Dopo diciotto anni passati su una sedia a rotelle, mio nonno muore il 31 agosto 1976. Io ho appena compiuto sei anni, e di quel giorno non ricordo nulla.
In una foto del corteo funebre che partì da casa in direzione del convento dei cappuccini, sono accanto a mamma, mano nella mano. Nonostante gli occhi pieni di lacrime e il viso gonfio, mia madre è di una bellezza straordinaria – mamma da giovane era più bella delle attrici più belle, lo so che l’ho già detto; ma ogni volta che la vedo ritratta in una foto resto incantata.
Tra le centinaia di cose accatastate nello scantinato delle cugine, ho trovato anche un album di fotografie consacrato al giorno del funerale di nonno Arturo. Nelle prime pagine, ci sono le foto di alcuni manifesti funebri che vennero appesi per le vie di Campi, anche se l’annuncio della morte dell’onorevole Marzano venne immediatamente dato dall’Angiulino Cassone, il fattore della famiglia di mio padre, la sera del 31 agosto, in piena festa patronale – le stradine e le piazze di Campi addobbate con le luminarie e ricamate da migliaia di luci colorate a guizzo di fontana, a nuvole e a boccioli; le bancarelle piene di cupete, mustazzoli, scapece e pupiddhri; la processione di sant’Oronzo in giro per il rione Conza. Oltre al manifesto fatto fare da papà, ce ne sono un paio in cui la sezione di Campi Salentina e la federazione provinciale di Lecce del Partito socialista italiano partecipano “con vivo cordoglio al grave lutto che ha colpito il compagno Ferruccio Marzano per la perdita del padre” – si presentò alle elezioni politiche del 20 giugno di quell’anno, papà; era nelle liste del PSI per la circoscrizione Brindisi-Lecce-Taranto, ma arrivò solo ottavo, con 6321 preferenze, e non venne eletto; fu l’unica volta che papà si presentò alle elezioni, e quando gli chiedo perché lo abbia fatto quella volta e poi mai più, la risposta è vaga, lacunosa, anche se ora, riflettendoci, forse capisco meglio perché ancora oggi insista a chiamarmi “onorevole” davanti a Promezio, il filippino che con sua moglie viene a casa dei miei genitori un paio di volte a settimana per aiutare mamma a fare le pulizie.
Le foto vere e proprie iniziano dopo quelle dei manifesti funebri. Ce n’è una scattata nel salone: la bara del nonno è stata appena chiusa, sopra c’è la toga da magistrato rifinita in oro, accanto c’è mia nonna seduta su una sedia, tutta vestita di nero, con una mano sulla bara e gli occhi socchiusi, sembra che stia accarezzando per l’ultima volta il marito – riconosco la finestra del salone che dà sulla strada, le imposte chiuse, come le tengo chiuse sempre anch’io, per evitare occhi indiscreti e sguardi estranei, anche se io non ho messo le tende, e nella foto ci sono quelle gialle, della stessa stoffa con cui sono tappezzati i divani, le poltrone e le sedie; riconosco la consolle stile Luigi Filippo in legno di mogano, con il piano d’appoggio in marmo crema e un grande specchio, e con sopra un orologio da tavolo in bronzo dorato pieno di volute e riccioli; sono anni che la consolle è nel salone della casa di Roma, anche se non so bene quand’è che ci è arrivata, insieme ai divani e alle poltrone del salone giallo.
Un paio di foto sono state scattate sulla veranda: alcuni uomini scendono gli scalini che portano nel cortile, con la bara del nonno sulle spalle – riconosco Totò, un contadino del Tresca, una delle terre della famiglia di mio padre, che era sempre tanto gentile con me e con la mamma; riconosco lu Luciu, come lo chiamava sempre papà, e lu Rapanà, due coloni dei fondi Don Francesco e Occhineri, gli altri invece non so chi siano, ma forse erano anche loro coloni, hanno tutti la giacca, alcuni persino la cravatta, nonostante il caldo umido che in estate c’è sempre in Salento; riconosco papà accanto a sua sorella: senza barba sembra un ragazzino, anche se ha l’aria tesa, contratta.
Fisso le foto del corteo funebre. Guardo papà, che è sottobraccio a Pierino e cammina con il viso basso, gli occhi incollati a terra, smunto. Guardo mamma che è sottobraccio alla zia Lala, e mi tiene per mano, mi sta guardando. Io sembro distratta, come scocciata, e faccio una smorfia mentre il vento mi muove i capelli, nonostante il cerchietto azzurro, in tinta con i fiorellini del vestito che mi aveva da poco cucito mamma. Dietro, in ordine sparso, parenti, amici, qualche contadino.
Jacques dice che un po’ di gente c’era quel pomeriggio, perché mi lamento sostenendo che non ci fosse nessuno? Ma ai funerali di mio nonno, il 2 settembre 1976 alle 17, c’era un centinaio scarso di persone: coloro che erano già venuti a rendere omaggio alla sua salma il giorno prima, e avevano firmato il registro che papà aveva preparato all’entrata di casa. Pochissima gente, se penso alle migliaia di fascicoli che ho trovato nello scantinato delle cugine, alle migliaia di uomini e donne che Arturo aveva aiutato, ascoltato, favorito e protetto quand’era deputato.
«Si è accasciato al suolo ed è finito tutto» mi aveva ripetuto tante volte mia nonna.
Quel “tutto”, all’epoca, non aveva per me alcun significato. Solo adesso, forse, inizio davvero a capire.