Mamma, un giorno, mi ha raccontato che, quando aveva conosciuto papà, lui sveniva alla vista del sangue.
«E poi?» ho chiesto a mio padre. Quando mio fratello e io eravamo piccoli, era lui che ci disinfettava sbucciature e ferite, impregnava di spirito un batuffolo di cotone e puliva il sangue senza prestare la minima attenzione alle nostre urla e ai nostri pianti. Guardava e puliva tutto quel sangue senza batter ciglio.
«Poi sono andato da uno psicologo che mi ha detto che dovevo smetterla di farmi carico di tutti e che dovevo pensare di più a me stesso. E, quando sono uscito dal suo studio, ero guarito.»
Mamma sosteneva che lo psicologo gli avesse anche consigliato di seguire una terapia analitica, ma papà, ovviamente, aveva fatto di testa sua e non c’era mai più tornato.
«E che dovevo tornarci a fare!» insisteva lui. «Non sono più svenuto. Quando sono uscito di lì, stavo bene.»
A me, però, questa storia è sempre sembrata strana, per non dire assurda. Che cosa era successo quel giorno? Papà era stato ipnotizzato? Chi era quel ciarlatano da cui era andato? Uno di quelli che in una sola seduta ti fanno magari smettere di fumare e che poi però, toccando il sintomo, rompono l’equilibrio di un’economia psichica precaria, causando spesso danni peggiori?
La storia del sangue e dello psicologo mi torna in mente mentre leggo le centinaia di lettere che papà scrisse o ricevette da sua madre e da sua sorella tra il 1962 e il 1968, gli anni durante i quali si trovava a Cambridge e studiava al Churchill College – era l’epoca in cui molti giovani economisti andavano in America o in Inghilterra per studiare le teorie keynesiane e neokeynesiane, e papà si era ritrovato a Cambridge insieme ad Antonio Pedone, Luigi Spaventa, Mario Amendola e molti altri giovani italiani della sua generazione, per quel BA e quel MA in Economics di cui è sempre stato così fiero e che gli permisero, una volta rientrato in Italia, di fare carriera in università.
Leggo e rileggo la corrispondenza di quegli anni, e ripenso alla storia dello svenimento di fronte al sangue. Papà, pur trovandosi all’estero, continua effettivamente a occuparsi di chiunque e di tutto. Cerca disperatamente di “salvare il salvabile”. E, nonostante l’unica cosa che gli interessi davvero sia lo studio, torna periodicamente a Campi per la vendemmia e i conti con i coloni, riempie la dichiarazione dei redditi dei genitori e della sorella, paga i contributi unificati, controlla il lavoro dell’Angiulino Cassone, si occupa della casa che il nonno aveva comprato a Roma subito prima di avere l’ictus, e segue le pratiche di Arturo che, dopo quattro anni di aspettativa per motivi di salute, va in pensione con quarant’anni di carriera e il titolo onorifico di magistrato di Corte di Cassazione.
Six o’clock, sir! It’s time to wake up.
«Succedeva ogni volta che partivo» diceva papà quand’ero piccola. «Dormivo in aeroporto, e alle sei in punto si presentava un poliziotto che mi diceva che era ora di svegliarmi; non voleva intendere ragione: erano le sei, e alle sei, in Inghilterra, ci si sveglia.» Da bambina lo ascoltavo spalancando gli occhi: povero papà, pensavo, costretto a dormire in aeroporto.
Diceva: «Viaggiavo sempre, un su-e-giù continuo tra Campi, Roma e Cambridge, una vita da cane! Mi alzavo alle cinque del mattino, l’Angiulino mi portava in macchina da Campi a Brindisi, da Brindisi partivo per Roma, a Roma avevo la coincidenza per Londra, da Heathrow prendevo un autobus per Victoria Station, da Victoria Station prendevo la metropolitana per Liverpool Street Station, e lì c’era il treno per Cambridge. Meno male che c’era l’Angiulino. Faceva tutto quello che gli dicevo di fare, mi voleva bene come a un figlio...».
Quando sono cresciuta e ho iniziato anch’io a viaggiare tanto, mi è venuto qualche dubbio. Mi sono detta che mio padre esagerava, ingigantiva, drammatizzava. E quando questa storia me l’ha tirata fuori negli anni in cui, ogni santa settimana, il martedì mattina prendevo un aereo da Parigi per arrivare a Roma e partecipare ai lavori della Camera, e poi tornavo a Parigi il venerdì pomeriggio, concentrando le mie otto ore di lezione in università il lunedì, gli ho gridato di smetterla: «Tu tornavi in Italia per Natale, per Pasqua e in agosto, non è questa una vita da cane! E poi basta con questa storia dell’Angiulino! Quale figlio dice al padre: “Fai questo, fai quello”, e lui lo fa? Era una brava persona, va bene! Ma era un fattore, che ti chiamava “don Ferruccio” e non osava contraddirti, come fai a dire che era come un padre? Tu non lo trattavi da padre, e lui, soprattutto, non ti trattava da figlio!».
Anche se, tra le centinaia di lettere conservate nello scantinato delle cugine, ne ho trovate un paio che l’Angiulino scrive a papà per rassicurarlo e nelle quali, tra una sgrammaticatura e l’altra e passando sistematicamente dal “lei” al “tu”, poi di nuovo al “lei”, di affetto, in fondo, ce n’è tanto:
Rispondo alla sua lettera facendole sapere che l’Onorevole e Donna Rosetta stanno bene, non stare in pensiero per loro, don Ferruccio! Che io tutti giorni li vado a trovare e li domando se hanno bisogno di me [...] i coloni li abbiamo pagati con la busta paga e nessuno ha parlato, anzi dopo mi hanno trovato dicendomi che sono rimasti contenti.
Papà ha sempre esagerato, sì. Ma il peso della casa di Campi e di quella di Roma c’era; e il peso dei genitori e delle terre pure; e il peso del senso del dovere, soprattutto, con una madre che non perdeva mai occasione per rimproverarlo o farlo sentire in colpa per il suo essere lontano. Adesso che ho letto le centinaia di lettere che papà ha scritto e ricevuto, inizio a capire tante cose, compresi la fobia del sangue e il sogno di sbarazzarsi dell’onere di pensare sempre agli altri, anche se poi, perdendo forse troppo velocemente il sintomo, mio padre si è chiuso a chiave in un mondo folle e paranoico.
Le cose peggiorano ulteriormente alla fine del 1967, quando papà si innamora di mamma e si fidanza ufficialmente con questa ragazza di Taranto, che viene da una famiglia che Rosetta considera «fin troppo modesta». “State tranquilli” scrive Ferruccio nell’aprile del 1968, dopo aver ricevuto una lista di rimproveri e accuse. “Io sono sempre lo stesso, con lo stesso vigile affetto di prima. Solo che sapete che non sono un tipo espansivo, ma nel mio intimo vi seguo nel pensiero ogni momento.”
Qualche settimana più tardi, deve giustificarsi di nuovo. Pare che Rosetta si sia lamentata del fatto che mia mamma non avesse la dote, lo deduco dalla risposta di papà, l’originale della lettera della nonna non l’ho trovato. E papà:
Non mi interessa affatto, io sono una persona moderna e intellettuale, e poi sto facendo un matrimonio d’amore, Paola mia è una ragazza di cui sono innamorato [...] se voi volete, tramite la Lala, potete magari chiedere alla madre, vorrei però che Paola non ne sapesse nulla, se dovesse saperlo si dispiacerebbe, e questo mi crea un forte dispiacere.
Leggo, e mi tornano in mente alcune assurde discussioni cui ho assistito da bambina; leggo e mi dico: ma questa storia della dote non ha alcun senso, siamo alla fine degli anni Sessanta e mia nonna protesta col figlio perché la futura nuora non ha la dote? Leggo e sono combattuta tra la rabbia nei confronti della famiglia di papà – che gli ha sempre messo i bastoni fra le ruote e che è stata senz’altro all’origine di molte tensioni e tanti litigi tra i miei genitori – e una nuova tenerezza verso mio padre, che forse ci ha pure provato, a ribellarsi, e che Paola l’amava davvero; ma allora perché, poi, si è incartato su se stesso? Perché in casa mia, col tempo, tutto è andato storto? Perché papà, che aveva studiato con Duccio Cavalieri, Fausto Vicarelli, Mario Amendola, Giorgio La Malfa, Michele Salvati, Alberto Quadro Curzio e molti altri brillanti economisti, pian piano si è isolato e si è chiuso a chiave nel suo piccolo mondo?
Alcuni mesi fa ho conosciuto Giorgio La Malfa.
Sapevo che lui e mio padre erano stati ad Harvard e a Cambridge nello stesso periodo; sapevo che si erano frequentati ed erano diventati amici; sapevo che c’era reciproca stima. «Sono la figlia di Ferruccio Marzano, papà la saluta con affetto» gli ho detto, stringendogli la mano. «Ferruccio, certo, come sta? È da tantissimo che non ci sentiamo. Gli dica di chiamarmi, ecco il mio numero, glielo dia, mi raccomando, mi farebbe tanto piacere rivederlo!»
Ma papà non l’ha chiamato. E quando gli è arrivato un invito per assistere a una sua conferenza, non è andato. Sono praticamente certa che il numero di telefono che gli ho dato l’ha perso, anche se, quando gli ho detto che La Malfa aspettava una sua telefonata, sembrava contento.
Ma La Malfa è stato deputato e ministro, papà no. La Malfa continua ad andare in giro, a partecipare a riunioni e convegni, a frequentare i colleghi, papà no. Mio padre si è isolato dal mondo, riacciuffato forse da un passato con il quale si è sempre rifiutato di fare i conti. Quel passato cinico e baro che riacciuffa chiunque, e che ci schiaccia, papà!
Se non troviamo il coraggio di riattraversarlo, è lui che ha la meglio.