Quel venerdì sera del 1997, volevo morire. Stavo male da così tanto tempo che l’unica cosa che desideravo davvero era smettere di vivere. Se la vita era sofferenza, perché dovevo insistere? Tanto ormai le avevo provate tutte: la psicanalisi, le promesse, gli sforzi, la fatica, gli psicofarmaci, un nuovo compagno, una casa diversa. Niente. Nulla serviva, anzi, le cose non facevano che peggiorare.
Ero da anni in un tunnel di cui non riuscivo a vedere l’uscita, avvolta nelle tenebre, nonostante ogni giorno mi alzassi, mi costringessi a fare quello che dovevo, mi trascinassi fino alla sera, per poi ricominciare il giorno seguente; ogni giorno era esattamente la stessa cosa, sempre quel coltello nel cuore. Mi ero laureata, avevo iniziato un dottorato, avevo vinto un concorso al Centro sperimentale di cinematografia.
Niente.
Stavo sempre peggio.
Anche se ogni giorno iniziavo con le migliori intenzioni: prendevo il motorino, andavo a Cinecittà, seguivo le lezioni, mi recavo dall’analista; il venerdì pomeriggio partivo per Pisa, dove abitava l’uomo che amavo; il lunedì, alle 6, prendevo un treno per tornare a Roma, ricominciavo a usare il motorino, a seguire le lezioni, ad andare dall’analista. Non cambiava mai niente.
Anzi.
Stavo sempre peggio.
Sempre quella disperazione quand’ero di fronte ai binari, la voglia di buttarmi giù, il vomito quando mangiavo – vomitavo sempre, vomitavo tutto, dolore e rabbia, un buco nero. Anche quando sembrava che non ci fosse motivo di star male: che ti manca? Domanda assurda. Come si fa a spiegare che, nonostante tutto quello che si ha, manca la gioia, manca la voglia, manca la semplice ed evidente certezza che vivere è bello?
Quel venerdì sera del 1997, non fu un “raptus” – come dissero i medici quando venni ricoverata; mi svegliai dopo quarantotto ore di coma e venni immediatamente trasportata nella sezione chiusa dell’ospedale psichiatrico di Pisa.
Non fu un gesto inconsulto, una cosa che passa – «Se avesse voluto davvero morire ci sarebbe riuscita» disse il mio terapeuta la prima volta che tornai da lui dopo essere stata dimessa, come se la violenza cui mi ero io stessa sottoposta non fosse stata sufficiente, e ci fosse bisogno di rigirare il coltello nella piaga: se avesse davvero voluto...
Erano mesi che lo dicevo, erano mesi che non vedevo altra soluzione.
Quel venerdì, durante la seduta di psicanalisi, non dissi una parola.
Piansi per tutta l’ora, senza mai guardare in faccia il mio analista – ma com’è che mi lasciò andare via in quelle condizioni? Credeva che mentissi, simulassi, recitassi una parte? È questo che pensava: “Come tutte le anoressiche, vuole manipolarmi”?
Piansi in macchina, mentre papà mi conduceva in stazione: come ogni venerdì pomeriggio era lui che mi accompagnava – perché mi hai lasciato partire, papà? Adesso forse lo so: non sapevi che fare, ti sentivi impotente, tua figlia non era più la stessa persona di prima e la vita, ancora una volta, ti tradiva; ma ero pur sempre tua figlia, no?
Piansi durante tutto il tragitto Roma-Pisa, nonostante quel ragazzo avesse cercato di consolarmi, quella donna avesse detto: «C’è sempre una soluzione!». Piansi convinta che non ci fosse più nulla da fare, pensando solo ai farmaci che avevo via via accumulato – un raptus? E tutti i flaconi di Lexotan e Laroxyl che avevo messo da parte girando per le farmacie di Pisa e di Roma? «La ricetta è scaduta, gliela porto domani!» «Promesso?» «Sì, certo, le pare?» –, piansi fino a che non arrivai a Pisa. La vita mi aveva tradito, punto.
Poi, nonostante gli occhi gonfi, dissi all’uomo che amavo che andava tutto bene, ero solo stanca. Tanto era stanco anche lui – del suo lavoro, di una relazione che non andava da nessuna parte, di me: “È nevrastenica e rompicoglioni, non posso farci nulla”.
La sera aspettai che lui si addormentasse. Quindi andai in cucina, aprii il cassetto dove avevo nascosto i flaconi, presi dall’armadio un bicchiere, posai tutto sul tavolo della sala da pranzo. Aprii i flaconi e versai il contenuto nel bicchiere. Aggiunsi un po’ d’acqua. Presi in mano il bicchiere fissandolo per alcuni minuti. Volevo scrivere un biglietto, ma avevo paura di perdere tempo e di non aver più il coraggio di bere quella roba. Respirai profondamente. Poi, trattenendo il respiro, bevvi tutto. Solo allora cominciai a scrivere.
Chiesi perdono a tutti: a papà, perché non ero la figlia che avrebbe voluto che io fossi; a mamma, perché le stavo spezzando il cuore; a mio fratello, perché lo stavo abbandonando; al mio compagno, che non c’entrava nulla; a Dio, nonostante avesse smesso da tempo di essere al mio fianco – ma come cazzo si fa a chiedere perdono quando ci si sta ammazzando, e la vita è una maledizione, e si vuole solo smettere di soffrire?
Fu quel biglietto, però, che mi salvò la vita.
Pianificando il suicidio, avevo pensato a tutto tranne al fatto che, lasciando per iscritto il mio addio dopo aver preso le gocce, avrei fatto passare qualche minuto. E la massiccia dose di ansiolitici e antidepressivi avrebbe iniziato ad agire. E la testa avrebbe cominciato a girarmi. E alzandomi dalla sedia avrei perso conoscenza. E cadendo a terra avrei fatto rumore. E il rumore avrebbe svegliato l’uomo che amavo. E lui mi avrebbe portato al pronto soccorso. E i medici mi avrebbero fatto una lavanda gastrica. E io sarei stata in coma, sì, ma poi mi sarei risvegliata – «Tanto appena esco lo rifaccio» dissi non appena aprii gli occhi, di nuovo il dolore all’altezza del cuore, perché sono ancora viva?
Era il 12 settembre 1997.
Il giorno della festa del Santissimo Nome di Maria.
Anche questa cosa non l’avevo messa in conto.
Il nome santissimo di Maria.
Il mio nome.
L’unico che appare su tutti i miei documenti di identità, su tutti i miei diplomi. Ufficialmente, Michela Marzano non esiste. E Maria, la figlia del miracolo, quel 12 settembre fu salvata da un altro miracolo.
Come se la vita dovesse infine ripagare mio padre per quella grazia che, per nonno Arturo, santa Rita non aveva concesso.