Vuol far politica, il nonno. Ci pensa già da qualche anno. Il posto di procuratore della Repubblica gli dà molte soddisfazioni: istruisce processi importanti e riceve encomi e lodi dai suoi superiori. Il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Lecce, Nino Colozza, prima di lasciare la propria sede nel dicembre del 1951, sente l’urgenza di segnalare mio nonno al ministro come uno di quei magistrati che più si sono distinti nell’espletamento dei propri doveri: “Il Procuratore Marzano, fornito di svegliata intelligenza e di acume giuridico non comune, ha la capacità di disimpegnare ottimamente le funzioni di dirigente di un ufficio di notevole importanza. Alle sue ottime qualità intellettive, Marzano unisce tatto eccezionale e riesce efficacissimo nelle udienze con processi di estrema delicatezza per la ricchezza di argomentazioni che pone, con una dialettica speciale, a sostegno delle sue richieste, sempre ispirate a vera giustizia”.
Ma il cuore di mio nonno è altrove: non gli piace la piega che sta prendendo la politica nazionale, non gli piace lo spazio sempre maggiore che sta conquistando al Sud la Democrazia cristiana, meno che mai gli piacciono le rivendicazioni dei comunisti e dei socialisti salentini. Ci ha già provato nel 1949, presentandosi alle elezioni comunali di Campi, nella lista del Movimento sociale, convinto che il popolo dovesse stringersi attorno agli ideali più sacri: “Dio, Re e Patria”. Nel 1953, dopo aver appoggiato alle elezioni comunali la lista Stella Corona e Fiamma, una lista congiunta del Movimento sociale (MSI) e del Partito nazionale monarchico (PNM) in cui si presentano sia il cognato, Angelo Campo, sia Tonino Guarino, si candida alla Camera nelle file del PNM – non puoi restare con quelli del Movimento sociale, don Arturo, alcuni di loro hanno aderito a Salò e la gente, certe cose, non se le dimentica.
Il 7 giugno 1953, nella circoscrizione di Lecce-Brindisi-Taranto, il PNM prende il 14,41 per cento dei voti, si piazza in terza posizione dopo la DC e il PCI e ottiene due seggi alla Camera. Arturo, con 15.806 voti, arriva terzo: è il primo dei non eletti, ma il 27 luglio, qualche giorno dopo la proclamazione dei risultati, subentra ad Agilulfo Caramia, che sostituisce Achille Lauro nelle liste per il collegio unico. Durante tutta la campagna elettorale, proclama un’autentica fede monarchica, ma nel suo cuore resta incisa la fiamma tricolore. E, una volta arrivato in Parlamento, è insieme ai colleghi del Movimento sociale che porta avanti molte delle sue battaglie.
Il 26 novembre 1953, per Arturo è un giorno importante. Da quando è stato eletto, è la prima volta che interverrà in aula ed è emozionato. Si sta discutendo e votando il disegno di legge di amnistia e indulto presentato dal ministro Azara. Il guardasigilli intende portare avanti, e concludere, il processo di pacificazione del Paese iniziato da Togliatti nel 1946, delegando al presidente della Repubblica la facoltà di concedere l’amnistia per i reati, anche politici, per i quali la pena detentiva non superi i tre anni, e l’indulto per gli altri reati politici più gravi.
Nelle sedute precedenti, solo il collega Degli Occhi è intervenuto a nome del Partito nazionale monarchico. «Degli Occhi è in Commissione giustizia» ha raccontato Arturo al figlio il giorno prima, durante il loro consueto pranzo romano del mercoledì. «Ha seguito lui i dibattiti prima che il provvedimento giungesse in aula. Per carità, è una bravissima persona, ma è totalmente privo di carisma.» Il suo intervento della settimana precedente, a parere di Arturo, non ha niente a che vedere con la forza e la convinzione delle parole di Giambattista Madia, deputato del MSI. «D’altra parte, Titta ha esperienza, è già stato deputato nel Ventennio, e nell’arte oratoria è un vero maestro.»
Ferruccio lo ha ascoltato in silenzio. Non se l’è sentita di contraddirlo, anche se non riesce a capire cosa ci trovi il padre di tanto forte e pertinente nelle posizioni di quel fascista: ha fatto qualche ricerca, Titta Madia è stato pure massone.
Arturo fa parte della Commissione cultura, ma questa volta non può esimersi dall’intervenire. Lo ha spiegato ad Alfredo Covelli, il presidente del proprio gruppo parlamentare: in qualità di magistrato conosce bene il sistema giudiziario, ed è fermamente convinto che sia arrivato il momento di mettere un termine a processi che ormai durano da troppo tempo.
«Ti rendi conto, Alfredo, che sono quasi dieci anni che tutta l’Italia è in tribunale? Da una parte ci sono gli accusati, dall’altra le parti civili, i giudici, i pubblici ministeri, gli avvocati, i testimoni, i periti, tutti protagonisti di vicende colossali che hanno coinvolto il nostro Paese. Bisogna che questa follia finisca. Non c’è motivo di continuare a rivangare il passato.»
Sono le 16 in punto quando il vicepresidente della Camera, l’onorevole Ferdinando Targetti, entra in aula accompagnato dal segretario generale Alberto Giuganino. Targetti sale lentamente gli scalini che lo separano dal banco della presidenza, e aspetta che i funzionari e i commessi abbiano preso posto prima di accomodarsi sul seggio. Getta uno sguardo agli scranni ancora semivuoti, quindi si concentra sull’ordine del giorno. Accende il microfono, si schiarisce la voce, dà la parola all’onorevole Guadalupi affinché legga il processo verbale della seduta del giorno prima. I deputati entrano con calma, pure i banchi del governo sono ancora mezzi vuoti. Ed è solo dopo che Targetti ha annunciato il seguito della discussione sul disegno di legge di liberazione condizionale, amnistia e indulto, che l’emiciclo si riempie e che il ministro Azara e un paio di sottosegretari prendono posto.
Mio nonno è il secondo iscritto a parlare. Durante il discorso di Mario Berlinguer, rilegge gli appunti, modifica una frase, cancella un paio di parole. Ogni tanto fissa l’orologio, sembra preoccupato, non ride nemmeno quando il compagno di banco commenta che la cravatta di Walter Audisio, tanto per cambiare, non c’azzecca proprio niente con la camicia e la giacca che ha indossato, ma «che ci vuoi fare, questi comunisti non hanno alcun gusto».
Arturo ha l’abitudine di parlare in pubblico, lo ha fatto per anni in tribunale, ma adesso ha la bocca impastata, la gola secca, il cuore che batte veloce. È complesso, questo dibattito sull’amnistia, e lui spera di non lasciarsi frastornare dal brusio, spera soprattutto di riuscire a mantenere la calma anche se non esclude che, in un momento o l’altro del proprio discorso, qualcuno possa interromperlo, o fischiarlo. Non è affatto d’accordo con quello che sta dicendo il collega Berlinguer. “Che malafede” pensa Arturo, mentre il socialista spiega che l’amnistia si impone per tutti i partigiani artefici della Resistenza e della gloriosa lotta insurrezionale. “Perché l’amnistia dovrebbe riguardare solo i partigiani? Che faccia tosta” si dice, mentre Berlinguer aggiunge che «gli uomini dell’altra sponda sono responsabili del disonore dell’Italia».
«Questa retorica sulla Resistenza mi dà il voltastomaco!» mormora Arturo. Poi torna a concentrarsi sui propri appunti. Ha a disposizione una decina di minuti, deve cercare di restare nei tempi, qualche frase può ancora essere limata. Fissa il soffitto dell’aula, non riesce a farsela piacere la vetrata del Beltrami, non si capisce mai che tempo faccia fuori, sembra sempre che ci sia il sole, anche se oggi il tempo è pessimo a Roma, pioveva a dirotto quando è uscito dall’albergo, gli erano bastati quei duecento metri che lo separavano da Montecitorio per bagnarsi tutto. Ma perché ora pensa alla pioggia? Che c’entra il tempo con quello che sta per dire?
«È iscritto a parlare l’onorevole Marzano. Ne ha facoltà.» La voce di Targetti lo scuote dai suoi pensieri. L’orologio segna le 17.23, Arturo lo guarda mentre si alza e sistema il microfono. Ringrazia con un cenno della testa il commesso che è venuto a portargli un bicchier d’acqua, tossisce, beve, si morde le labbra.
«Alcuni colleghi hanno lamentato l’abuso, che si è fatto e che si fa, da pochi anni in qua, di provvedimenti di clemenza.»
È stato incerto fino alla fine se leggere o meno. Ma poi ha deciso di non andare a braccio; “Se non leggo mi lascio prendere dalle parole e rischio di sforare, rischio soprattutto di perdermi per strada qualche pezzo del mio intervento e di non dire tutto ciò che voglio”.
«Non si può tuttavia disconoscere che un provvedimento di ampia clemenza, teso al risanamento delle piaghe di un recente tormentoso passato, costituisca oggi una necessità storico-politica alla quale non è possibile sottrarsi.»
Arturo si ferma disturbato dal brusio, beve un altro sorso d’acqua, ricomincia a leggere.
«Tutti hanno manifestato il consenso a un provvedimento di clemenza, destinato a chiudere il ciclo, sin troppo lungo, di una lotta politica assai aspra e drammatica, cancellando i residui della guerra civile e le conseguenze delle aberranti leggi eccezionali contro il fascismo, e dare così inizio – riconciliati gli animi – a una nuova era di solidarietà nazionale.»
Arturo fa una piccola pausa. Quando ha citato le “aberranti leggi eccezionali contro il fascismo” ha alzato la voce, ha scandito parola per parola, ma non è riuscito a nascondere l’emozione, la voce gli si è incrinata, nonostante siano passati un certo numero di anni, il ricordo dell’epurazione dalla magistratura è sempre lì, la ferita non riesce a rimarginarsi.
«Onorevole ministro, onorevoli colleghi, ormai necessita e urge – alla distanza di otto anni dalla fine della guerra civile – un provvedimento di saggia, umana, coraggiosa clemenza che intervenga, indiscriminatamente, per partigiani e fascisti, figli tutti d’Italia, che, per un ideale ritenuto dagli uni e dagli altri più rispondente al supremo bene della patria, han combattuto e si son combattuti con cruente e luttuose conseguenze.»
Si leva un mormorio nella parte sinistra dell’emiciclo. C’è chi si alza in piedi e urla: «Vergogna!». Arturo tace. Poi, incoraggiato dal compagno di banco, ricomincia a parlare.
«Necessita e urge, ormai, che l’invocata clemenza, ampia e a largo respiro, avvolga nelle fitte tenebre dell’oblio ed infossi – meglio ancora – negli abissi più profondi del dimenticatoio, il triste ricordo di un recente fazioso passato di sangue, di sevizie, di patimenti, di brutali ed efferate vendette, di atrocità senza eguali, di umiliazioni, che ha tormentato e sconvolto la coscienza nazionale, lasciando tracce talmente indelebili da non poter essere cancellate se non con un provvedimento che tenga realmente conto dell’esigenza di una effettiva pacificazione degli animi.»
Il discorso di mio nonno va avanti ancora a lungo. Ma adesso sono io che non riesco più a proseguire nella lettura dello stenografico. La scena si inceppa e mi sfugge di mano. Non condivido nulla di ciò che dice Arturo. Vorrei solo gridare anch’io “vergogna”, nonostante detestassi essere interrotta quando prendevo la parola in aula, e le urla scomposte che arrivavano dai banchi della Lega e di Fratelli d’Italia mi raggelassero il sangue nelle vene. Ma le parole di mio nonno non le sopporto. In questo momento vorrei solo poter essere lì con lui, fermarlo in Transatlantico e dirgli: “Ti sbagli, nonno! L’oblio non pacifica, al contrario! E poi come fai a dire che le leggi contro il fascismo furono aberranti? Fu il fascismo a esserlo, e poi Salò, e le leggi razziali: queste cose sono state aberranti e non si possono dimenticare, vanno ricordate, non dobbiamo scordarcene mai, dobbiamo solo fare in modo che non accada mai più!”.
Ho bisogno di calmarmi e ritrovare un po’ di pace. Devo rileggere tutto il discorso a mente fredda e analizzarlo in modo rigoroso. Se mi arrabbio e non cerco di capire esattamente quello che voleva dire Arturo, rovino tutto e scivolo anch’io nell’ideologia.
Esco.
Faccio per cinque volte il giro del Luxembourg.
Dodicimila passi e nove chilometri.
Quando torno a casa, riprendo in mano lo stenografico della seduta parlamentare del 26 novembre 1953, inizio a sottolineare alcuni passaggi, prendo appunti su un quaderno:
– indiscriminatamente (partigiani e fascisti, tutti figli d’Italia)
– oblio, dimenticatoio, tenebre, abissi
– tracce indelebili oppure cancellabili?
Andando avanti nella lettura, capisco che il problema, per Arturo, è l’indulto – ossia la proposta di cancellare la pena, ma non il fatto delittuoso per «coloro che hanno partecipato alla guerra fratricida» dal luglio del 1943 al giugno del 1946. Mio nonno auspica che non si parli mai più di quest’orribile guerra civile. Lui vuole per tutti un’amnistia piena e assoluta. Solo smettere di parlare del passato, secondo lui, può permettere all’Italia di affrontare il futuro: «A dieci anni di distanza dalle oscure giornate dello sfacelo nazionale, si ricomincia daccapo: intelligenza col nemico, sabotaggio alla guerra fascista, resa senza discrezione, repubblichini, banditi, errori di Mussolini, errori dello stato maggiore, sacrificio inutile, vittime, partigiani, brigate nere, fucilazioni, crudeltà, efferatezze, stragi di fascisti seviziati ad opera dei partigiani e di questi ad opera dei primi, e via di seguito».
L’onorevole Marzano vuole cancellare la storia. E ha torto su tutta la linea. Devo però riconoscerne almeno la buonafede. Nel prosieguo del discorso, non cita solo la riapertura di alcuni processi a carico degli squadristi amnistiati nel 1922, ma anche il processo contro Renzo Renzi, la querelle Servello-Parri e il processo per il massacro della “corriera della morte”. Non conosco nessuna di queste vicende. Mi informo. E scopro che il 1953 è un anno emblematico nella storia italiana. Da un lato, si cerca di mettere a tacere chiunque voglia rivangare criticamente il passato bellico e postbellico dell’Italia, arrivando fino al paradosso di non celebrare né commemorare la Liberazione, come accadde il 25 aprile quando il «Corriere della Sera» passò sotto silenzio l’anniversario e il giorno successivo l’«Avanti!» scrisse: “Uffici e scuole chiuse, issate le bandiere sugli edifici, ma nessuna celebrazione ufficiale delle autorità, niente, da parte della maggioranza, che ricordasse la data”. Dall’altro lato, si moltiplicano i processi non solo contro chiunque cercasse di fare luce sugli orrori della guerra, ma anche contro coloro che, alla fine del conflitto, in nome della “giustizia partigiana” moltiplicarono le esecuzioni sommarie. Nel settembre del 1953, dopo la pubblicazione sulla rivista «Cinema nuovo» di un soggetto intitolato L’armata s’Agapò, il critico cinematografico bolognese Renzo Renzi e il direttore della rivista Guido Aristarco vengono arrestati e processati. Colpevoli di aver voluto raccontare l’occupazione militare della Grecia attraverso i saccheggi, le fucilazioni e la vita nei bordelli di alcuni soldati italiani fuori controllo, vengono accusati di vilipendio delle forze armate e di attività antinazionale. Nell’aprile dello stesso anno, il settimanale neofascista «Meridiano d’Italia», con un articolo di Franco Maria Servello, attacca Ferruccio Parri e, insinuando l’idea che l’ex presidente del Consiglio fosse stato un “doppiogiochista”, lo accusa di aver tradito i partigiani; Parri querela immediatamente per diffamazione Servello, Sandro Pertini ne prende le difese, il processo si apre a Milano con grande scalpore. Mio nonno cita tutti questi fatti. Poi si concentra sul massacro della “corriera della morte”, su cui la Corte d’Assise di Roma si è appena pronunciata in appello. Il 14 maggio 1945, su un autocarro messo a disposizione dal Vaticano, partono da Brescia, per tornare nel Sud, a casa loro, una quarantina di persone tra cui alcuni ex internati militari provenienti dai campi in Germania, ma anche alcuni ex militi della Repubblica di Salò. Fermati presso Concordia della Secchia dalla polizia partigiana, i passeggeri vengono tutti fatti scendere: molti di loro, dopo i controlli, sono liberi di riprendere il viaggio; sedici persone sono però condotte a Villa Medici, dove vengono percosse a sangue, quindi trucidate.
Mio nonno invoca l’amnesia. Per lui, è solo passando un colpo di spugna sulle atrocità della guerra civile che si può creare un clima di concordia nazionale. Mettere un punto e ricominciare daccapo. “Cosa fatta, capo ha.” Per evitare un giorno di sorprendere l’Italia «così sfatta e annichilita, accartocciata su di un banco, in un’aula di un palazzo di giustizia, intenta per l’ennesima volta ad ascoltare le brutte storie della sua guerra perduta, di come gli italiani si sono ammazzati tra di loro per la gioia e il beneficio dello straniero».
Ma quale concordia può mai nascere dalla rimozione? Non è forse proprio l’assenza di rielaborazione di queste “brutte storie” che ha portato l’Italia a non uscire mai davvero dal passato? Il fuoco sotto la cenere, che divampa improvvisamente. Come le terribili violenze che hanno dilaniato il nostro Paese negli anni Settanta, il terrorismo rosso e il terrorismo nero, rapimenti e stragi, un odio mai sopito forse proprio perché, quando ce n’era l’occasione, nessuno ha voluto riconoscerlo o nominarlo, nessuno ha avuto il coraggio di rimettersi fino in fondo in discussione.
Nel 1953, anche in Francia viene varata una legge d’amnistia. Anche in Francia si parla di clemenza e si cerca la pacificazione. Ma nemmeno per un istante passa per la testa del legislatore l’idea di cancellare il passato con un colpo di spugna. “La Repubblica francese rende testimonianza alla Resistenza, la cui lotta all’interno e fuori ha salvato la nazione” si legge all’articolo 1. “È nella fedeltà allo spirito della Resistenza che oggi essa vuole che sia concessa clemenza. L’amnistia non è riabilitazione né rivincita. Così come non è una critica verso coloro che, in nome della Nazione, ebbero il gravoso compito di giudicare e punire.”
È una premessa necessaria per spiegare anche alle generazioni future lo spirito della legge, e far capire chiaramente che concedere l’amnistia non significa cancellare il passato o avallare l’amnesia collettiva. Che era invece quello che voleva mio nonno: «L’amnistia, che ha derivanza dal greco e che ha risonanza acustica con amnesia, importa l’oblio del passato».
Torno a rispolverare il mio povero greco, e almeno su questo punto sono costretta a dargli ragione. Tanto più che non è solo acustica la risonanza che c’è tra “amnistia” e “amnesia”, la radice è esattamente la stessa: entrambi i termini, oltre all’ἀ- privativa, hanno dentro il tema del verbo μιμνήσκω, “ricordare”. E se quando si parla di amnesia si fa esplicito riferimento alla perdita della memoria, quando si parla di amnistia si sta di fatto parlando di “dimenticanza”.
Ripetendo tra me e me più volte il termine “amnesia”, d’un tratto inciampo sulla parola e dico: “anamnesi”. E siccome nessun lapsus è casuale, vado subito a verificare. Niente ἀ- privativa questa volta, ma di nuovo c’entrano i ricordi, di nuovo la radice greca è esplicita. Dal greco ἀνάμνησις, derivato di ἀναμιμνήσκω “ricordare”, l’anamnesi è reminiscenza. E anche se in genere si utilizza questa parola per riferirsi ai precedenti ereditari, allo stato di salute dei familiari, alle abitudini di vita e alle malattie di un paziente, l’anamnesi è di fatto la storia di una persona. Quando andiamo dal medico, ci raccontiamo. Parliamo del nostro corpo malato, ma non è mai solo del corpo che ci lamentiamo. Cerchiamo di organizzare la nostra storia dandole un minimo di plausibilità e di coerenza. Abbiamo bisogno di dipanare la matassa, anche quando i fili sono ingarbugliati.