Botrugno, giovedì 22 maggio 1958.
Sono le 22.30, è il terzo comizio della giornata per nonno Arturo, dopo quello a Lecce e quello a Tricase, ma è sempre così, gli ultimi giorni di una campagna elettorale. “Domenica si vota, ci siamo quasi, basta stringere i denti e fare uno sforzo, l’ultimo, ci siamo davvero.”
È passata poco meno di una settimana da quando l’onorevole Marzano, su quello stesso palco, si era dovuto fermare alcuni istanti durante il comizio. Le parole si erano inceppate, e lui aveva avuto bisogno di bere – “Un sorso d’acqua e tutto torna a posto” aveva pensato il nonno; “Qualche secondo e poi si ricomincia” si era detto serrando la mascella e stringendo i pugni.
«Nun me sta piaci, don Arturo» aveva commentato quel giorno, alla fine del comizio, il figlio di un amico d’infanzia del nonno, che viveva ancora a Botrugno e faceva il medico condotto.
Si doveva riposare, il nonno. Ma come si fa quando mancano appena sette giorni alle elezioni? E poi c’erano da racimolare gli ultimi voti. Bisognava ricucire lo strappo che aveva dilaniato i monarchici: alcuni di loro, su istigazione di Achille Lauro, si erano voluti contrapporre alla linea del segretario Covelli.
Sono le 22.35 del 22 maggio 1958. È il giorno di santa Rita e nonna Rosetta, che anche oggi è rimasta a casa – il marito non lo segue, sono cose da uomini, “c’è Ferruccio mio col padre, che c’entro io?” –, sta facendo la novena: «Aiutalo tu, Avvocata dei casi disperati, allontana dal mio cuore quest’afflizione, proteggilo tu il mio Arturo, lo metto nelle tue mani».
La gente si accalca sotto il palco.
L’onorevole Marzano spiega che ha bisogno dell’aiuto di tutti, sono le ore decisive: quante persone ancora incerte possiamo convincere tra oggi e domani?
Sono le 22.45, è ormai buio da un po’ e nonostante i fari, dal palco, non si riescono a distinguere i volti delle persone, non c’è modo di capire le loro espressioni né di rendersi conto del loro stato d’animo.
Il nonno però è tranquillo: a Botrugno gioca in casa, non è come a Tricase, dove in tanti sono propensi a votare per la Democrazia cristiana. Primo firmatario della proposta di legge 129, “Erezione in comune autonomo della frazione di Botrugno del comune di Nociglia, in provincia di Lecce”, l’onorevole Marzano ha mantenuto la parola data ai suoi compaesani. La legge è stata approvata alla Camera il 18 luglio 1956, e il 13 marzo 1958 è stata promulgata dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi.
La piazza principale del paese è gremita, la folla continua ad aumentare, il nonno enumera velocemente le cose fatte, poi inizia a parlare dei progetti per il futuro.
«Le elezioni di domenica prossima sono il banco di prova della maturità politica del popolo italiano, della sua vita democratica, dei suoi problemi e delle sue ansie.» Il nonno si ferma, beve un sorso d’acqua, ricomincia a parlare: «La DC deve avere i suoi voti, deve avere la sua consistenza politica, sarebbe da illusi e da sciocchi pensare che la DC non debba avere la sua bella vittoria! Ma facciamo che sia una vittoria tale che abbia bisogno di governare con noi, che rappresentiamo la parte più sana, più operosa e più nobile della nazione».
«Bravo!» lo interrompe qualcuno. Arturo ne approfitta per asciugarsi la fronte madida di sudore col fazzoletto di cotone che Rosetta gli ha infilato nella tasca prima che uscisse di casa, nonostante le sue proteste – «A che mi serve?». Si passa il fazzoletto sulla bocca, sospira – “Nun me sta sentu buenu” –, deglutisce con forza – “Pircè me sta gira la capu?”.
«Dobbiamo raccogliere un numero ingente di suffragi se vogliamo condizionare la politica della DC.» Il nonno scandisce parola per parola, rallenta, si ferma di nuovo. «Dobbiamo rivendicare il fatto che rappresentiamo la parte nobile della nazione, dicevo prima e lo ripeto ora di nuovo, quella parte che, forte del bagaglio di esperienza e di glorie del passato, guarda all’avvenire senza disconoscere ciò che è stato!»
La gente ascolta attentissima. Parte un applauso.
«Innestiamo l’avvenire nel solco glorioso del passaaa... to.» La parola si inceppa.
Mio padre fissa preoccupato nonno Arturo. Che succede? Sta per salire sul palco, ma poi resta immobile, non osa intromettersi. «Cittu tie!» gli aveva risposto il nonno poco prima dell’inizio del comizio, quando gli aveva detto che era pallido: «Forse è meglio che tu ti riposi un po’». «Sto benissimo.» «L’ha notato anche mamma che sei molto stanco.» «Chiacchiere suntu!»
Il nonno ricomincia a parlare, ma balbetta: «Ggg-looo-riooo-ssso». Si interrompe una seconda volta. La gente grida per incoraggiarlo. Il nonno prova a riprendere la parola, ma questa volta non ce la fa. Si accascia a terra. Perde i sensi.
C’è chi si precipita immediatamente sul palco, ma il nonno resta inerte. Non dà segni di vita quando papà gli si avvicina, non reagisce nemmeno quando il medico prova a rianimarlo.
Alle 23 di giovedì 22 maggio 1958, l’onorevole Marzano ha un ictus cerebrale. Non viene capito subito, per una settimana resta incosciente a casa del medico condotto di Botrugno, poi viene ricoverato in ospedale a Lecce.
Troppo tardi.
Ma forse non ci sarebbe stato nulla da fare nemmeno se lo avessero trasportato all’istante al pronto soccorso. «E poi, all’epoca, certe cose non si conoscevano, cosa vuoi che si sapesse allora dell’ictus?» dice mio padre.
Voglio sapere perché il nonno non fosse stato immediatamente ricoverato, perché si fosse perso tanto tempo, perché il medico non avesse subito intuito di cosa si trattasse. Ma papà non capisce questo mio accanimento, e continua a dire che non c’era stato nulla da fare, che quando erano arrivati all’ospedale di Lecce gli avevano detto che non sarebbe cambiato nulla, che poi avevano portato il nonno a Milano, che era rimasto ricoverato per alcuni mesi senza alcun giovamento, che aveva perso l’uso della parola.
TIA, attacchi ischemici transitori. È così che si dice oggi quando compaiono i primi sintomi di un ictus, anche se durano solo pochi minuti e poi scompaiono: formicolio a un braccio o a una gamba, improvvisa mancanza di forza, difficoltà a parlare.
Una settimana prima dell’ictus, il nonno li aveva avuti tutti i segnali, ma si era illuso di potercela fare lo stesso. Si era fermato un paio di giorni, questo sì, questo lo poteva fare. Poi però, nonostante le proteste della moglie, aveva ricominciato a girare nelle campagne e nei paesi della circoscrizione per comizi e cene elettorali. Mancavano solo pochi giorni al voto del 25 maggio, dopo ci sarebbe stato tutto il tempo per riposarsi.
Papà aveva provato a farlo ragionare, ma il nonno non ascoltava nessuno, faceva sempre di testa sua, come osava anche solo immaginare di intromettersi?
«Cittu tie!» lo aveva azzittito, come faceva sempre quando parlavano di politica. Che poi non si capiva proprio dove fosse andato a pescarle certe idee, Ferruccio, perché avesse deciso di laurearsi in Economia e non volesse diventare magistrato come lui, perché lo affascinassero tanto le affabulazioni dei socialisti. «Chi ti ha riempito la testa di stupidaggini, figlio mio? Quella è gente pericolosa, ascolta tuo padre che queste cose le sa, le ha vissute, le conosce bene! Comunisti, socialisti, sono tutti uguali!»
Quando sono nata io, il nonno era ancora in vita. Era su una sedia a rotelle, e non riusciva nemmeno a parlare. Con grandissima difficoltà, quando papà gli chiedeva di dire chi fosse, riusciva a balbettare il suo nome: «Aaa-rrr-ttt-uuu-rrr-ooo».
Ne avevo paura, da bambina. Non sapevo cosa avesse, nessuno me lo spiegava. «Si è accasciato al suolo ed è finito tutto» ripeteva sempre la nonna. Anche se quel “tutto”, per me, non aveva alcun senso: non capivo cosa fosse finito, cosa fosse stato perso.
Quando la parola “ictus” ha cominciato per me ad avere un significato, ero già grande. Era un giorno in cui ero stanca, non riuscivo ad articolare bene le parole, e mamma mi aveva fissato con gli occhi spalancati: «Riposati!». Un ordine più che una supplica. Come se la storia del nonno potesse ripetersi. «Quand’è che inizi a prenderti cura di te?» Come se, saltando una generazione, l’ictus mi fosse stato lasciato in eredità.
Tra i fattori di rischio dell’ictus, c’è la tendenza a una maggiore coagulazione del sangue. A differenza di mio padre, le cui ferite si rimarginano molto lentamente – quando lo operarono di tonsille ebbe un’emorragia, ero piccola ma ricordo perfettamente tutto quel sangue che non si riusciva a fermare –, io ho un sangue che coagula subito. Pare che abbia troppe piastrine. E poi soffro di emicrania, fumo, mi stanco. E spesso ho scatti di nervosismo e la pressione schizza. E se non faccio qualcosa, prima o poi, mi viene un ictus, mamma lo ripete terrorizzata.
«Ma non mi succede, mamma, non mi succede nulla!» – chissà da chi l’ho presa questa tendenza a credere di sapere sempre tutto e a pensarmi al di sopra di ogni sospetto. Gioco con la mia vita? Non ci tengo? Voglio morire?
Mi informo meglio. Trovo le principali regole per prevenire l’ictus.
A parte il fumo – regola numero 1: non fumare – e le visite periodiche dal medico di base, sto a posto!
Praticare attività fisica: fatto (niente palestra, mi annoia, ma ogni giorno nuoto o cammino contando i passi col cellulare).
Controllare il peso corporeo: fatto (anche troppo, dev’essere un retaggio dei miei disturbi del comportamento alimentare).
Limitare il consumo di alcolici: fatto (non bevo mai superalcolici, quando sono a cena fuori assaggio il vino tanto per evitare commenti o battute, ma non mi piace, non sopporto l’alcol, ancora meno chi ne abusa).
Correggere l’alimentazione: fatto (non mangio quasi mai carne, la mattina faccio colazione con cereali e yogurt, adoro la frutta e ne mangio tanta, meno la verdura, ma solo perché quella buona, a Parigi, non la si trova).
Limitare il sale nella dieta: più o meno fatto (almeno rispetto a Jacques, che aggiunge il sale anche quando mangia una mozzarella e trova sempre tutto sciapo, anche se quello con la pressione alta è lui).
Controllare la glicemia e la pressione arteriosa: fatto (vedi sopra).
Attenzione alla fibrillazione atriale, che poi sarebbe l’aritmia, con battiti al minuto superiori ai trecento: fatto (tranne quando ho la febbre, oppure quando perdo la pazienza, arrivo a malapena ai settanta battiti).
Vabbè, a parte il medico (ma quella è colpa dell’anamnesi) e le sigarette – «Allora?» inveisce Jacques. «Non mi avevi promesso di passare almeno alla sigaretta elettronica?» –, mi sembra che sia tutto a posto.
Alle elezioni del 7 giugno 1953, il Partito nazionale monarchico, nella circoscrizione di Lecce-Brindisi-Taranto, aveva preso il 14,41 per cento dei voti. Alle elezioni del 25 maggio 1958, nella medesima circoscrizione, perse quasi la metà dei voti, e alla Camera ebbe un solo seggio. Fu eletto un certo Antonio Daniele, con 11.758 preferenze, seguito da Agilulfo Caramia che di preferenze ne ottenne 11.202, mentre mio nonno arrivò solo terzo, con 10.322 voti.
La notizia dell’ictus si era immediatamente diffusa; ci fu addirittura chi disse che l’onorevole Marzano era morto. Vano fu lo sforzo di nascondere l’accaduto; vano il tentativo di spiegare che Arturo si sarebbe presto ripreso; vano persino il comizio che tenne mio padre a Campi il venerdì sera – doveva essere il comizio di chiusura e fu un disastro: papà, con la morte nel cuore, cercava di ricordare ai campioti gli interventi di nonno Arturo sull’agricoltura, sulla giustizia e sulla pubblica istruzione, ma la voce gli tremava e aveva il tono di chi, in fondo, in quelle idee ci credeva poco o niente.
«Mamma ce l’aveva con santa Rita» commenta papà quando gli chiedo cosa si ricordi di quel giorno. Questa cosa se la ricorda bene. «Poverina la mamma» aggiunge. «Che c’entrava santa Rita con l’ictus del marito? Il mondo le era crollato addosso, e lei se la prendeva con la santa. Era la patrona dei casi disperati e l’aveva abbandonata.»
«E il nonno?»
«E il nonno cosa?»
«Capiva quello che gli era successo?»
«Certo che capiva!» si intromette mia madre. «E si commuoveva pure. Pensa che, quando mi conobbe, gli occhi gli si riempirono di lacrime.»
«None! Non capiva!!!» la contraddice papà.
«E allora perché pianse la prima volta che venni a Campi per incontrare i tuoi?»
«Forse si commuoveva, sì» ammette alla fine papà. Che ormai, nonostante le proteste, la moglie la ascolta. «Ma da un punto di vista razionale, non capiva più nulla...»
Mentre provo a raccontare cosa successe a mio nonno il 22 maggio 1958, mi tornano in mente le immagini di Million Dollar Baby, il film di Clint Eastwood. Ho davanti agli occhi la scena del giorno in cui Maggie, dopo tante vittorie consecutive, combatte per il titolo mondiale contro Billie, “orso blu”. Frankie, il suo allenatore, non lo vuole questo match: “orso blu”, nel mondo della boxe, è nota per la scorrettezza e la cattiveria. Ma Maggie riesce a convincerlo, e ora è in vantaggio. Billie però non ha alcuna intenzione di perdere. E mentre Maggie, alla fine di un round, si dirige verso l’angolo, le sferra un colpo alle spalle. La giovane donna cade a terra battendo il collo contro lo sgabello, entra in coma, e al risveglio si ritrova tetraplegica. «Ho dimenticato la regola d’oro della boxe, capo» dirà a Frankie non appena riaprirà gli occhi. «Non sono stata capace di proteggermi.» Ma il problema non è l’incapacità di difendersi; il problema è l’ingiustizia della vita, che dopo averle dato tutto, nel giro di pochi istanti, di tutto la priva. Il problema è la perdita. Il problema è la fine di tutti i sogni e di tutte le speranze.
Conosco a memoria Million Dollar Baby, la scena dell’incidente l’ho vista e rivista un centinaio di volte. Ma ogni volta che la guardo, piango. Maggie perde tutto, e io sono inconsolabile. Maggie perde tutto, e io – che per tanti anni mi sono chiesta perché fossi ossessionata dal tema della perdita –, raccontando di quella sera del 1958, forse, per la prima volta, inizio a capire. Cioè. Non proprio capire, ma percepire. Ecco, sì, per la prima volta percepisco che quella mancanza che mi perseguita, forse, è la stessa che prova mio padre da quel 22 maggio, quando decise che la vita era fatta solo di sconfitte. Nonostante gli sforzi e nonostante il controllo. Nonostante l’illusione di avercela fatta: tanto nessuno ce la fa e il destino, prima o poi, ti porta via tutto.
È questo che hai pensato, papà, quel venerdì del 1997, quando tu e mamma riceveste quella telefonata? Ma mia figlia è impagabil tesor. È questo che hai fatto finta di non capire quando con mamma ti sei messo in viaggio, e sei arrivato a Pisa, e ti sei seduto in sala d’attesa, e hai lasciato che mamma entrasse da sola nel reparto di terapia intensiva? Miei signori, perdono, pietate, al vegliardo la figlia ridate. Dove hai messo il biglietto che vi avevo scritto quella sera, papà? Tutto al mondo tal figlia è per me.