XXVI. LA FINE

La legge del destino di Balzac si ripete e si rinnova fino all’ultimo: lui non sa dar realtà ai propri sogni nella sua vita, ma soltanto nei suoi libri. Ha preparato questa casa con indicibile fatica, con sacrifici disperati e con ardente aspettativa, per viverci «venticinque anni» insieme alla consorte finalmente conquistata. In realtà vi entra soltanto per morirvi. Ha arredato il suo studio secondo i propri desideri, per portarvi a termine La Commedia umana. Lo attendono i piani di cinquanta nuove opere. Ma in quello studio non scriverà una riga. Gli occhi non servono più ed è straziante l’unica lettera che di lui possediamo scritta in Rue Fortunée. È indirizzata all’amico Téophile Gautier ed è scritta dalla signora Eva; Balzac vi ha scarabocchiato una sola riga di poscritto: «Non posso più leggere né scrivere…».

Si è fatto preparare una biblioteca con costosissimi scaffali, ma non potrà più aprire un libro. Il salone è tappezzato di damasco dorato e lì avrebbe voluto dar ricevimenti per la grande società parigina. Ma nessuno viene a trovarlo, ogni cosa gli costa fatica e i medici vietano anche il piccolo sforzo di parlare. Ha arredato la grande galleria con i libri preferiti, per sorprendere tutta Parigi mostrando quale meravigliosa raccolta vi sia sorta tacitamente. Ha sperato di mostrare e di illustrare agli amici, ai poeti e agli artisti i capolavori pittorici raccolti quadro per quadro, ma quel che ha sognato come un palazzo della gioia si trasforma per lui in una tana spettrale. Giace solitario nella immensa dimora; vi entra solo talvolta, timida come un’ombra, sua madre a chiedere come sta. La moglie – tutti i testimoni lo affermano concordi – mostra la mancanza di sincera attenzione e la crudele indifferenza che già si erano rivelate con chiarezza durante il soggiorno a Dresda.

Il contegno di lei appare del resto ben chiaro dalle lettere alla figlia, dove chiacchiera futilmente di merletti e di gioielli e di nuovi abiti, senza che traspaia quasi da nessuna riga una preoccupazione sincera per il moribondo. Chiama ancora Bilboquet, col soprannome cioè dei tempi felici della truppa dei Saltimbanchi, il marito quasi del tutto cieco, che ansimando a fatica si trascina per le scale.

«Bilboquet è arrivato qui in condizioni peggiori, molto peggiori che in passato. Non può camminare e ha continui svenimenti».

Che Balzac sia un uomo finito lo comprende chiunque appena lo vede. Ma uno solo non lo crede o non vuol crederlo: lui stesso. È abituato a disprezzare le difficoltà e a render possibile l’impossibile. Per questo, col suo inaudito, invincibile ottimismo, non rinuncia ancora alla lotta. Talvolta si avverte un miglioramento e ritrova la voce. Allora si fa forza e s’intrattiene con uno dei visitatori che vengono a chiedere di lui. Discute problemi politici e mostra la propria fiducia. Tenta di illudere gli altri come illude se stesso. Ognuno deve credere che in lui ci sia ancora una riserva dell’antica energia. Così talvolta risplende ancora in un estremo sfolgorio il suo temperamento indistruttibile.

Ma all’inizio dell’estate non rimane più dubbio. Vien tenuto un consulto di quattro medici: Nacquart, Louis, Roux e Fouquier; e dal loro bollettino risulta come non ci si affidi che a calmanti e a eventuali leggeri stimolanti, ma considerandolo ormai un uomo perduto. Victor Hugo, che lo ha avvicinato solo negli ultimi anni e che in quelle settimane si afferma meraviglioso amico, lo trova già disteso e immobile, il volto febbricitante e solo gli occhi ancora vivi. Ora anche Balzac comincia ad avere paura. Si lamenta di non poter completare La Commedia umana, parla di quel che si dovrà fare delle
sue opere dopo la morte. Insiste col fidato dottor Nacquart perché gli dica sinceramente quanto tempo gli rimane da vivere e dal volto dell’amico indovina le proprie vere condizioni. Forse è verità, forse è solo leggenda che lui nello smarrimento abbia invocato Horace Bianchon, il medico al quale nella Commedia umana aveva fatto compiere miracoli scientifici, e abbia detto: «Se ci fosse qui Bianchon, mi salverebbe!». Ma il processo di dissoluzione procede rapido e gli toccherà una fine tremenda, più spaventosa di tutte quelle da lui descritte per i propri personaggi. Victor Hugo nei suoi ricordi descrive la sua visita al letto di morte:

Sonai. C’era luce di luna velata da nubi. La strada era deserta. Nessuno venne. Sonai una seconda volta. La porta s’aprì. Comparve una domestica con una candela. «Che desidera il signore?», chiese. Piangeva.

Dissi il mio nome. Mi fece entrare nel salone al pian terreno dove, su una console di fronte al camino, c’era il busto colossale in marmo di Balzac scolpito da David. Un lume ardeva sulla tavola ovale posta al centro della sala e che aveva come sostegni sei statuette dorate di finissimo gusto. Sopraggiunse un’altra donna, essa pure in lacrime, che mi disse: «Muore… La signora si è ritirata. I medici da ieri l’hanno abbandonato. Ha una piaga alla gamba sinistra e fa cancrena. I medici non sanno quel che fanno. Dicevano che l’idropisia del signore era cotennosa, un’infiltrazione, è la loro parola, che pelle e carne erano come lardo ed era impossibile praticargli la puntura. Ebbene, il mese scorso coricandosi ha urtato in un mobile scolpito, la pelle si è rotta e ne è uscita tutta l’acqua che aveva in corpo. Allora i medici han detto: “Guarda!”. Son rimasti stupiti e da allora han fatto la puntura, dicendo: “Imitiamo la natura”. Ma è sopravvenuto un ascesso alla gamba. L’ha operato il signor Roux. Hanno tolto ieri l’apparecchio. La ferita, invece di suppurare, era secca e infiammata. Allora han detto: “È perduto”, e non son tornati più. Siamo andati a cercarne quattro o cinque, ma inutilmente. Han risposto tutti: “Non vi è nulla da fare”. La notte è stata cattiva. Stamani alle nove il signore ha cessato di parlare. La signora ha fatto venire un sacerdote. È venuto e ha dato al signore l’estrema unzione. Il signore ha fatto cenno che comprendeva. Un’ora dopo ha stretto la mano a sua sorella, Madame de Surville. Da dodici ore rantola senza più veder nulla. Non passerà la notte. Se volete, signore, andrò a cercare il signor de Surville che non è ancora coricato». La donna mi lasciò. Attesi qualche istante. La luce della candela lasciava appena intravedere lo splendido mobilio del salone e i magnifici dipinti di Pourbus e di Holbein appesi alle pareti. Il busto marmoreo si levava indistinto nella penombra come lo spettro di colui che stava morendo. Puzzo di cadavere invadeva la casa.

Entrò il signor de Surville e mi confermò quel che mi aveva detto la domestica. Domandai di vedere Balzac. Traversammo un corridoio, salimmo una scala coperta di un tappeto rosso e ingombra di oggetti e ninnoli artistici: vasi, statue, quadri, stipi e smalti, poi un altro corridoio e vidi una porta aperta. Si udiva un rantolo alto e sinistro. Ero nella camera del signor de Balzac. Il letto stava al centro, un letto di mogano con strisce e cinghie alla testa e ai piedi, un apparecchio di sospensione per muovere l’ammalato. Balzac giaceva in quel letto, la testa appoggiata a un mucchio di cuscini bianchi ai quali erano stati aggiunti altri di damasco rosso tolti a un divano della camera. Aveva il volto violetto, quasi nero, chinato verso destra, la barba intonsa, i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso. Lo vedevo di profilo e assomigliava così all’imperatore.

Una vecchia infermiera e un domestico si tenevan ritti ai lati del letto. Una candela era accesa dietro il malato, su una tavola, e un’altra ardeva sul cassettone accanto alla porta. Sul tavolino da notte era posato un vaso d’argento. Il domestico e l’infermiera tacevano come atterriti, ascoltando il rantolo rumoroso del moribondo. Uno dei lumi rischiarava vivamente un ritratto d’uomo giovane e sorridente appeso accanto al camino.

Dal letto veniva un odore insopportabile. Sollevai la coltre e presi la mano di Balzac. Era madida di sudore. La strinsi. Non rispose alla pressione. […]

La donna mi disse: «Morrà all’alba». Scesi portando con me nel ricordo quella livida faccia; traversando il salotto ritrovai il busto immobile, impassibile, altero e vagamente radioso e feci il confronto tra la morte e l’immortalità.

Balzac si spegne nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1850. Solo sua madre gli è vicina: la signora Balzac si è da un pezzo coricata.

Il 22 agosto hanno luogo i funerali. Nella Chiesa di Saint-Philippe du Roule viene celebrato l’ufficio funebre. La salma viene accompagnata al cimitero sotto la pioggia. Si vede come la moglie non abbia rispettato i suoi più intimi desideri: ai cordoni sono Victor Hugo, Alexandre Dumas, Sainte-Beuve e il Ministro Baroche. Nessuno di questi, tranne Victor Hugo, gli è mai stato vicino in vita: Sainte-Beuve è stato anzi un nemico aspro, il solo che lui abbia veramente odiato. Viene scelto il cimitero di Père Lachaise. Balzac lo ha prediletto sempre. Di lì Rastignac ha mandato i suoi sguardi alla metropoli e ha lanciato la sua sfida a Parigi. È la sua ultima dimora, la sola dove è al sicuro da creditori e può trovar la pace. E ora la parola vada a Victor Hugo, lui soltanto possedeva la dignità e la grandezza degne di quell’ora:

L’uomo che è ora stato calato in questa fossa era uno di coloro cui fa da corteggio il pubblico cordoglio. Nei tempi in cui siamo, ogni finzione è svanita… Gli sguardi s’affissano ormai non sulle teste che regnano, ma sulle teste che pensano e il Paese tutto ha un sussulto quando sparisce una di tali teste. Oggi lutto popolare, lutto nazionale, è la morte dell’uomo di genio. Signori, il nome di Balzac andrà a fondersi nella scia luminosa che la nostra epoca lascerà nell’avvenire. […]

La sua morte ha colpito di stupore Parigi. Da pochi mesi era rientrato in Francia. Sentendosi morire aveva voluto rivedere la patria, come alla vigilia di un grande viaggio si va a riabbracciare la madre! La sua vita è stata breve, ma piena: riempita di opere più che di giorni!

Ahimè! Questo potente lavoratore non mai stanco; questo filosofo, questo pensatore, questo poeta, questo genio, ha vissuto tra noi in un’esistenza di tempeste, di lotte, di contese, di combattimenti che è comune in ogni tempo a tutti i grandi uomini. Oggi eccolo in pace. Esce dagli odi e dalle contestazioni; entra, nel giorno medesimo, nella tomba e nella gloria. Brillerà d’ora innanzi al di sopra di tutte le nuvole che stanno sui nostri capi, fra gli astri della patria!

Voi tutti che siete qui, non siete tentati d’invidiarlo? O signori: qualunque sia il nostro dolore di fronte a simile perdita, rassegniamoci a queste catastrofi. Accettiamole in ciò che esse hanno di commovente e di austero. È forse bene, e forse necessario che, in un’epoca quale la nostra, di tanto in tanto un grande trapasso imprima agli spiriti divorati dal dubbio e dallo scetticismo una scossa religiosa. La Provvidenza sa quel che fa mettendo il popolo a faccia a faccia col mistero supremo, quando lo invita a meditare sulla morte che è la grande uguaglianza e anche la grande libertà.

La Provvidenza sa quel che fa, poiché lì sta il più sublime di tutti i suoi insegnamenti. Non ci possono essere che pensieri alti e severi in tutti i cuori quando uno spirito sublime fa maestosamente il suo ingresso nell’altra vita! Quando uno di questi esseri che per molto tempo si son librati al di sopra della folla con le ali visibili del genio spiegano d’un tratto le altre ali che non vediamo e s’immergono bruscamente nell’ignoto! No, non è l’ignoto! No, l’ho già detto in altra occasione dolorosa e non mi stancherò di ripeterlo, no, non è la notte, è la luce! Non è la fine, è il principio! Non è il nulla, è l’eternità!

Non è vero, o voi tutti che siete in ascolto? Bare come questa sono una prova della immortalità…

Queste son parole che Balzac da vivo non ha udite mai. Dal cimitero di Père Lachaise egli, come il protagonista della sua opera, andrà alla conquista della grande città.