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Oltre a Gaetano Azzariti e Antonio Manca, uno dei nomi che ricorre maggiormente nei recenti studi sulla defascistizzazione della magistratura è quello di Antonio Azara. Ne ho già parlato quando ho citato i membri del comitato scientifico dell’orribile rivista «Il diritto razzista». Non immaginavo che sarei stata costretta a riparlarne né che me lo sarei ritrovato davanti leggendo uno degli interventi che fece mio nonno alla Camera, dopo essere stato eletto deputato.

Dev’essere un omonimo, mi dico la prima volta che vedo il suo nome sul disegno di legge di amnistia che un certo Azara presenta alle Camere nel 1953, in qualità di ministro di Grazia e Giustizia. Non può essere lo stesso Azara che durante il regime fu presidente di una sezione della Corte di Cassazione, penso.

Poi sono costretta ad ammettere che è lui, e allora decido di approfondire. Scorro velocemente la voce a lui dedicata nel Dizionario biografico degli italiani edito da Treccani: consigliere di Corte d’Appello nel 1928, consigliere di Cassazione nel 1931, presidente di sezione della Corte di Cassazione nel 1936, presidente del collegio centrale dell’Opera nazionale combattenti nel 1940, direttore aggiunto del Nuovo Digesto italiano dal 1937 al 1940, espulso dalla magistratura nel 1943 per non aver prestato giuramento alla Repubblica sociale e reintegrato nel 1944, senatore DC nel 1948, ministro di Grazia e Giustizia dal 1953 al 1954. Rileggo con più calma, certa che mi sia sfuggito qualcosa: dov’è il passaggio in cui si parla del suo essere stato membro del comitato scientifico della rivista «Il diritto razzista»? penso iniziando a innervosirmi. Dov’è che si dice che, nel settembre del 1944, venne messo sotto accusa per apologia del fascismo con la richiesta di dispensa dal servizio?

Niente. Non c’è scritto.

Nessun riferimento al fatto che venne inquisito, che l’alto commissario gli rimproverò di essere stato uno di coloro che più contribuirono all’apologia del fascismo, uno di coloro che, “non disdegnando di scendere a basse forme di adulazione nei confronti dei massimi gerarchi [...] e prendendo pretesto dalla riforma fascista dei codici ha approfittato per esaltare l’ordinamento politico fascista e per innalzare i suoi inni di glorificazione al Duce”. Nemmeno un accenno al fatto che le accuse caddero e Azara venne prosciolto dalla Commissione di epurazione solo quando il magistrato produsse una quindicina di dichiarazioni firmate da ufficiali consiglieri di Cassazione e 180 lettere sottoscritte da giuristi stranieri.

È questa la serietà del Dizionario biografico Treccani?

Ma c’è di peggio. Azara non fu certo l’unico pezzo grosso a farla franca. Anzi. Che cosa pensare ad esempio di Gaetano Azzariti? Direttore dell’ufficio legislativo del ministero di Grazia e Giustizia dal 1928 al 1943, Azzariti, nel 1938, aderì al Manifesto della Razza e venne nominato presidente del tribunale della razza. Epurato? Rimosso? Collocato a riposo? Manco per niente.

La procedura di epurazione venne avviata nel 1944, ma fu velocemente archiviata. Dai documenti risulta che Azzariti minimizzò il ruolo svolto dal tribunale della razza, nonostante sia stato proprio lui, nel 1942, in un discorso tenuto a Milano al Circolo giuridico, a dichiarare: «La diversità della razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente».

Ottimo, penso. In linea col regime, mi dico. E allora perché, dopo essere stato guardasigilli nel primo governo Badoglio, all’indomani della Liberazione Azzariti continua a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia collaborando direttamente con l’allora guardasigilli Palmiro Togliatti? Perché, a partire dal 1949, diventa presidente del tribunale superiore delle acque pubbliche, terza carica di vertice della magistratura? Perché, nel 1955, viene nominato giudice della Corte Costituzionale e nel 1957 ne assume addirittura la presidenza?

Il primo a riciclare Azzariti fu proprio Palmiro Togliatti. «Non me ne importa nulla» commentò quando, dopo averlo scelto come stretto collaboratore in seno al proprio ministero, qualcuno gli fece notare che il magistrato aveva fatto parte del tribunale fascista della razza e non aveva esitato a pronunciare discorsi dichiaratamente razzisti. «Mi bisogna un bravo esecutore di ordini, non un politico» insistette Togliatti continuando a circondarsi di magistrati reazionari piuttosto che comunisti e antifascisti. Come se la competenza giustificasse tutto, scusasse ogni cosa, cancellasse responsabilità e colpe.

Le cifre dell’epurazione in seno alla magistratura sono estremamente eloquenti: nel marzo del 1946, su 11.400 dipendenti del ministero di Grazia e Giustizia – non solo magistrati, quindi, ma anche cancellieri e altri –, furono esaminati 4052 casi, furono iniziati 589 processi, ne vennero conclusi 575, e le persone sospese dal servizio furono solo 56. Ci fu un serio tentativo iniziale di defascistizzare la magistratura, ma rapidamente il capitolo si chiuse in malo modo. C’è chi dice che altrimenti sarebbe stato difficile far andare avanti la macchina della giustizia, c’è chi parla del bisogno che emerse, a un certo punto, di non restare bloccati sul passato. Ma perché furono proprio i più compromessi a salvarsi? Perché un magistrato integro come Domenico Riccardo Peretti Griva non venne mai valorizzato?

Tesserato d’ufficio nel 1941, fu lui a guidare i giudici torinesi che rifiutarono di giurare fedeltà alla Repubblica sociale italiana, riuscendo a convincere il ministro a esonerarli dal giuramento; arrestato dai repubblichini, fu poi uno dei commissari dell’epurazione. Dopo la Liberazione, però, venne emarginato. E a differenza di un Azara che, cambiando presto casacca, proseguì brillantemente la propria carriera, Peretti Griva, poco gradito per la propria autonomia, fu collocato a riposo nel 1952. Intanto il busto di Gaetano Azzariti, che sotto il regime parlava di purezza della razza, troneggia ancora nel palazzo della Corte Costituzionale, roccaforte dell’uguaglianza di tutti senza distinzione, appunto, né di sesso né di razza...

«C’è del marcio in Danimarca» commenta Amleto rendendosi conto degli intrighi, dei tradimenti e degli inganni che aleggiano sul trono danese dopo la morte del padre. Ma non è, in fondo, quello che si potrebbe dire dell’Italia quando si pensa alle fondamenta stesse della nostra Repubblica?