Tra le cose buttate a casaccio nei cartoni accatastati nello scantinato delle cugine, c’è una foto scattata il 14 settembre 1958. La data è annotata sul retro, è stato papà a farlo, anche questa volta riconosco la sua grafia.
È il giorno del compleanno di Rosaria, la sorella di mio padre, ma anche quello del suo fidanzamento ufficiale con Pierino. Nella foto, la Lala, come la chiamava papà, è in piedi e guarda il fidanzato mentre lui le infila l’anello all’anulare. Indossa un abito di velluto (marrone? verde? azzurro? La foto è in bianco e nero, non si capisce esattamente il colore del vestito, si intuisce solo che non è nero come quello della madre, né chiaro, come il completo di lino beige di Pierino) con la scollatura quadrata. Attorno al collo, ha un filo di perle: uno di quelli troppo lunghi per cingere il collo, ma troppo corti per non infilarsi nel vestito quando si abbassa leggermente il capo.
I due fidanzati sorridono, anche se non guardano l’obiettivo. Nell’istantanea, d’altronde, non c’è nessuno che abbia gli occhi rivolti verso il fotografo, ed è forse questo che rende l’immagine di una rara bellezza: nessuno è in posa; nessuno sembra nemmeno rendersi conto che c’è qualcuno, in quel momento, che cerca di immortalare l’evento.
La festa per il fidanzamento è stata organizzata nella casa di Campi. Non riesco immediatamente a capire in quale stanza sia stata allestita la tavolata con rustici, torte salate e dolci di pasta di mandorle, ma sulla parete di fondo, in bella vista, appare il certificato di laurea di mio nonno incorniciato e appeso al muro. Faccio il giro della casa con la foto in mano, per capire dove possa essere stata scattata. Ed è solo dopo un po’ che riconosco l’ex studio di Arturo, quello separato dal resto della casa, e che adesso è diventato la camera da letto dove dormono i miei genitori quando vengono a trovarmi.
Contenta della scoperta, torno alla scrivania e ricomincio a fissare la foto. Che è di una rara bellezza, dicevo. Sembra un quadro di Caravaggio, penso osservando i personaggi, le espressioni, i gesti. C’è qualcosa che mi fa tornare in mente la Vocazione di san Matteo, dove il pittore, con quel suo gioco di chiaroscuro, riesce ad attirare gli occhi di ogni spettatore sul volto di san Matteo, seduto a capotavola, quasi sul punto di levarsi. Anche in questa foto, lo sguardo va dritto sul viso di un solo personaggio, che sembra trovarsi al centro della scena suo malgrado.
In primo piano, vicino alla coppia di fidanzati, c’è nonna Rosetta che, con in mano una coppa di spumante, guarda sua figlia che guarda l’anello. Nonno Arturo, che è accanto alla moglie ma seduto, è preso di profilo: ha pure lui in mano una coppa di spumante, e anche lui sta guardando la figlia che guarda l’anello; ma ha la bocca leggermente aperta e un’espressione attonita, come sorpresa. Dietro Rosetta, Arturo e i due fidanzati, c’è mio padre. Ma papà non guarda né sua sorella, né l’anello.
I suoi occhi sono fissi sul nonno.
Nonostante gli sguardi di Rosetta, Arturo, Rosaria e Pierino convergano sull’anello, il fuoco dell’immagine è il viso di mio padre che fissa suo padre che sgrana gli occhi vuoti sulla figlia.
Più contemplo l’immagine, più mi convinco che è lui che il fotografo voleva ritrarre, non il fidanzamento della Lala.
Quando mio fratello viene con Jacopo a passare qualche giorno a Campi, gli mostro la foto. Gli dico: «Guarda papà, guarda com’è disperato!».
E lui: «È la solita espressione di papà, la scopri ora? Ce l’ha sempre avuta, dài!».
È vero. Ce l’ha sempre avuta. Ha ragione mio fratello. Un velo di tristezza e d’impotenza. Il problema sono io, che solo adesso realizzo ciò che forse ho sempre saputo, ma ignorato. Cioè. Forse non proprio ignorato, ma trascurato. Anzi, rimosso. Ecco, sì: la disperazione di papà l’ho sempre rimossa.
Io che mi vanto di capire le persone, di mio padre non ho capito nulla. Io che vado fiera del mio essere capace di cogliere le contraddizioni e le fratture altrui, con mio padre non l’ho fatto.
Per anni mi sono detta: il mio mondo è costruito attorno alla vulnerabilità umana, il resto è “appiccicaticcio” – disorganico, importuno, appiccicato addosso, come diceva papà quando parlava dei suoi studenti, quelli che imparavano a memoria i libri senza capirne il senso esatto, e che agli esami ripetevano nozioni e formule a pappagallo; è appiccicaticcia la logica matematica, nonostante i 30 e lode ottenuti in università a Logica 1, Logica 2 e Logica 3, altrimenti sarei capace di risolvere da sola l’enigma dei nove punti, e avrei intuitivamente saputo che bastava uscire dal quadro per collegare i punti con quattro segmenti senza mai staccare la penna dal foglio; è appiccicaticcia la storia, con tutte le date che da sempre mi ballano in testa, e ancora oggi me le devo appuntare su un pezzo di carta se voglio evitare di confondere eventi e guerre, colpi di Stato e dinastie.
Per anni mi sono detta: il mio universo è fatto di persone – il divagare attorno a una parola, e l’improvviso silenzio, e lo sguardo che precipita a terra o d’un tratto si vela.
E con papà allora? Dov’è andata a finire, con lui, quella mia attenzione maniacale nei confronti delle fragilità e delle umane contraddizioni?