Sono tornata a Parigi e ho ripreso la mia vita di sempre, anche se le lezioni continuano a essere online, e non ho la più pallida idea di quando potrò tornare di nuovo a Campi, rivedere mio nipote o passare qualche giorno a Roma con i miei genitori.
Sono tornata a Parigi e ho riletto di fila tutto quello che ho scritto, cancellando interi capitoli e riscrivendone daccapo molti. Ho scritto e riscritto centinaia di volte alcune frasi, convinta che fossero le parole sbagliate a impedirmi di toccare quella verità che mi aveva spinto a iniziare questo libro.
Poi ho deciso di smettere.
La vita non è un puzzle, devo rassegnarmi. Devo accettare che alcuni pezzi siano andati smarriti e accontentarmi della cornice e delle parti che sono riuscita a ricostruire.
Esattamente come ho deciso di smettere di cercare ovunque informazioni sull’adozione. Quando ho detto a Jacques che mi volevo iscrivere a una riunione su Zoom organizzata per chi volesse intraprendere un percorso di adozione, lui ha sgranato gli occhi e mi ha detto: «Ma sei impazzita? Hai appena finito di fare la pace con la tua storia e adesso vuoi confrontarti con i segreti e i rimossi di un bambino che un giorno farà di tutto per capire da dove viene e perché è stato abbandonato?». E questa volta ha senz’altro ragione lui. Ormai è troppo tardi pure per adottare.
Rileggo tutto ancora una volta, poi esco di casa e telefono a papà.
Sono al Luxembourg e cammino parlando. Ho gli auricolari e gesticolo. Forse a tratti alzo la voce, visto che qualcuno si gira e mi fissa. Ma forse è solo perché parlo in italiano, e poi sono sei volte che faccio il giro del giardino passando e ripassando di fronte alle stesse panchine e alle stesse persone.
Gli dico: «Ti ricordi quando leggevamo insieme The Selfish Giant? Ti ricordi che il professore di inglese ci aveva chiesto di imparare a memoria alcuni passaggi del racconto di Oscar Wilde e io non ci riuscivo? Ti ricordi quante volte abbiamo ripetuto insieme: Years went over, and the giant grew very old and feeble?».
Papà se lo ricorda. E ripete la frase, come faceva allora, insistendo sulla I lunga di feeble, «in inglese si legge fiibol!» continua, nemmeno fossi tornata ragazzina e avessi bisogno del suo aiuto per imparare a parlare senza accento.
«Ora ho capito perché questa frase ti faceva commuovere, papà.»
Tante cose non le ho capite, ma questo sì. Anche se capire non basta a perdonare. Ma non glielo dico. Tanto non ho bisogno di perdonarlo per amarlo.
Papà rimane a lungo in silenzio.
Poi: «Perché non ne parli con tua madre? Lei certe cose le sa meglio di me...». Esclusiva del sito Evrekaddl.