Lo scorso 13 luglio, quand’ero ancora bloccata a Parigi e non avevo letto il fascicolo personale di mio nonno, né immaginavo la quantità di carte che avrei trovato nello scantinato delle cugine, il presidente Mattarella, a Trieste, si lascia ritrarre in foto con Borut Pahor, il presidente della Repubblica di Slovenia. Mano nella mano, Mattarella e Pahor sono davanti alla foiba di Basovizza dove, nel 1945, i partigiani jugoslavi scaraventarono giù duemila italiani.
Subito dopo, il gesto viene ripetuto presso il Monumento ai caduti sloveni, che ricorda quattro giovani antifascisti slavi condannati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
«La storia non si cancella» dichiara di fronte ai cronisti Sergio Mattarella. «Possiamo coltivarla con rancore, oppure farne patrimonio comune nel ricordo e nel rispetto.»
Da quando Mattarella è il nostro presidente, la memoria non è più solo un termine retorico, e il 27 gennaio è diventato un’occasione per fare davvero i conti con il passato.
Sono andata a rileggere i discorsi presidenziali pronunciati nella Giornata della memoria – istituita in Italia nel luglio del 2000 per non dimenticare la Shoah e “le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Discorsi sempre belli e pieni di omaggi – da Primo Levi a Elie Wiesel, da Rita Levi Montalcini ad Abraham Yehoshua, sono tante le persone citate dal presidente Ciampi e dal presidente Napolitano; discorsi che condannano fermamente il nazifascismo e il collaborazionismo, l’antisemitismo e il razzismo, l’odio e il fondamentalismo islamico. Mai nessun presidente della Repubblica prima di Sergio Mattarella, però, aveva avuto la forza (o la volontà) di rimettere in discussione il mito degli “italiani brava gente”.
Il 28 gennaio 2018, Mattarella l’ha fatto. E, senza inutili giri di parole, ha ricordato cosa accadde in Italia:
Le leggi razziali – che, oggi, molti studiosi preferiscono chiamare “leggi razziste” – rappresentano un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia. Ideate e scritte di pugno da Mussolini, trovarono a tutti i livelli delle istituzioni, della politica, della cultura e della società italiana connivenze, complicità, turpi convenienze, indifferenza.
Un discorso comparabile a quello che tenne il presidente tedesco Richard von Weizsäcker l’8 maggio 1985, e che costrinse i tedeschi a guardare in faccia la realtà, a provare a rielaborare non solo il proprio passato nazista, ma anche la violenza del terrorismo della Rote Armee Fraktion che aveva dilaniato la Germania negli anni Settanta.
Ma la persecuzione, da sola, non fu ritenuta sufficiente. Occorreva tentare di darle una base giuridica, una giustificazione ideologica, delle argomentazioni pseudo-scientifiche. Vennero cercati – e, purtroppo, si trovarono – intellettuali, antropologi, medici, giuristi e storici compiacenti. Nacque Il Manifesto della Razza. Letto oggi potrebbe far persino sorridere, per la mole di stoltezze, banalità e falsità contenute, se sorridere si potesse su una tragedia così immane [...] La penna propagandistica, efficace nel suo cinismo, coniò lo slogan con il quale intendeva rassicurare gli italiani e il mondo, nel tentativo di prendere, apparentemente, le distanze dall’antisemitismo nazista: “Discriminare” disse Mussolini “non significa perseguitare”. Ma cacciare i bambini dalle scuole, espellere gli ebrei dall’amministrazione statale, proibire loro il lavoro intellettuale, confiscare i beni e le attività commerciali, cancellare i nomi ebraici dai libri, dalle targhe e persino dagli elenchi del telefono e dai necrologi sui giornali costituiva una persecuzione della peggiore specie. Gli ebrei in Italia erano, di fatto, condannati alla segregazione, all’isolamento, all’oblio civile. In molti casi, tutto questo rappresentò la premessa dell’eliminazione fisica.
Trent’anni dopo Richard von Weizsäcker, anche il nostro presidente della Repubblica evoca nel lutto gli ebrei, gli omosessuali, i sinti e i rom. Perché il razzismo e la guerra non furono semplici errori o deviazioni rispetto al modo di pensare del fascismo, ma la diretta e inevitabile conseguenza di ciò che era stato il regime.
Volontà di dominio e di conquista, esaltazione della violenza, retorica bellicistica, sopraffazione e autoritarismo, supremazia razziale, intervento in guerra contro uno schieramento che sembrava prossimo alla sconfitta, furono diverse facce dello stesso prisma.
Sergio Mattarella lo dice. Senza perdersi in inutili querelle. Perché non serve a nulla disquisire sulle bonifiche o sul sistema pensionistico, sulla costruzione di strade e scuole o sul pareggio di bilancio – ci mancherebbe pure che in vent’anni non si fosse combattuta la malaria o l’analfabetismo! –, non è questo il punto, non è questo il problema, altrimenti si ripiomba nella retorica del “datemi i pieni poteri e farò”.
Il dramma del fascismo è stato la cancellazione delle libertà politiche e civili; è stato il non potersi esprimere e il non poter non essere d’accordo. E poi la dittatura, il conformismo, l’olio di ricino, il confino, le discriminazioni, la supremazia razziale, il virilismo, l’omofobia, e quindi l’impossibilità, per le persone, di essere tutte uguali in termini di dignità, di valore e di diritti, nonostante le differenze che ci caratterizzano e che è assurdo pensare di cancellare.
La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d’Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo. La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire.
A trent’anni di distanza rispetto alla Germania, anche in Italia si riaprono i conti con la storia. E, forse per la prima volta, si inizia davvero a capire che cancellare e rimuovere il Ventennio non permette di uscire dalle contraddizioni profonde che caratterizzano ancora oggi il nostro Paese.