Sono indignata.
Mio nonno meritava senz’altro di essere sanzionato e sospeso dal servizio – non è questo che mi indigna, non è questo il punto. Anche se leggendo tutte le carte dell’epurazione sono stata invasa dal dolore. È successa una cosa che non riesco a descrivere – sono giorni che scrivo e cancello, odiandomi per questa mia incapacità di trovare le parole giuste.
È successo che il tempo si è fermato e poi è tornato indietro.
È successo che mi sono ritrovata accanto a mio nonno, vedendolo mentre piangeva, anzi, sentendo io, al posto suo, la disperazione e l’incapacità di realizzare cosa gli stesse davvero accadendo. E poi la vergogna, terribile, e la certezza che in tanti stessero festeggiando quel suo accasciarsi al suolo: “Allora, commendatore, come ci si sente quando ci si ritrova nel fango?”.
E poi è successo che, al posto di mio nonno, ho visto mio padre; ho sentito il dolore di un bambino di otto anni che di punto in bianco vede tutto cambiare intorno a sé, senza che nessuno gli spieghi nulla: “Quando sei grande poi te lo spiego”, anche se poi nemmeno quando è diventato grande nessuno gli ha mai spiegato niente.
Ma non è questo il punto, dicevo.
Il punto è che, immergendomi nella recente bibliografia dedicata alle epurazioni nell’amministrazione e nella magistratura, ho scoperto che le misure per la defascistizzazione dell’Italia, come sottolinea lo storico Giannini, furono applicate in maniera frammentaria e contraddittoria, facendo spesso saltare i personaggi meno rilevanti: “I furbi, dagli alti papaveri in giù, avevano trovato il modo di iscriversi ai tre grandi partiti dell’epoca, che ora li difendevano, ma poi non avrebbero esitato a nominarli anche direttori generali”.
Il punto è che furono proprio i più implicati nel regime a non essere epurati: molti di loro rimasero saldi ai propri posti, e nell’Italia liberata vennero addirittura promossi.
Il punto è che mio nonno fu uno dei pochissimi a pagare il conto, lui che in fondo non era altro che un piccolo magistrato di provincia, un provincialotto vanesio, certo, e che non aveva esitato a vantarsi di aver capito prima degli altri che Mussolini era un genio, e che fascista, in fondo, lo era fino al midollo, e che ci provò pure a fare carriera strumentalizzando la politica, ma che poi nemmeno ci riuscì, forse perché il provincialismo poté più che l’ambizione, e lui preferì restare a Campi dove lo chiamavano “commendatore” e si toglievano il cappello quando lo incrociavano per strada, piuttosto che buttarsi nella mischia e giocare alla corte dei grandi. Quei grandi che, in Italia, il conto non l’hanno mai pagato. Quei grandi che girano come il vento, tanto non credono in nulla, e a loro basta salvare le apparenze. Quei grandi che, dopo essere stati consiglieri di Corte di Cassazione o al Consiglio di Stato, sono rimasti immobili nei propri posti, continuando a fare carriera come se nulla fosse.
Sono indignata, sì. Anzi, più che indignata, sono disgustata.
Esagero? Drammatizzo? Non riesco più a essere oggettiva?