XV. VIAGGIO IN ITALIA
Balzac stesso ha descritto con perversa voluttà da flagellante e talvolta con passione trascinante quest’anno delle catastrofi, pieno di processi, di sequestri, di denunce, di fallimenti, di complicazioni, pieno anche delle ore trascorse nella prigione di Stato e di quelle ancor più numerose alla galera del suo lavoro. Ma non si riesce a superare il sospetto che appunto la precisione con cui di settimana in settimana comunica i bollettini dei suoi crucci e delle sue sconfitte serva soltanto a dissimulare quanto di reale e di essenziale nella propria vita egli preferisce tacere all’amica. L’enorme, la incomparabile vitalità di Balzac si manifesta in modo impressionante nel fatto che proprio in quest’annata, in cui davvero è aizzato da mute di cani e immerso nella creazione di quattro o cinque capolavori, trova pur sempre tempo e voglia di vivere nell’avventura e nel lusso. Nulla di più erroneo che immaginarsi Balzac, sulla fede delle sue parole, come un ascetico galeotto del lavoro, che nelle ore libere si accascia esausto. In realtà negli scarsi intervalli concessigli dagli affari e dal lavoro vive nel modo più intenso e spensierato, anche in ciò eterno uomo degli eccessi e degli sprechi. Non si comprende l’uomo Balzac se non se ne conosce l’ultimo segreto: la sua indifferenza di fronte a tutto quello che si suol chiamare destino e colpi del destino, un’indifferenza che ha le sue radici nell’enorme coscienza di sé. Vi è qualcosa in lui, ed è forse questa la sostanza più intima della sua personalità, che non partecipa alle catastrofi della sua vita esteriore e che contempla quelle bufere con la medesima ansiosa attenzione con cui si contempla dalla terraferma un mare in tempesta. Il fatto che al mattino gli uscieri sono venuti a battere alla sua porta non gli impedirà mai di comprare nel pomeriggio dal suo gioielliere, per quegli stessi duecento franchi richiestigli e che non possiede, un ninnolo assolutamente superfluo. È proprio in quel 1836 in cui i suoi debiti son saliti a centoquarantamila franchi, in cui deve farsi prestare dal sarto o dal medico gli spiccioli per il pranzo, che ordina la famosissima «canne de monsieur de Balzac», il bastone attorno a cui Madame de Girardin ha ricamato un romanzo, e un altro bastone da passeggio di corno di rinoceronte per seicento franchi, un temperino d’oro per centonovanta, un borsellino per centodieci, una catena per quattrocentoventi: tutte spese degne di una cocotte che abbia spogliato un nababbo più che di un «misero mugìk», di uno «schiavo del lavoro», di un risoluto asceta. In lui opera una spinta segreta ed equilibratrice: quanto più si immerge nei debiti, tanto più con simili costose vanità vuol darsi l’illusione del lusso. Quanto più le circostanze lo opprimono, tanto più sale come in un barometro la colonna di mercurio della sua vitalità. Quanto più la macina lo schiaccia, tanto più sente il bisogno di godimenti. Senza tale antitesi la sua esistenza apparirebbe stolta, ma grazie a questa appare grandiosa: è il prorompere di un elemento vulcanico sovraccaricato, che può manifestarsi soltanto con eruzioni ed esplosioni.
Così l’annata 1836, quella delle più dure crisi, è anche quella dei più ardenti colpi di sole e dei temporali più violenti, è un anno particolarmente fecondo per la vendemmia di sessualità e di lusso nell’esistenza di Balzac. Per ammirare appieno la sua temeraria e incredibilmente acrobatica compiacenza di ogni fantasiosa mistificazione e dissimulazione dei fatti reali, basta confrontare la sua vera biografia con l’immagine autobiografica da lui offertaci nelle lettere alla signora Hanska. Racconta per esempio alla «sposa d’amore» – la quale per fortuna vive tante miglia lontano! – che per rintanarsi nella più perfetta solitudine ha preso in affitto, oltre alla Rue Cassini, una «mansarda» dove trascorre la vita non scoperto neppure dagli amici più intimi, povero e stanco vecchio eremita dai capelli grigi: una «cella inaccessibile a tutti, persino alla mia famiglia».
Nella realtà quella cella che Balzac fa credere di aver preso in affitto per compassione al suo amico Giulio Sandeau è un appartamento di estremo lusso, per il cui arredo non bada a spese. Nella Rue Cassini ci sarebbero mobili più che sufficienti per quattro stanze, ma Balzac ordina tutto nuovo dal caro tappezziere Moreau sul Boulevard des Capucines. Persino il servitore, Auguste, ha una livrea nuova, azzurra con panciotto rosso, per la quale Balzac si è privato – o meglio si è indebitato – di 368 franchi. Il pezzo forte nella cosidetta cella monacale è il boudoir, più adatto a una Signora delle Camelie che a uno scrittore. Ma appunto il cumulo di cose preziose, la sensualità raffinata dei colori, entusiasmano Balzac al punto che ne dà una esatta descrizione nella Ragazza dagli occhi d’oro.
La metà del salottino descriveva una linea circolare piena di grazia che faceva contrasto all’altra metà perfettamente quadrata, al cui centro luccicava un camino bianco e oro. Si entrava da una porta laterale celata da una ricca portiera ad arazzo e posta di fronte alla finestra. Il ferro da cavallo era occupato da un vero divano turco, cioè da un materasso largo come un letto, di cinquanta piedi di perimetro, ricoperto di cachemire bianco, ravvivato da strisce arricciate di seta nera e rossa disposte a losanghe. Lo schienale di questo immenso divano era di parecchi pollici più alto dei numerosi cuscini che lo facevano ancor più lussuoso col gusto dei loro ornamenti. Il salottino aveva le pareti rivestite di stoffa rossa sulla quale s’appoggiava una mussolina delle Indie a righe drappeggiata alla guisa di colonne corinzie, con pieghe concave e convesse trattenute in alto e in basso da strisce di stoffa rossa ad arabeschi neri. Nella velatura della mussola il rosso diventava roseo, amoroso colore ripetuto dalle cortine alle finestre in mussola d’India foderata di taffetà rosa con frange rosse e nero. Sei bracci di vermeil reggevano ciascuno due candelabri alle pareti, fissati a distanza regolare sulla tappezzeria per illuminare il divano. Il soffitto, dal cui centro pendeva un lampadario di metallo opaco, splendeva di candore, mentre la sua cornice era dorata. Il tappeto assomigliava a uno scialle orientale, di cui ripeteva i disegni rievocando le poesie della Persia, dove mani di schiavi lo avevano intessuto. I mobili erano ricoperti di cachemire bianco con gli stessi ornamenti rosso e nero. Pendola e candelabri sul caminetto erano di marmo bianco e oro. La sola tavola del salotto era coperta da uno scialle di cachemire, alcune eleganti giardiniere contenevano rose di ogni qualità con fiori bianchi e rossi.
Tutto questo a noi ricorda in modo preoccupante il cattivo gusto da tappezziere di Richard Wagner, che si sentiva particolarmente ispirato tra simili ammassi di scialli e di sete. Balzac invece non ne ha affatto bisogno per eccitamento e ispirazione – che a lui viene appena siede a un qualunque semplice tavolino – ma per finalità molto più concrete. Mentre mostra all’amico Fontanney quel «celebre divano turco bianco» gli sfugge, nonostante il suo abituale riserbo, la sorridente confessione: «Me lo son fatto fare quando stavo per conquistare una gran dama. Per Bacco! Ci voleva proprio un mobile di lusso, essa aveva nobili abitudini. E quando è stata sul canapè non se ne è trovata malcontenta».
Ma anche se Fontanney non avesse accuratamente annotato quelle parole nel suo diario, basterebbe il genere del nuovo appartamentino a farci capire. Ogni volta che Balzac fa del lusso e vuol trasformarsi in elegantone, vuol dire che è innamorato. Ogni volta che arreda una camera voluttuosamente aspetta un’amante. I suoi sentimenti come le sue preoccupazioni si esprimono sempre con nuovi debiti. Quando ad esempio cercava di conquistare la duchessa de Castries, s’era preso carrozza e groom e per lei aveva comprato il suo primo divano. Alla signora de Berny era destinato l’arredo della sua camera da letto in Rue des Marais; per amor della signora Hanska si era fatto spedire in fretta a Ginevra un’altra dozzina di paia di guanti e nuove creme, e per Vienna aveva preso una carrozza da viaggio privata. Ecco dunque, accanto a tanti altri, un nuovo paradosso: proprio nello stesso anno in cui si promette per l’eternità alla sua «sposa d’amore», in cui descrive in ogni lettera le torture della sua castità, ha iniziato una tra le relazioni amorose più passionali e più spontanee: il meraviglioso epistolario d’amore alla sua «Unica», che un’intera generazione ha letto commossa, fu scritto prima o dopo gli incontri erotici con un’altra.
Balzac – ancora un paradosso – ha conosciuto questa nuova amante, che tenne nella sua vita una parte accuratamente dissimulata ma notevolissima, attraverso la signora Hanska. Alla partenza di lui da Ginevra la baronessa aveva dato al suo amico e segreto fidanzato una presentazione per la contessa Apponyi, moglie dell’ambasciatore austriaco a Parigi, e Balzac, che con la sua mania per gli aristocratici trova sempre tempo per contesse, duchesse o principesse, si presenta subito all’ambasciata. Durante una delle grandi feste del 1835 lo colpisce una signora di circa trent’anni, di eccezionale bellezza, grande, bionda, formosa, che passa tra la folla libera e sensuale, a spalle nude, lasciandosi corteggiare senza imbarazzo. Non è soltanto la bellezza di quella donna ad entusiasmare Balzac. Fino a un certo punto rimane un plebeo nel suo erotismo, attratto sempre dalla posizione sociale, dal nome aristocratico più che da una persona. Basta che gli raccontino che quella straniera è una contessa Guidoboni-Visconti per infiammarsi. I Visconti sono stati i duchi di Milano, i Guidoboni appartengono alla più antica nobiltà italiana. Persino i Rzewuski sono superati nell’albero genealogico da questi grandi signori del Rinascimento. Così avvicina la bella donna, invincibilmente affascinato e dimentico dei suoi giuramenti di fedeltà eterna.
Vista da vicino si scopre però che la bella straniera non è per nascita né contessa né italiana. Il suo nome da nubile è Sarah Lowell, è nata presso Londra nel 1804, in una famiglia bizzarra e ricca di spleen inglese, in cui suicidi e passioni ardenti sono addirittura epidemici. Sua madre, pure celebre per la bellezza, si uccide appena si sente invecchiare e si uccide pure un suo fratello; un altro finisce alcolizzato, la sorella minore è affetta da mania religiosa. Unica normale della famiglia, la bella contessa concentra la sua mania al regno di Eros: in apparenza gelida anglosassone bionda e impassibile, cede invece senza ritegni interiori e anche senza intensità di passione ad ogni avventura che la alletti. Suole in tal caso dimenticare completamente l’esistenza di un legittimo consorte pescato in qualche viaggio nella figura del conte Emilio Visconti-Guidoboni, persona modesta e tranquilla che si guarda bene dal disturbarla.
Emilio Visconti-Guidoboni da parte sua coltiva passioni che non contrastano mai con quelle piuttosto scandalose della signora. Egli considera la musica – e sarebbe degno di essere fissato in una novella di E.T.A. Hoffmann – la vera amante della sua esistenza. Benché rampollo di potenti condottieri, non conosce gioia più grande che sedere insieme agli altri poveri suonatori mal pagati in una qualunque orchestra e suonare il violino. I Visconti-Guidoboni posseggono, oltre ai palazzi di Parigi e di Vienna, una casa a Versaglia, e qui ogni sera Balzac s’avvicina al leggio. In qualunque posto arrivi, sempre il dilettante entusiasta chiede timidamente il permesso di grattare il suo violino in un’orchestra. Di giorno ha invece la bizzarria di fare il farmacista: va mescolando come un alchimista medievale i più disparati ingredienti, riempie ed etichetta flaconi e bottiglie. Comparire in società costituisce un peso per lui, che si sente a suo agio solo nell’ombra. Non è mai quindi d’impaccio a sua moglie né agli amanti di lei, e anzi li tratta con grande cortesia, visto che gli danno modo di dedicarsi alla musica adorata. Balzac, al quale tocca per la terza volta in vita sua d’incontrare – dopo il signor de Berny e il signor Hanski – un marito che per cavalleria e per indifferenza lascia alla moglie ogni possibilità di farsi adorare da un celebre poeta, si lancia verso la meta con la caratteristica sua impazienza e focosità. Per qualche tempo le sue ore libere sono tutte riservate ai Visconti-Guidoboni: li va a trovare a Neuilly, si reca a Versailles, divide il loro palco agli «Italiani» e nell’aprile del 1835, a neppure un trimestre dal ritorno da Ginevra, confessa, non in confessione generale alla signora Hanska ma soltanto alla fidatissima Zulma Carraud: «Da qualche giorno sono in potere di una persona molto invadente e non so come sottrarmi a lei, poiché di fronte a quel che mi piace mi riduco come le fanciulle senza forza…».
La contessa esita ancora prima di subire la vera «invasione» di Balzac. Ha appena licenziato il suo precedente amante principe Koslovski, col cui concorso ha donato al marito musicomane un figlio, e non è ben decisa se prendersi ora come immediato successore, invece di Balzac, il conte de Bonval, uno dei gran signori della società parigina. Ma d’altra parte Balzac non può dedicarsi con pieno slancio al nuovo capriccio, perché i libri bisogna pur scriverli e bisogna anche continuar la lotta contro i creditori, e neppure può permettere che si raffreddi l’altro ferro. La signora Hanska viene subito informata da amici russi e polacchi, dai Koslovski, dai Kisselev e da altri benevoli chiacchieroni dell’improvviso amore per la musica di Balzac. Sa che ha lasciato il palco non pericoloso di Olympe Pélissier, l’amante di Rossini, per quello della Visconti e, decisa ormai a sostenere nella vita di Balzac il ruolo di prima donna assoluta, lo accusa nelle sue lettere di disonestà e di infedeltà. Pare che nel loro patto stranissimo, concluso senza curarsi del vivente e ignaro marito, lei abbia preteso da Balzac la fedeltà assoluta, concedendogli come solo ristoro «des filles», insomma avventure che non implicassero valori sentimentali né compromissioni sociali. Ma conosce Balzac abbastanza per sapere che lui scriverà alla contessa Guidoboni-Visconti lettere appassionate, pompose ed esuberanti, proprio come ne scrive a lei che crede essersi meritata il monopolio. Per tranquillizzarla alla fine Balzac non trova altro mezzo – non vuol perdere alla leggera la futura vedova stramilionaria – che intraprendere un’altra spedizione costosa e fantastica fino a Vienna, per assicurare alla «sposa» che lei rimane unica nel suo cuore. Poi viene l’estate a Saché, dove riscatta col lavoro la penale. Nell’agosto 1835 riprende la gara con il de Bonval per la conquista della bella contessa. La vittoria tocca a Balzac; Balzac diventa l’amante della contessa e con tutta probabilità – se vogliamo prestar fede al libro stranamente bene informato di un anonimo, Balzac messo a nudo – diventa anche padre di quel Lionello Riccardo Visconti-Guidoboni nato il 29 maggio 1836, una delle tre uova di cuculo che non hanno ereditato né il nome né il genio del padre segreto.
Quantunque sia stata per ben cinque anni l’amante, l’amica generosa e la soccorritrice instancabile in ogni frangente, la contessa Visconti vien lasciata nell’ombra in tutte le biografie di Balzac, e ciò per sua colpa. Spesso nella vita non è decisivo quel che uno ha fatto, ma lo zelo con cui ha saputo mettere in luce le sue azioni. La contessa non ha mai aspirato alla postuma gloria letteraria, e la sua immagine è stata completamente sopraffatta da quella tanto più vanitosa interessata e tenace di Eva Hanska, che fin dal primo giorno ha mirato al ruolo di «amante immortale» del grand’uomo. Balzac non sarebbe Balzac se non avesse scritto negli anni della passione epistole entusiaste anche alla contessa Visconti. Ma questa non le ha numerate né conservate sin dal principio per la stampa in un prezioso cofanetto. Forse per indolenza, forse per il sovrano orgoglio di non voler esser trascinata dopo la morte per gazzette e racconti, ha rinunciato ad ogni genere di gloria nella storia delle lettere, ma tanto più coraggiosamente e cordialmente si è dedicata allo scrittore vivo. In tal modo si è anche alleggerita di quegli elementi penosi che riscontriamo nella relazione con la signora Hanska appena la analizziamo da vicino. Anche nel periodo della cosiddetta «grande passione» l’intelligente e ambiziosa nobildonna polacca pensava alla sua «posizione» mondana, alla sua fama futura nella storia letteraria. Per vent’anni si intuisce nella signora Hanska la paura di compromettersi con o per Balzac. Vorrebbe tener sempre ben caldo il suo posto d’onore nella sua esistenza, ma senza prodigare il proprio ardore. Vuole Balzac amante, trovatore devoto, ma in segreto, in gran segreto, senza che il nobile parentado lo possa indovinare. Vuole i suoi libri e i suoi manoscritti, ma, per amor di Dio, senza scandalo! Sgattaiola nella sua camera d’albergo, ma in pubblico parla con biasimo impassibile del bizzarro signor de Balzac. Sostiene col marito la parte di sposa fedele e intanto si promette con anticipata vedovanza all’amico, pur di mantenerselo come corteggiatore. Non rinuncia al consorte né ai suoi milioni, non rischia un filo della propria fama immacolata, e anche quando rimane libera non sa decidersi alla mésalliance. Il suo contegno rivela sempre intenzione, calcolo, meschinità, prudenza e anche la sua dedizione una o due volte a Ginevra ha l’aria di essere un’elemosina, un atto di curiosità subito deplorato piuttosto che una cosciente e generosa offerta del proprio io.
Nel confronto con questo amore pieno di insincerità, di dissimulazione, di freddo gioco, la contessa Visconti nella sua apparente immoralità diventa figura magnanima e sovrana.
Appena ha deciso di darsi a Balzac, lo fa con piena passione – il suo ritratto nel Giglio nella valle ne è testimonianza – senza affatto curarsi che tutta Parigi lo sappia e ci ricami pettegolezzi. Si fa vedere con lui nel suo palco, lo accoglie in casa propria quando non sa come sfuggire ai creditori e abita con lui a porta a porta a Les Jardies. Di fronte al marito non gioca la commedia disgustosa della moglie fedele: non tollera da lui la minima gelosia, ma a sua volta non tortura Balzac come la lontana rivale spiandolo meschinamente con angusta diffidenza. Gli lascia la sua libertà e ride delle sue avventure. Non mente e non costringe neppur lui a mentire come è costretto a fare in tutte le sue lettere all’altra. Pur non essendo di un decimo ricca come gli Hanski, lo aiuta una dozzina di volte, ora con richieste di lavoro, ora con denaro contante: è buona amante e buona amica a un tempo, rivela ad ogni istante una schiettezza, un’audacia e una libertà che può possedere solo chi non si subordini a una società, a una convenzione, a una classe, ma segua il proprio volere.
Tale sincerità rende impossibile a Balzac nascondere del tutto i loro rapporti all’amica lontana. Riuscirebbe forse a negare che le appassionate scene d’amore del Giglio nella valle sono ispirate dalle prime estasi vissute con la contessa, e infatti le scrive facendo l’ingenuo che stupisce di fronte alle perfidie del mondo: «Non raccontano persino che abbia fatto il ritratto della signora Visconti?». Ma non può impedire che partano per Vierzchownia rapporti ben particolareggiati sullo stato delle cose. Gli piovono addosso naturalmente «lettere piene di dubbi e di rimproveri», ma Balzac, che conta ancora sulla morte e sui milioni del signor Hanski, continua a mentire, ad assicurare che si tratta di un’amica ideale di mirabile bontà. Per apparire schietto fa la lode raffinatissima di «un’amicizia che mi consola nei miei crucci». E continua:
La signora Visconti, di cui voi mi parlate, è una delle donne più amabili, d’infinita, di squisita bontà. È d’una bellezza fine, elegante e mi aiuta a sopportare la vita. È dolce e piena di fermezza, incrollabile e implacabile nelle sue idee, nelle sue antipatie. È sicura nei suoi modi: non è stata fortunata, o almeno la sua fortuna e quella del conte non sono in armonia con il nome tanto splendido…
Ma Balzac scrive questo inno di lode solo per concludere con un elegiaco sospiro: «Purtroppo non la vedo che molto di rado!».
È probabile che sappia come la signora, molto più attendibilmente informata da altra parte, non presterà fede alle sue parole, ma forse nell’intimo ciò gli importa poco. In quegli anni va già impallidendo la luce della sua «stella polare», sempre irraggiungibile, che scintilla a migliaia di chilometri, ai confini dell’Asia. D’altra parte la salute del signor Hanski si rivela molto più tenace del previsto; e se nella Storia i vivi hanno sempre ragione sui morti, nell’amore i vicini hanno sempre ragione sugli assenti. E la contessa Visconti è vicina, è una donna giovane, bella, appassionata e sensuale, sempre pronta per lui e mai di peso. Così lui vive con lei la sua vera vita di quegli anni, mentre nel frattempo descrive e inventa per Eva Hanska un’esistenza immaginaria destinata al cofanetto e alla posterità.
Evelina Hanska ha l’ambizione di essere la donna che comprende Balzac meglio di ogni altra, di fargli quindi da guida e da consigliera, e può darsi che quanto a gusto letterario, a capacità critica, abbia superato di gran lunga la contessa Visconti. Ma questa capisce molto meglio di che cosa abbia bisogno l’uomo Balzac. Intuisce e comprende la sete di libertà di questo povero artista angustiato senza posa da incessanti impegni e doveri. Ha potuto vedere che cosa sia stato lo sciagurato 1836 per Balzac, quanto lui sia stanco, esausto, desideroso di riposo, di distrazione. Invece di tenerselo stretto gelosamente come l’altra, escogita con la geniale comprensione del suo cuore la sola cosa che varrà a render Balzac di nuovo energico e creativo: un viaggio in Italia, di cui Balzac sin dal tempo della fallita avventura con la duchessa de Castries ha tanto desiderio, e anche un viaggio che non gli costerà nulla.
Il conte Visconti-Guidoboni ha da riscuotere crediti ereditari di parte materna difficili da realizzare. Sentendosi inetto ad ogni trattativa finanziaria, il bizzarro musicomane ha già rinunciato a lottare per quell’eredità, ma l’astuta consorte gli suggerisce di mandare in Italia a regolare la situazione il loro amico Balzac, di cui gli è nota l’energia anche in affari. Il docile consorte acconsente e Balzac che, appena reduce da Saché, non saprebbe come mettersi al riparo dai creditori, è addirittura beato. Un notaio gli dà la procura e anche una somma per le spese di viaggio. Così alla fine di luglio può salire sulla diligenza e avviarsi verso la sognata «terra dell’amore».
Alla prima generosità la contessa ne aggiunge una seconda. È ben chiaro che lei non accompagni l’amico, anche perché da un mese solo è madre di quel Lionello Riccardo che può considerarsi pegno della loro relazione. Ma ci sorprende ancor più, e ci testimonia la generosità del suo sentimento, il vedere che la contessa non solleva difficoltà contro l’accompagnatore dell’amante in quel viaggio, un grazioso giovanetto dai capelli neri tagliati corti che si fa chiamare Marcel e del quale gli amici di Balzac non hanno però mai sentito parlare. L’unico che potrebbe dare informazioni è il sarto Buisson: da lui s’era recato Balzac pochi giorni prima con una giovane donna bruna per ordinargli un abito maschile e un pastrano, che infatti son riusciti di taglio perfetto, ma non perfetto al punto da non lasciar indovinare a uno sguardo acuto il sesso debole. Invece di andare in cerca d’avventure nella terra dell’amore, Balzac rende così già avventuroso il proprio viaggio.
Ha pescato questa nuova amante come al solito, come tante altre amiche, per via epistolare, e come tante altre è anche lei una donna maritata e con un marito molto comodo. Madame Caroline Marbouty si annoia a Limoges quale moglie di un alto magistrato e scrive quindi una lettera romantica a Balzac, avvocato generale di tutte le donne deluse e incomprese di Francia. Ma l’avvocato in quel momento, 1835, non ha tempo di risponderle. Cerca allora un surrogato. Proseguendo nella lista, Be- dopo Ba-, arriva – proprio come la duchessa de Castries – da Balzac a Sainte-Beuve, presso il quale trova migliore accoglienza. Lui la incoraggia infatti a venire a Parigi e lei arriva, bellina, ardente e giovane. Ma l’arido e solenne Sainte-Beuve non le va a genio e poco serve che le dedichi un ispirato sonetto. Preferisce ripetere il tentativo e battere a un’altra porta e Balzac, che dopo il successo con la signora Hanska ha cominciato ad apprezzare le donne più giovani di lui, non fa il casto Giuseppe con questa intraprendente moglie di Putifarre. Già la prima visita nel famoso boudoir di Rue des Batailles si prolunga per tre notti, e la donnina fresca e giovane risponde così bene al suo gusto e al suo appetito che Balzac le propone di andar con lui in Turenna. Ma a far questo la signora Marbouty non può decidersi per vari motivi. Quando però, al suo ritorno da Saché, le fa la proposta di accompagnarlo e a spese di un’altra amica in Italia, lei si dichiara entusiasta dello scherzo di fargli da paggio, poiché un viaggio nel Paese romantico deve cominciare subito romanticamente.
Un solo amico parigino è testimone della commedia di travestimento: Sandeau. Questi, arrivando in Rue Cassini per congedarsi da Balzac, vede una giovane signora dai capelli corti che lo precede in fiacre e che, evidentemente pratica della casa, s’avvia per la scaletta che porta alla camera da letto di Balzac. Mentre ridacchia della nuova conquista dell’amico, tanto bravo a esaltare in pubblico la castità quale condizione preliminare alla produttività artistica, ecco che pochi minuti dopo esce dalla camera un elegante giovanotto in cappotto grigio con un frustino in mano, scende la stessa scaletta e va a portare sulla diligenza una valigetta contenente biancheria per pochi giorni e, per ogni evenienza, un abito da donna. Le va dietro, esilarato dello scherzo ben combinato, l’amico Balzac, che va a sedersi a fianco del bel paggetto. Dopo un minuto la diligenza parte per l’Italia.
L’inizio è delizioso e per la via si verificano, proprio come Balzac aveva sperato, le più divertenti avventure. I monaci della Gran Certosa non si lasceranno ingannare dai pantaloi e dalla redingote ben imbottita del giovane Marcel, e vietano l’ingresso in convento al pericoloso sesso debole. La giovane ninfa se ne vendica facendo un bagno improvvisato, con indosso la famosa redingote, in un torrentello delle vicinanze. Il Balzac delle Sollazzevoli istorie se la gode un mondo in quell’avventura, e dopo una corsa oltre il Moncenisio la coppia, o meglio il signor de Balzac col suo cameriere Marcel, arriva a Torino.
Ogni persona assennata avrebbe a questo punto rinunciato alla beffa del travestimento o almeno, come si conviene a una coppia illegale, avrebbe preso alloggio in qualche locanda fuori mano per non attirare l’attenzione. Balzac invece ama portare tutte le cose all’estremo. Si dirige verso il primo albergo della città, l’Hotel Europa, di fronte al palazzo reale, e sceglie per sé e il suo accompagnatore le stanze migliori. Naturalmente già il mattino seguente la «Gazzetta Piemontese» annuncia l’arrivo del celebre scrittore, destando l’attenzione di tutta l’aristocrazia curiosa di vedere Balzac e il suo bastone da passeggio, il cui successo, come lui dice, non è minore di quello delle sue opere e già «minaccia di assumere dimensioni europee». I lacchè delle grandi case portano biglietti d’invito, tutti fanno a gara nel voler fare la conoscenza di Balzac; per mediazione di signori dell’aristocrazia gli vengono persino messi a disposizione per una gita i cavalli delle scuderie reali.
Balzac, che non ha mai saputo resistere all’ammirazione di principesse, contesse o marchese, accetta tutti gli inviti della nobiltà piemontese. Dopo aver ricevuto per tanti mesi solo visite di debitori infuriati o di uscieri, si sente lusingato nella vanità al vedersi accolto come un principe in palazzi di solito inaccessibili ai borghesi. Ma ha la pazza idea di portarsi dietro in quelle case distintissime la piccola provinciale travestita da paggio, e crea così un intrigo che non avrebbe potuto escogitar più vivace nei suoi romanzi. Non passa molto tempo che tutti s’accorgono come il giovane Marcel sia, al pari del suo omonimo negli «Ugonotti» di Meyerbeer, una donna. Ma nessuno arriva a concepir possibile l’impudenza di introdurre in simili ambienti una qualunque sua amica, e sorge così una curiosa leggenda. Si sa che una celebre collega di Balzac, George Sand, ha i capelli corti, fuma sigari e pipa, indossa calzoni e cambia amanti più spesso dei fazzoletti. È stata poco tempo prima in Italia con Alfred de Musset, perché non dovrebbe esserci tornata con Balzac? La povera signora Marbouty si vede quindi assediata d’un tratto da ogni parte da dame e cavalieri che chiacchierano di letteratura e vogliono a tutti i costi motti spiritosi o forse anche autografi di George Sand.
Lo scherzo si fa a questo punto preoccupante anche per un uomo del calibro di Balzac, che si vede costretto a ricorrere a tutta la sua abilità e presenza di spirito per risolvere la questione. Confessa in segreto al marchese de Saint-Thomas il travestimento, ma lo dissimula subito sotto un velo di moralità.
«Ella s’è affidata a me ben sapendo come io sia totalmente assorbito da una passione che tutto mi tiene…».
Comunque Balzac capisce che è tempo di interrompere lo scherzo prima che degeneri in scandalo. Assesta abbastanza felicemente gli affari degli amici Visconti e lascia in gran fretta la città dove per la prima volta in vita sua si è sentito pienamente felice. Tre settimane senza lavoro, senza lotte con gli editori, senza bozze, senza creditori, senza colleghi malevoli! Per la prima volta guarda con occhi che brillano per la gioia di vivere il mondo reale invece di quello della sua fantasia.
Una delle ultime tappe è Ginevra, la città del suo destino. Qui l’ha respinto la duchessa de Castries, qui ha fatto la conquista della signora Hanska, qui dorme ora serenamente e allegramente con la piccola Marbouty. Se dovessimo credere alle sue lettere a Eva Hanska, in quei giorni a Ginevra non avrebbe fatto altro che inseguire dolci ricordi e rievocare l’amica lontana con lacrime di rimpianto. La realtà è molto meno romantica, ma in compenso più spassosa. Di solito Balzac, spinto dall’impazienza di riprendere il lavoro, faceva ammazzar di fatica i suoi cavalli e volava da Ginevra a Parigi in cinque giorni e notti senza sosta; stavolta invece, accompagnato dalla non patetica brunetta, si concede dieci giorni per un comodo ritorno, facendo tappa ogni notte in un posto diverso. E non è da supporsi che abbia trascorso quelle notti esclusivamente rimpiangendo con nostalgici pensieri la sua lontana «stella polare».
Il 21 agosto Balzac rientra a Parigi e di colpo è finito quel magico tempo. Sulle porte sono appiccicati i biglietti di sequestro, sulla tavola ci sono mucchi di conti non saldati. Subito alla prima ora apprende che Werdet, il suo editore, sta per fallire. Ma tutto ciò non deve averlo troppo stupito o troppo scosso. Lui sa e sempre tornerà a constatare che, per ogni respiro di libertà che si concede, verrà poi la mano del destino a soffocarlo più feroce. Ma nel fascio delle lettere indifferenti o penose ve n’è una listata a lutto: Alexandre de Berny gli comunica che sua madre è morta il 27 luglio. Da tutte le lettere di Balzac noi sentiamo come la notizia lo abbia sconvolto nel profondo. Da mesi era preparato a quella perdita; ancor prima di partire s’era recato dalla Dilecta, e l’aveva trovata troppo debole per potersi del tutto compiacere di quel ritratto ispirato dalla gratitudine che Balzac aveva fatto di lei nella figura di Madame de Mortauf nel Giglio nella valle. Ma come deve sentirsi mortificato e vergognoso di aver passato giornate di spensierato godimento in Italia con Caroline Marbouty mentre lei lottava con la morte! Quanto pentimento di non essere stato accanto al suo letto, di non aver udito le sue ultime parole, di aver forse scherzato e riso in un salotto torinese nella stessa tragica ora in cui scendeva sotto terra colei che prima e meglio di ogni altro lo aveva amato! Già pochi giorni dopo lascia Parigi per visitare la sua tomba: ha il presagio che con lei si chiude un’epoca della sua vita, che con quella morta ha seppellito anche la propria giovinezza.