Quando si trattò di scegliere la tesi di dottorato, mio fratello decise di lavorare sugli ebrei italiani che emigrarono in Palestina tra il 1920 e il 1940. Una terra per rinascere. È questo il titolo del libro che pubblicò poi nel 2003, dopo ulteriori ricerche fatte mentre viveva a Gerusalemme e lavorava come operatore umanitario all’interno di un’organizzazione non governativa.
«Perché questo tema, Arturo?» Gliel’ho chiesto tante volte. Senza mai essere del tutto soddisfatta quando lui rispondeva che era un argomento interessante e ancora poco studiato. «Sì, ma perché proprio gli ebrei?» gli ho domandato ancora una volta un paio di giorni fa. Ora che ho ricominciato a cercare su internet informazioni sul periodo in cui mio nonno è stato deputato, mi trovo di nuovo di fronte a schermate piene di link in cui, accanto al suo nome, compare quello di mio fratello e dei suoi studi storici. L’ultima volta ho cliccato su una pagina che mi ha rimandato a un testo in cui lui parla della deportazione di 4148 ebrei italiani tra il 16 settembre 1943 e il 24 febbraio 1945, e del ritorno in Israele di 312 sopravvissuti.
«È da quando ho visto Olocausto.»
«Olocausto? Ma avevi cinque anni!»
«È vero, ma non ho mai dimenticato quelle immagini, e quando i miei compagni di classe hanno iniziato a prendermi in giro e insultarmi, mi sono identificato con gli ebrei.»
Di nuovo Olocausto. Pensavo di aver già detto tutto su questa serie televisiva, ma ancora una volta non ho fatto i conti con la circolarità del tempo che si deposita e scava, con le associazioni di idee e la realtà che riemerge e si impone.
Ho deciso di non rivedere la serie. Preferisco conservare le sensazioni che provai quando la guardai a otto anni, confrontandomi per la prima volta con l’orrore della Shoah. Non sapevo, all’epoca, che come me erano in tanti a scoprire solo allora quello che era successo, anche chi di anni ne aveva molti più di me e, nonostante il processo contro Eichmann, continuava a ignorare (o a far finta di non conoscere o di aver dimenticato) quello che era accaduto. Non sapevo nemmeno che Primo Levi, intervistato dal «Corriere della Sera», liquidò la serie televisiva in poche parole: “Nessuno di noi aveva la possibilità di rasarsi, nessuno di noi poté conservare l’umanità che invece conservano i personaggi di Olocausto”. Né che Jean Baudrillard, sui «Cahiers du cinéma», scrisse che si trattava di un semplice “oggetto televisivo”, capace di suscitare un’emozione postuma “che farà rotolare [le masse] nell’oblio con una sorta di buona coscienza estetica della catastrofe”.
È per questo che mi rifiuto di guardare di nuovo la serie? È per questo che voglio tenermi strette le emozioni che ho provato da bambina, conservare lo stupore e il dolore di allora?
Quando venne trasmesso in televisione, Olocausto provocò una slavina. Soprattutto in Germania. Dove per anni, in tanti, si erano sentiti esonerati dalla colpa. “Grazie a Dio ora si disperano” scrisse Günther Anders parlando della serie. “Finalmente si disperano. Hanno trovato la fermezza di guardare in faccia, per ore, l’indicibile.” Quell’indicibile che, nelle immagini girate dagli Alleati, non era stato percepito forse perché, continua il filosofo, “bisognava innanzitutto disseppellire se stessi dalle macerie”. E poi ricordare quello che si era in fretta e furia archiviato. E poi fare spazio alla vergogna.
Indipendentemente dal giudizio estetico o morale che si può avere oggi sulla serie, Olocausto rappresentò, in Germania, un punto di non ritorno. A chi si doveva attribuire la responsabilità dell’accaduto? Ci si poteva davvero continuare a trincerare dietro l’ignoranza? Non c’ero, se c’ero non ho visto, se ho visto non ricordo...
Qualche anno dopo, l’8 maggio 1985, commemorando il quarantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, il presidente tedesco Richard von Weizsäcker pronunciò un discorso leggendario che costrinse l’intera Germania a fare i conti col passato. Scopro che il discorso è celebre ovunque, tranne in Italia. E che sul web esistono traduzioni in inglese, in francese, persino in russo, ma che invece in italiano non esiste alcuna traduzione integrale.
Tre giorni dopo la visita del cancelliere Helmut Kohl e del presidente americano Ronald Reagan al cimitero militare tedesco dov’erano sepolti anche alcuni membri delle Waffen-SS, Weizsäcker prende la parola di fronte al Bundestag e dichiara: «L’8 maggio fu un giorno di liberazione. Ha liberato tutti noi dalla disumanità e dalla tirannia del regime nazionalsocialista». Dice: «Ci serve la forza di guardare in faccia la verità, senza abbellimenti e senza parzialità». Dice: «Chi poteva considerarsi ignaro dopo i roghi delle sinagoghe, dopo i saccheggi, la stigmatizzazione con la stella di David, dopo la privazione di ogni diritto, l’incessante profanazione della dignità umana?». Dice: «C’erano molti modi per distrarre la coscienza, per non essere responsabili, per volgere altrove lo sguardo, per tacere. E quando poi, alla fine della guerra, emerse tutta l’indicibile verità dell’Olocausto, molti, troppi di noi affermarono di non aver saputo niente, di non aver nemmeno intuito niente».
E in Italia? Quand’è che la si smetterà di aggrapparsi alla mostruosità dei crimini nazisti per nascondere i propri? Quand’è che si squarcerà il velo di ignoranza che copre la nostra ignominia, finendola una volta per tutte con la fiaba degli italiani brava gente, Mussolini ha fatto anche cose buone, è stato solo quando il Duce si è lasciato abbindolare dal Führer che tutto è andato a rotoli?
Fiabe e menzogne sul nostro passato, che impediscono di fare i conti con la responsabilità di tutti coloro che si cullano nell’idea che “così fan tutti” e quindi perché mai rimettere in discussione i romanzi familiari? Ormai gli storici non hanno dubbi. Elencano fatti ed eventi raccapriccianti: le esecuzioni di massa in Libia e in Etiopia; i massacri in Grecia e in Jugoslavia; i campi di concentramento di Gonars, vicino a Trieste, di Renicci in Toscana, di Chiesanuova a Padova, per citarne solo alcuni. Con dietro l’idea di una superiorità razziale, di un italico DNA da salvaguardare, di una purezza della stirpe e del sangue.
Ripenso alle discussioni avute qualche anno fa con mio fratello: saremmo stati entrambi spediti in qualche campo, io perché pazza, lui perché omosessuale. Penso di nuovo alle parole pronunciate da Weizsäcker, nel 1985, davanti al Bundestag: «L’8 maggio è una giornata consacrata alla memoria. Ricordare significa evocare un evento con tutta la sincerità e la franchezza necessarie affinché quest’evento penetri all’interno della nostra coscienza. In questo giorno, è nel lutto che evochiamo il ricordo di tutti coloro che sono morti a causa della guerra e della tirannia. Evochiamo in particolare i sei milioni di ebrei assassinati nei campi di concentramento tedeschi [...] Evochiamo il ricordo dei sinti e dei rom assassinati, degli omosessuali uccisi, dei malati mentali assassinati, di tutti coloro che morirono in ragione delle proprie convinzioni politiche o religiose».
Omosessuali, sinti, rom, malati mentali. Difficile evocarne il ricordo in Italia, dove l’omofobia continua a essere fortemente radicata, e l’odio per gli zingari cavalcato da Salvini e da Meloni. Come furono trattati in Italia dai fascisti i cosiddetti “diversi”? Chi ne evoca col lutto nel cuore il ricordo?
Confino. A partire dal 1926, per esservi inviati, non c’era bisogno di aver commesso un reato, bastava venire accusati di essere pericolosi o di comportarsi in maniera tale da turbare l’ordine stabilito dal regime. “Il pericolo di esservi mandati sovrasta su tutti” scriveva Emilio Lussu. “La pena è per pochi, la minaccia è per tutti.”
Per Mussolini, il confino era un modo intelligente per reprimere. È lui stesso a dirlo nel 1927 di fronte alla Camera silente – ormai nessuno più, in quegli anni, fiata, solleva obiezioni, protesta. «Non è terrore, è appena rigore. E forse nemmeno: è igiene sociale, profilassi nazionale: si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto.» E tra gli infetti, ovviamente, gli omosessuali.
Vizio, malattia, morbo.
Meglio non parlarne troppo per evitare scandali o contagi. In un’Italia che ha fatto della virilità dell’uomo nuovo un mito, impossibile prevedere una norma ad hoc contro gli omosessuali, farlo avrebbe significato ammetterne l’esistenza. Nel progetto del Codice Rocco, sempre nel 1927, era previsto un articolo, il 528, che avrebbe dovuto punire con la reclusione i colpevoli di relazioni omosessuali. Ma nella versione finale del Codice l’articolo scomparve. La Commissione Appiani, all’unanimità, ne decise la soppressione: “Per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole non è così diffuso da giustificare l’intervento del legislatore”. Meglio farli sparire questi pederasti, questi devianti, questi sottogenere dell’umanità; curarli quando possibile, oppure nasconderli e renderli per sempre invisibili. Nocivi per l’integrità della stirpe e la tutela della razza. Come gli zingari. Spediti al confino nei paesini più isolati del Mezzogiorno o in qualche isola. In Basilicata, a Ustica, nelle Tremiti, a Carbonia. Per cancellarne l’esistenza ed evitare il contagio.
Penso a quei passaggi del curriculum vitae che mio nonno redasse nell’agosto del 1941 in vista del concorso per la promozione a consigliere di Corte d’Appello – e su cui si basò anche la Commissione di epurazione –, quando Arturo spiega come negli anni 1938 e 1939 avesse partecipato, per delega del titolare, ossia del procuratore del Regno, alle riunioni della Commissione per il confino di Lecce, e come il prefetto, “nell’attestar tanto, ha inteso dire anche sul modo del mio, tutt’altro che passivo, contributo apportato”.
Poi ripenso alle discussioni cui ho assistito e preso parte quand’ero deputata sulla proposta di legge contro l’omofobia e la transfobia, deturpata alla Camera e poi definitivamente bloccata in Senato, e mi chiedo cosa avrebbe detto mio nonno se fosse stato presente ai dibattiti. Avrebbe anche lui invocato la possibilità di mettere a repentaglio la libertà di opinione? Avrebbe pure lui negato l’evidenza delle violenze e degli insulti a carattere omofobo, spiegando che l’Italia è un Paese già estremamente tollerante? Avrebbe anche lui sostenuto che l’omosessualità è un dato di fatto, ma non certo un diritto? Avrebbe contestato oppure applaudito l’onorevole Gigli quando, nell’agosto del 2013, non esitò a dichiarare: «È lecito chiedersi se in Italia, Paese in cui l’omosessualità è stata depenalizzata un secolo prima di Paesi come il Regno Unito, gli omosessuali e transessuali siano davvero una minoranza discriminata e vi sia dunque urgenza di questa legge»? Come avrebbe reagito di fronte alle affermazioni del leghista Pagano che, ritirando fuori dalla naftalina i peggiori stereotipi, non ebbe alcuna remora a dire: «L’obiettivo non dichiarato è quello di intimidire la libertà di espressione, la libertà di insegnamento e la libertà delle istituzioni religiose di potere continuare a insegnare che Dio li creò maschio e femmina e che la famiglia e il matrimonio possono realizzarsi solo nell’unione tra un uomo e una donna»?
A distanza di sette anni, il 30 giugno 2020, il giorno stesso in cui viene depositato in Commissione giustizia della Camera un nuovo testo base della legge contro l’omotransfobia, a Pescara il Consiglio comunale boccia una mozione di solidarietà nei confronti di un ragazzo gay brutalmente aggredito per il semplice fatto di aver stretto la mano al proprio compagno. Il sindaco si rifiuta di attribuire un significato politico alla scelta degli undici consiglieri di maggioranza – tutti esponenti della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia – e spiega che Pescara «non è la città che si tenta strumentalmente di dipingere, creando e cavalcando polemiche». Nonostante la “fine delle ideologie”, come si sente ripetere ormai da qualche anno, resta quest’atavica tendenza, da parte della destra, a credere che non tutte le persone abbiano lo stesso identico valore, e che alcune di loro non solo non meritino di essere considerate o rispettate, ma non siano nemmeno degne di compassione e di solidarietà. Come se l’uguaglianza fosse un concetto a geometria variabile, e alcune persone fossero per natura (o per essenza) “più uguali” delle altre. Come se il rispetto fosse qualcosa che ci si deve sempre guadagnare, e non il semplice corollario della dignità, che è identica per tutti e tutte indipendentemente dalle differenze specifiche di ognuno di noi – perché poi siamo tutti differenti gli uni dagli altri, e sono proprio le nostre differenze a renderci unici.
La Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia continuano a veicolare l’idea secondo cui esisterebbe, da un lato, una normalità sana e giusta e, dall’altro, un’anormalità malata e ingiusta. E che la violenza e l’odio che alcuni possono esercitare nei confronti dei “diversi”, in fondo, non sono poi così gravi. L’ennesima eredità del fascismo con la quale, tutt’oggi, non riusciamo a fare i conti.