Telefonata surreale con mia madre: sono giorni che le racconto tutto quello che ho scoperto sul nonno e le parlo non solo delle carte del processo, ma anche di tante grandi e piccole vicende della vita di Arturo; sono giorni che le dico che adesso penso di iniziare davvero a conoscerlo, e che a tratti mi sembra quasi di vederlo mentre discute con la gente, scrive una sentenza o prepara una requisitoria, lo vedo persino mentre litiga con la moglie che non vuole assolutamente che lui accetti quel posto di procuratore del re a Oristano o a Catania, pur sapendo che i rifiuti penalizzano la carriera. L’altro ieri le ho anche spiegato che ho trovato un rapporto del procuratore generale di Bari del 1940, in cui si dice esplicitamente che Arturo è un gran lavoratore e un ottimo magistrato, che meriterebbe di essere promosso e di accedere a cariche ben più rilevanti, ma “è incomprensibile il suo rifiuto di lasciare la dimora familiare”. Le ho detto che sono quasi certa che fu a causa di sua moglie. Le ho detto: «Ci dev’essere sotto qualcosa, ma prima o poi lo scoprirò, magari quando vado a Campi. Ascolta, ti leggo un passaggio di questa relazione che mi sembra cristallino: “Il Sostituto Marzano cerca di eludere l’obbligo della residenza. È troppo legato all’ambiente nel quale è chiaro che egli si trova vincolato da ragioni familiari e patrimoniali (in Campi Salentina, ove dimora con la famiglia, la consorte possiede un largo patrimonio). Nel novembre scorso [1940], dovetti richiedergli energicamente di considerare in un piano superiore gli interessi della giustizia di fronte a quelli strettamente personali [...] Per quanto non mi siano pervenuti reclami sul conto del Marzano, sono d’avviso che la sua attività in seno alla nostra amministrazione sarebbe maggiore se la esercitasse fuori dalla sua provincia, e mi auguro che ben presto egli possa essere promosso, o che, comunque, sia trasferito altrove con l’incarico di funzioni superiori”».
E mamma, di punto in bianco: «La prossima volta che vieni a Roma devi fare la cernita tra le cose che hai lasciato a casa nostra, ci sono due scatole chiuse ermeticamente con spago e nastro adesivo, hai capito quali?».
«Saranno quelle con le cassette su cui ho registrato alcune sedute dell’analisi che ho fatto a Roma, prima di andare in Francia... Ma perché me ne parli?»
«Dovresti buttarle. Immagina se un giorno finiscono nelle mani di qualcuno e viene fuori tutto.»
«Tutto cosa, mamma?»
«Be’, le cose brutte che hai vissuto, potrebbero essere usate contro di te.»
«Mamma, ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?»
Realizzo che forse nemmeno mia madre ha capito quello che sto cercando di fare. Le sue parole mi feriscono, perché è a lei che ho spiegato l’importanza della memoria e della rielaborazione del passato, ed è lei che mi ha più volte risposto: «Hai ragione, figlia mia, è importante quello che stai facendo». Ma allora perché, adesso, mamma tira fuori questa storia delle cassette? Nemmeno lei la sente, questa necessità di aprire l’armadio di un passato scomodo – che poi è scomodo per tutti, mamma, non solo per la nostra famiglia!
La storia della mia anoressia è nota da tempo. Esattamente com’è noto il fatto che ci ho messo vent’anni di analisi per venirne fuori. E che non mi vergogno di quello che ho attraversato. Sì, mi sono sempre vergognata tanto, da bambina e da ragazza, e anche ora, talvolta, mi vergogno – soprattutto quando penso che ci ho messo cinquant’anni prima di realizzare che mio nonno è stato fascista, oppure quando penso che non sarò mai madre. Ma dell’anoressia non mi vergogno, no. Le tenebre le ho attraversate, mamma! E non c’è nulla di cui io sia più fiera.