, ma già nel maggio del 1925 presentai le mie dimissioni”.

Rilegge con calma tutto ciò che ha scritto. Aggiunge spiegazioni supplementari. Nega di aver svolto attività propagandistica. Nega di aver pronunciato discorsi o conferenze apologetiche. Ammette di aver insegnato all’interno dei corsi di preparazione politica organizzati dalla federazione provinciale del PNF di Lecce, ma specifica che si trattò sempre di lezioni di diritto pubblico e non, come gli viene rimproverato, di lezioni di storia e dottrina del fascismo.

“A comprova di quanto ho detto circa l’attività apologetica del fascismo e delle sue istituzioni, circa la settarietà, faziosità e intemperanza fascista, allego una lettera di alcuni avvocati di Lecce e provincia che, essendo stati notoriamente antifascisti, non possono essere sospettati di, quanto meno, favoritismo.”

Arturo sa che ha bisogno di questa lettera. Il problema, adesso, è capire chi accetterà di firmarla, chi si ricorderà dei favori ricevuti, chi avrà il coraggio di aiutarlo, senza cancellare con un colpo di spugna anni di amicizia.

Fruga nella memoria per ricordare il nome degli avvocati antifascisti con cui ha avuto a che fare in un momento o l’altro della propria carriera, ripensa alle cene organizzate a casa sua, a tutte le volte che qualcuno gli aveva promesso eterna riconoscenza per i servizi resi. Afferra un foglio e inizia a buttare giù una prima lista di nomi. Scrive: Carlo Mauri, annotando tra parentesi che l’avvocato, alto esponente del Partito comunista, era uno tra coloro che, a un certo punto, erano stati inviati al confino. Aggiunge: Michele De Pietro (presidente del Partito liberale italiano, perseguitato e detenuto per motivi politici) e Giovanni Guacci (perseguitato e detenuto perché antifascista). Poi pensa all’avvocato Achille Taurino, anche lui comunista, a Sansonetti e a Rella, entrambi socialisti. Annota tutto e prepara due lettere: una nella quale chiede loro aiuto e spiega l’urgenza, e un’altra in cui gli avvocati testimoniano del suo operato e della sua condotta politica, pubblica e privata.

Il 25 ottobre, Arturo invia a Roma le proprie deduzioni difensive. Quindici pagine dattiloscritte in cui, ripercorrendo le varie tappe della sua vita lavorativa, cerca di mostrare l’infondatezza delle accuse che gli vengono rivolte, domanda di ritenere provata la mancanza di settarietà, faziosità e intemperanza fascista, chiede di essere assoggettato a misure disciplinari di lieve entità, come l’ammonimento o la censura, e conclude: “Ove l’onorevole Commissione non creda sufficientemente provati i chiarimenti forniti con le presenti deduzioni, voglia disporre che io sia personalmente sentito per accertare la veridicità del mio assunto, tempestivamente facendomi notificare il giorno di comparizione, tenuta presente la distanza e le difficoltà del viaggio”.

Allegata al memoriale difensivo, c’è una lettera firmata da undici avvocati di Lecce e provincia che, dopo aver espresso il proprio rammarico per la sospensione del nonno dall’ufficio di sostituto procuratore del Regno essendo lui sottoposto a giudizio di epurazione, si dichiarano pronti a testimoniare davanti alle autorità del suo operato. “Egregio e ottimo amico” scrivono gli avvocati, “nel non breve periodo in cui voi, trasferito da Roma a Lecce avete esercitato le funzioni di Sostituto Procuratore del Re e Procuratore per i minorenni (settembre 1934 – settembre 1942) vi siete degnamente distinto e fatto apprezzare per integrità, valore professionale, equilibrio, fiera indipendenza, signorilità di modi e bontà d’animo, profonda comprensione delle azioni e delle miserie umane. Mai a nessuno è sorto il dubbio di vedere in voi un magistrato fazioso e settario o un intemperante fascista [...] Si ventilava negli ambienti giudiziari e forensi che voi eravate docente di diritto nei corsi di preparazione politica, ma consta, per averlo appreso dai nostri figli, nipoti o parenti, che voi raramente impartivate le lezioni, rimanendo nel puro ambito tecnico [...] Si diceva che voi rivestivate le qualifiche di squadrista, antemarcia, marcia su Roma e sciarpa littorio; non abbiamo mai sentito dire che eravate anche ufficiale della MVSN. Ne siamo venuti a diretta conoscenza dopo il 25-7-1943; non prima, perché voi non solamente non lo avete mai palesato, ma non ne avete ostentato i relativi distintivi, giacché, fra l’altro, non vi abbiamo mai visto in divisa per le vie della città ed altrove.”