XX. LA COMMEDIA UMANA
Nel suo quarantatreesimo anno, già un pochino stanco e sciupato dalle lotte, Balzac non vede che un’unica meta: vuole metter ordine nella propria vita, scuotersi di dosso il carico dei debiti, portare a termine in pace e senza assilli la propria opera gigantesca. Sa che una cosa sola può rendergli possibile tutto questo: la conquista della signora Hanska e insieme d’una parte dei milioni del consorte. Il grande giocatore che cento volte era stato al tavolo verde in lotta col destino, sempre ritentando, punta ora tutto su una carta: questa donna. Cerca disperatamente di utilizzare quell’anno e mezzo prima di raggiungerla a Pietroburgo per rendersi meglio adatto presso la famiglia quale aspirante. Sa che i Rzewuski e tutto il clan nobiliare e altezzoso considereranno sempre subalterno un Honoré Balzac, figlio di villani nonostante il falso «de» prima del cognome, anche se massimo poeta del secolo. Ma se Monsieur Balzac fosse eletto alla Chambre des Pairs, se fosse un personaggio con influsso politico, se si facesse confermare il «de» dal sovrano o lo rimettesse a nuovo con un titolo di conte? Oppure un Monsieur Balzac membro dell’Accademia di Francia? Un accademico ha sempre tale dignità da non poter più esser ridicolo. E inoltre non è ormai più un povero nullatenente, avrebbe duemila franchi all’anno e se si viene eletti nella Commissione del Dizionario, altro «posto inamovibile», si ricevono persino seimila franchi l’anno. E si indossa la marsina con le palme, tanto che anche una Rzewuska non dovrebbe più vergognarsi della mésalliance. E se tentasse invece di essere un Monsieur Balzac milionario, un drammaturgo che scrive sei drammi all’anno e con essi domina ininterrottamente i sei massimi teatri di Parigi guadagnando in dodici mesi un mezzo milioncino o anche un milione intero?
Balzac, pur di conseguire la parità sociale con Eva Hanska, fa tentativi in ogni direzione. Cerca di salire per le tre scale sino alla sfera dei Rzewuski, ma da tutte il brav’uomo pingue e impaziente precipita con uno scivolone. Per l’elezione alla Camera non arriva a tempo a procurarsi il capitale necessario per essere iscritto nella lista. Non ha più fortuna, e non l’avrà neppure più tardi, con l’Accademia. Troveranno cento pretesti per escluderlo, non osando seriamente negare il suo diritto. Ora dicono che le sue condizioni finanziarie sono troppo confuse e che non si può far sedere sotto la santa cupola un uomo che sia aspettato alla porta da strozzini e uscieri. Poi invocano le sue frequenti assenze, ma più sinceramente definisce la situazione un suo accanito nemico pieno di celata invidia: «Il signor de Balzac è troppo corpulento per i nostri seggi!». All’infuori di Victor Hugo e di Lamartine, soffocherebbe tutti, in realtà.
Si accinge allora a buttar giù in gran fretta due dramorama per liberarsi almeno dai debiti più scandalosi, quei dettes criardes che fan giungere i loro strilli sino a Pietroburgo e a Vierzchownia. Il primo, Pamela Giraud, è un dramma borghese che si fa raffazzonare per quattro quinti dai suoi non geniali nègres e il Teatro Vaudeville lo accetta. L’altro, Les ressources de Quinola, è già prima in preparazione all’Odéon e Balzac è ben deciso a cancellare con esso la sconfitta del Vautrin e a conseguire un solenne trionfo.
Al solito non punta i suoi sforzi dove conviene, cioè sul lavoro; le prove cominciano prima che abbia finito il quinto atto, il che esaspera la protagonista, la celebre Madame d’Orvalli, sino a farle respingere la parte. Ciò che gli interessa è fare della première la più fastosa serata che mai abbia veduto Parigi, e la più trionfale. Bisogna che ai posti migliori si vedano bene i massimi nomi della città. Non deve insinuarsi nessun nemico, nessun fischiatore che possa, come nel Vautrin, con interruzioni o fischi mutar gli umori del pubblico. Per ottenere questo, Balzac col direttore del teatro stabilisce che i biglietti della prima rappresentazione debban tutti passare per le sue mani, e trascorre così il tempo che avrebbe tanto meglio utilizzato allo scrittoio correggendo il dramma incompiuto, negli uffici o alla cassa.
Il piano di battaglia è elaborato con grandiosità tutta balzachiana. Al proscenio ci dovranno essere ambasciatori e Ministri, le prime file di poltrone saranno per i cavalieri di San Luigi e i pari. Ai deputati e ai funzionari statali riserva la seconda galleria, alla gente di finanza la terza, e mette la ricca borghesia nella quarta. Inoltre vuole che la sala sia bene guarnita nei punti più visibili con belle donne, mentre disegnatori e pittori sono incaricati di immortalare la visione di quella serata.
In un primo tempo Balzac, come sempre, ha calcolato giusto. Le voci che circolano sulla imminente serata di gala fanno chiasso e la gente fa ressa allo sportello e offre anche prezzo doppio o triplo per i biglietti. Ma poi succede con logica crudele quel che sempre accade ove Balzac specula: tende troppo l’arco e lo spezza. Invece di accettare i doppi prezzi, per accrescere l’interesse fa correre la voce che il teatro sia esaurito e il pubblico si rassegna a pazientare fino alla terza o quarta replica dell’opera sensazionale. Quando poi la sera del 19 marzo 1842 arrivano gli spettatori di gala, si constata che per la falsa tattica di Balzac tre quarti dei posti sono vuoti, il che irrita in anticipo il pubblico. Invano il direttore Lireux introduce all’ultimo momento una schiera di claqueurs e regala in gran fretta un posto gratuito a chiunque lo voglia. Quanto più il dramma si fa tragico, tanto più allegramente si comporta il pubblico. Le rappresentazioni successive attraggono soltanto gente che desidera far baccano. Si suonano trombette e si fischia e si canta in coro: «C’est Monsieur Balzac qu’a fait tout ce mic-mac!».
Balzac non viene chiamato neppure una volta alla ribalta, il che del resto sarebbe inutile, giacché le sue fatiche per mettere insieme un teatro affollato l’hanno ridotto al punto che alla fine dello spettacolo lo trovano addormentato in un palco. In ritardo dunque apprende che ancora una volta – quante volte è già accaduto! – i sognati biglietti da mille sono spariti nella cava orchestrale. Il destino, con colpi sempre più duri, lo riporta ogni volta al suo vero destino, e quando lui scrive disperato alla signora Hanska che, in caso fallisca anche con l’altro dramma, Les ressources de Quinola, sarà costretto a scrivere quattro volumi di romanzi, noi non possiamo disperarci con lui, giacché i romanzi e le novelle da lui scritti sotto l’assillo di simili vicende dal 1841 al 1843 sono tra le sue creazioni più grandiose e noi forse non le avremmo se i pessimi melodrammi avessero riportato successo.
In questi romanzi della maturità migliore si va perdendo man mano l’elemento di mondanità, la mania aristocratica che ci sconcerta non di rado nelle opere di periodi precedenti. Balzac ha gradatamente imparato a giudicare a fondo la cosiddetta «alta» società, da lui idoleggiata con il rispetto pur renitente dell’autentico plebeo. I salotti del Faubourg Saint-Germain hanno sempre più perduto il loro fascino; non sono più le vanità e le piccole ambizioni della gente grande e neppure le grandi aspirazioni di piccole contesse o marchese a eccitare la sua ispirazione, bensì le grandi passioni. Quanto più Balzac si fa amaro attraverso esperienze e delusioni, tanto più vero diventa. Il sentimentalismo dolciastro che deturpa – come macchie d’olio su una veste preziosa – le migliori sue opere giovanili comincia a svanire. La prospettiva si allarga e nello stesso tempo acquista in nitidezza. Nel Tenebroso affare una luce violenta svela gli sfondi della politica napoleonica. Nella Casa di scapolo dimostra nel problema sessuale un’audacia cui nessuno dei suoi contemporanei è giunto. Il problema della perversione e della servilità erotica non è stato affrontato da nessuno con la temerità di Balzac nella figura del vecchio dottor Rouget, che a settant’anni fa di una tredicenne la sua amante. E che figura quel Bridau, amoralista non meno di Vautrin, ma non più melodrammatico, verboso e patetico, bensì terrificante e indimenticabile nella sua sincerità. E poi porta a compimento le Illusioni perdute, il grandioso affresco del tempo suo, e fra l’uno e l’altro butta lì con mano leggera Ursule Mirouet, un poco artificiosa per le raffinatezze spiritiche ma mirabilmente verosimile in ogni figura, e La falsa amante, Le memorie di due giovani spose, Albert Savarus, Incomincia la vita, Honorine, La musa del dipartimento, una dozzina di frammenti; e di nuovo in tre anni quell’instancabile e incomparabile ha creato ciò che per un altro sarebbe opera di un’intera vita.
A poco a poco la massa delle opere è tale che non la si domina più, e Balzac, che vuol assestare per sempre la propria esistenza, pensa ora anche a dare un ordine all’opera. Benché assillato dai creditori, ha sempre mantenuto un’ultima riserva: l’edizione della sua Opera Omnia. Anche nei peggiori frangenti si è sempre guardato dal cedere i diritti di un libro singolo vita natural durante, e non ha mai trattato che per una o per alcune edizioni. Benché prodigo in ogni senso, ha conservato intatto quel suo massimo patrimonio, in attesa del momento opportuno in cui potrà mostrare ad amici e nemici con orgogliosa sintesi ciò che ha creato. Il momento è venuto: mentre chiede la mano della vedova del milionario Venceslao Hanski, vuol darle prova della propria ricchezza. È milionario anche lui: possiede un milione di pagine, cinquecento fogli stampa, venti volumi, e basta che lasci trapelare la sua intenzione di una raccolta completa perché tre editori – Dubochet, Furne e Hetzel – si mettano insieme per finanziare e assicurarsi in comune la grandiosa raccolta che andrà accrescendosi ancora di anno in anno. Il contratto per le Opere Raccolte vien concluso il 14 aprile 1842 e dà agli editori:
Il diritto di fare a loro scelta, e nel termine di pubblicazione che parrà loro conveniente, due o tre edizioni delle opere pubblicate da lui sino a quel giorno o che lo fossero durante la validità del presente contratto, e la cui prima edizione dovrà essere di tremila esemplari. Tale edizione sarà in formato ottavo e comprenderà circa venti tomi, più o meno a seconda delle necessità dell’opera completa.
Riceve in acconto quindicimila franchi e la prima partecipazione percentuale di cinquanta centesimi per ogni tomo dovrà iniziarsi dopo la vendita dei primi quarantamila volumi.
Con questo Balzac si è assicurato una rendita dalle sue opere, la quale è destinata a crescere di anno in anno e gli lascerà mano libera per il lavoro futuro. L’unica clausola contrattuale a suo carico è l’impegno da lui volontariamente assunto di pagare di tasca propria le spese tipografiche per correzioni straordinarie del testo che superino i cinque franchi ogni foglio. Un Balzac, il quale non sa resistere alla tentazione di migliorare stilisticamente l’opera propria anche per la sedicesima o la diciassettesima volta, pagherà la sua passione ben 5.224 franchi e venti centesimi. Gli editori hanno un desiderio. Non vorrebbero il titolo Opere Raccolte, troppo generale e senza attrattiva per il pubblico. Non ne saprebbe trovare un altro, il quale esprima come la sua opera intera, con le figure che ritornano, col suo mondo abbracciante la società nelle sue cime e nelle sue bassure, costituisca in fondo una grande unità?
Balzac acconsente. Già dieci anni prima, quando guidava la penna di Felice Davin in una prefazione all’edizione complessiva dei suoi romanzi, ha avuto lui stesso l’intuizione che, nella visione del mondo sintetica e completa da lui intraveduta, ogni singolo romanzo era solo parte di un tutto inscindibile. Ma come trovare un titolo che esprima la sintesi di quella visione? Balzac esita incerto, quando un caso gli viene in aiuto. Il suo amico e antico segretario di redazione Belloy è appena tornato da un viaggio in Italia, dove s’è occupato di letteratura italiana e ha letto la Divina Commedia in originale. E di colpo s’accende il pensiero di contrapporre alla commedia divina quella umana, all’edificio teologico quello sociologico. Eureka! Il titolo è trovato: La Commedia umana. Balzac è entusiasta e gli editori non lo sono meno. Soltanto lo pregano, perché quel titolo nuovo e certamente pretenzioso riesca chiaro al pubblico, di scrivere una prefazione alle Opere. Balzac non ne ha troppa voglia: evidentemente non vuol prodigare il suo tempo prezioso in una fatica così poco redditizia, e propone di servirsi di quel saggio di Felice Davin che è per nove decimi suo e che ha fatto da proemio agli Studi di costumi del secolo XIX. Poi propone che l’amica George Sand, intelligente e a lui benevola, presenti l’edizione. Suo malgrado Balzac alla fine viene indotto a mutar parere da un’abile lettera del suo editore Hetzel, che lo ammonisce a non rinnegare da padre onesto la sua creatura e gli dà intanto preziose indicazioni.
Siate oggettivo e modesto quanto possibile. Questo è il solo atteggiamento opportuno e orgoglioso quando si è creata un’opera come la vostra. Parlate con assoluta pacatezza. Cercate di immaginarvi già vecchio, con la dovuta distanza da voi stesso. Parlate come una delle figure dei vostri romanzi, e farete cosa preziosa e indispensabile. Mettetevi all’opera in questo modo, mon gros père, e perdonate a un editore magro se ha osato di essere così impertinente con Vostra Grassezza. Voi sapete che lo ha fatto con le migliori intenzioni.
In questo modo nasce la celebre prefazione della Commedia umana. Essa è di fatto molto più tranquilla, oggettiva, scevra di passione di quel che ci si potrebbe aspettare da Balzac. Con il suo buonsenso ha avvertito la ragionevolezza del monito di Hetzel e ha trovato la giusta via di mezzo tra la grandiosità del tema e la modestia personale. Non dev’essere stata una delle sue solite esagerazioni se confessa alla signora Hanska che quelle sedici paginette gli son costate più fatica di un romanzo intero. Balzac in queste espone un sistema del suo mondo, paragonandolo a quello di Geoffroy Saint-Hilaire e di Buffon. Come nella natura le specie animali si sviluppano diversamente a seconda dell’ambiente, così accade per gli uomini in seno alla società. Se si vuol scrivere impiegando da tremila a quattromila personaggi una «Storia del cuore umano», bisogna far agire in almeno un esemplare tutti gli strati sociali, tutte le forme e tutte le passioni. Ci vorrà la forza inventiva dell’artista per raggruppare singoli episodi e personaggi in modo che compongano «una storia completa, di cui ogni capitolo sia un romanzo, ogni romanzo un’epoca».
L’artista – questo è il vero programma – data la infinita differenziazione dell’indole umana, non ha che da osservare: «Il caso è il più gran romanziere del mondo; per creare basta studiarlo. La società francese deve essere il vero storiografo e io non voglio che farle da segretario. Mentre prendevo l’inventario delle virtù e dei vizi, sceglievo gli eventi sociali più notevoli, formavo tipi fondendo parecchi individui di carattere affine, potei forse giungere a scrivere la storia dei costumi da tanti storici dimenticata». Il suo sforzo mira a comporre per la Francia dell’Ottocento l’opera che purtroppo non hanno lasciato né Roma né Atene, non Menfi o la Persia o l’India. Egli intende descrivere la società del suo secolo e allo stesso tempo metterne in evidenza le energie che la muovono. Con ciò Balzac proclama apertamente il realismo quale compito del romanzo, ma aggiunge esplicitamente che il romanzo, benché non significhi nulla se tutti i suoi particolari non sono veritieri, debba esprimere l’esigenza di un mondo migliore. Espone il suo piano a grandi linee:
Le Scene della vita privata rappresentano l’infanzia, l’adolescenza e i loro errori, mentre le Scene della vita di provincia rappresentano l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e dell’ambizione. Poi le Scene della vita parigina offrono un quadro dei gusti, dei vizi e di tutte le sfrenatezze che eccitano i costumi particolari nelle grandi città ove si incontrano insieme il bene estremo e l’estremo male…
Dopo aver dipinto in questi tre libri la vita sociale, restavano da rappresentare le esistenze d’eccezione che riassumono gli interessi di molti o di tutti e che sono in qualche modo al di fuori della legge comune: cioè le Scene della vita politica. Una volta compiuto il vasto quadro della società non conveniva forse mostrarla nel suo stato più violento, quando esce da se stessa, sia per la difesa che per la conquista? Ed ecco le Scene della vita militare, la parte ancora meno completa della mia opera, ma cui lasceremo posto in questa edizione affinché ne faccia parte quando l’avrò portata a compimento. Infine le Scene della vita campestre sono in qualche modo il vespro della lunga giornata, se così mi è lecito definire il dramma sociale. Nel libro si trovano i più puri caratteri e l’attuazione dei grandi princìpi d’ordine, di politica e di moralità.
E conclude con l’accordo grandioso:
L’immensità di un piano che abbraccia a un tempo la Storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi princìpi mi autorizza, credo, a dare alla mia opera il titolo col quale essa oggi compare: La Commedia umana. È ambizioso? È soltanto giusto? Ecco quel che, a opera compiuta, il pubblico deciderà.
La posterità ha deciso che questo titolo non era troppo pretenzioso, benché l’opera, così come la possediamo, non sia che il perno di un tutto maggiore, prima del cui completamento la morte strappò di mano lo scalpello a Balzac. Data la sua perenne consuetudine di firmar cambiali a termine lontano, il poeta ha preceduto i fatti parlando di tre o quattromila personaggi. La Commedia umana contiene, come ci si offre oggi incompiuta, soltanto – e ci si vergogna di dire «soltanto» – duemila figure. Ma che tre o quattromila già esistessero con tutte le loro forme di vita nell’inesauribile cervello di Balzac è provato anche da un indice preparato nel 1845, il quale annovera con tutti i titoli, oltre ai romanzi già scritti, quelli non ancora scritti, ed è lettura non meno malinconica che gli elenchi delle tragedie perdute di Sofocle o dei quadri di Leonardo non pervenutici. Non meno di cinquanta fra queste centoquarantaquattro opere sognate non le ha potute più portare a termine. Ma il progetto dimostra con quale sovrana genialità architettonica egli avesse già abbozzato dentro di sé la complessità delle forme di vita.
Il primo romanzo ha nome I figli; il secondo e terzo Un collegio di fanciulle, Un collegio di ginnasiali; ci doveva essere un romanzo per il mondo del teatro, la diplomazia, i Ministeri, gli eruditi, e anche elezioni e manovre di partito, di città e di provincia dovevano essere svelate nella loro tecnica complessa. In più di dodici racconti, dei quali ha scritto soltanto Gli Sciuani, avrebbe voluto rappresentare l’Iliade dell’esercito di Francia durante l’era napoleonica: i francesi in Egitto, Mosca, Lipsia, la campagna di Francia, le battaglie di Aspern e di Wagram, gli inglesi in Egitto e persino i «pontons», i soldati francesi in prigionia. Ai contadini aveva destinato un romanzo, come al giudice e all’inventore. E al di sopra di questi studi espositivi avrebbero dovuto levarsi quelli analitici per chiarire: una patologia della vita sociale, una «anatomia dei corpi insegnanti» e un «dialogo filosofico e politico sulla perfezione del secolo XIX».
Non vi è dubbio che Balzac, se la durata della sua vita fosse stata lunga abbastanza, avrebbe portato a termine queste opere. Ciò che esisteva già nella sua fantasia divenne anche sempre, data la sua facoltà visionaria, realtà e figura. Solo una cosa gli è mancata, di cui ha avuto scarsezza durante tutta la sua vita intensa e troppo piena: il tempo.
Le basi delle sue Opere Raccolte devono aver dato a Balzac un senso di orgogliosa sicurezza. Per la prima volta ha mostrato al mondo quel che vuol fare, si è chiaramente staccato da tutti quanti gli stanno attorno, dei quali nessuno avrebbe avuto il coraggio e nessuno anche il diritto di proporsi una fatica così incommensurabile. Lui ne ha già attuati quattro quinti. Pochi anni, cinque o sei sono il termine che si pone perché tutto sia compiuto. Ordine nell’ambito dell’opera come della vita. Ma poi gettarsi con ogni energia in un compito che lui non ha mai finora sfiorato né dominato: riposare, vivere, godere ed essere felice.