V. INTERMEZZO COMMERCIALE

La prima domanda rivolta da Balzac al destino è esaudita. Gli viene regalato l’aiuto di una sospirata amante, e grazie alla nuova fede in se stesso ha anche trovato la propria indipendenza interiore. Ora si tratta di conquistare quella esterna, per essere pronto al suo vero destino, alla sua opera.

Fino al venticinquesimo anno Balzac ha sperato di conquistarsi tale futura libertà con lenta tenacia, fabbricando mercanzia corrente per il mercato librario, ma negli ultimi giorni del 1824 prende all’improvviso un’altra risoluzione. Sarà una data nera nel calendario della sua vita quel giorno in cui entra nel negozietto del librario ed editore Urbano Canel, al n. 30 di Place Saint-André-des-Arts, per offrirgli l’ultima merce del suo magazzino, il romanzo Wann-Chlore. Non che trovi una cattiva accoglienza: al contrario, la ditta Canel, casa editrice e libreria, ben conosce l’altra ditta Horace de Saint-Aubin «romanzi all’ingrosso e al minuto», e sa che fornisce con prontezza, a richiesta, delitti e assassini oppure sentimentalismi ed esotismi. Il signor Canel accetta senza esitare il racconto appena condotto a termine, ma purtroppo mette intanto a parte il giovane Balzac di altri suoi progetti d’affari: gli confida di avere in serbo un’eccellente trovata editoriale per doni natalizi, per prime comunioni e borghesi arricchiti. I classici francesi sono ancora sempre richiesti, dice, ma lo smercio ha sempre sofferto per la circostanza che quei venerandi signori hanno scritto troppo. Le opere complete di Molière o di Lafontaine nelle edizioni esistenti comprendono tale numero di volumi da esigere troppo spazio in una casa borghese. A lui è venuta la grandiosa pensata: pubblicare l’Opera Omnia di ciascuno di quei classici in un unico volume. Stampando le opere teatrali in carattere minuto e facendo pagine a due colonne, si può senz’altro far posto a tutto Molière in un unico tomo. Se poi si abbelliscono simili libri con belle vignette, questi dovranno certo smerciarsi come le castagne calde. Il piano è elaborato in ogni particolare, anzi un Lafontaine è già in preparazione. Manca solo un’inezia al lancio di così grandiosa impresa, vale a dire il capitale necessario.

Balzac, eterno sognatore ed entusiasta, s’accende subito a quel progetto e propone a Canel di partecipare alla speculazione. In realtà non aveva alcuna ragione di inseguire simili malcaute imprese. La sua azienda, la fabbrica di romanzi Horace Saint-Aubin, prospera discretamente, grazie alla sua instancabilità e alla sua assenza di scrupoli letterari. Il venticinquenne, consumando ogni mese una grossa quantità di penne d’oca e un paio di risme di carta, mette insieme abbastanza regolarmente oltre duemila franchi l’anno. Ma con la nuova sicurezza interiore crescono anche le esigenze di Balzac. L’amante di una gran dama non vuol più abitare in una soffitta come lo studentello ventenne, la stanzetta al quinto piano gli sembra indegna di lui, gli diventa troppo angusta. E come è umiliante e spossante, vana e alla fine disonorante la fatica dello scrivere anonimo, questo miserando guadagnare riga per riga, pagina per pagina, tomo per tomo, romanzo per romanzo! Perché non balzare con un colpo d’audacia nella libertà e nell’indipendenza? Perché non rischiare piuttosto un paio di migliaia di franchi in una speculazione? Si può continuare intanto a buttar giù gli stupidi romanzi e gli articoli di giornale e tutta quella robaccia: è un lavoro facile che ormai gli scorre dalla penna. In fondo non ha recato danno al genio di Beaumarchais l’esser stato anche editore di Voltaire, e i grandi umanisti non sono stati correttori o consiglieri tecnici degli stampatori? Guadagnare molto denaro, non importa in che modo, non è mai apparso vergognoso a Balzac, ma anzi soltanto prova di agilità psicologica. È stupido guadagnar pochi soldi con molta fatica, mentre è saggio ottenere molto denaro con un gran colpo. Potesse finalmente assicurarsi un capitale, per creare poi con volontà tenace, prodigando tutte le energie al compito essenziale, una vera grande opera, un’opera d’arte da firmare col proprio nome, di cui rispondere di fronte al mondo e ai posteri! Balzac non esita a lungo. Appena sente parlare di affari, entra a portargli argomenti non la ragione calcolatrice, bensì la fantasia sfrenata: speculare è stato per lui sempre una forma di voluttà al pari dello scrivere e del creare. Mai per orgoglio di scrittore ha disdegnato di fare affari; è stato sempre pronto a commerciare ogni cosa, libri e quadri, azioni ferroviarie o terreni, legno o metalli. Sua unica ambizione era sfogare e imporre la propria energia, né si curava in qual luogo e con quali mezzi. Il giovane Balzac ha una volontà sola, la volontà di salire, la volontà di potenza. Ancora a trent’anni medita se debba farsi giornalista o deputato e, quando gli si fosse presentata l’occasione, sarebbe diventato tanto commerciante quanto mediatore o mercante di schiavi, tanto speculatore in terreni quanto grande banchiere. È solo un caso che il suo genio abbia trovato sfogo nella letteratura, ed è molto discutibile se, messo nel 1830, o forse ancora nel 1840 e nel 1850, di fronte al bivio di essere un Rotschild oppure il creatore della Commedia umana, non avrebbe scelto il primato nel mondo delle finanze invece che in quello della poesia. Ogni progetto, quello letterario come quello commerciale, in quanto nasconde in sé possibilità incalcolabili, eccita la sua fantasia sempre ad alta tensione. Non può vedere senza cedere ad allucinazioni, non può raccontare senza scivolare in esagerazioni, non può far calcoli – pur essendo ottimo calcolatore – senza perdersi in un’ubriacatura di cifre. Come all’affacciarsi dell’ispirazione artistica prevede immediatamente tutte le complicazioni e le soluzioni, così in ogni disegno speculativo scorge fatalmente, per un’ipertrofia della sua cupidigia, un guadagno di milioni. Basta che il signor Canel parli di un’edizione di classici perché Balzac – mentre in verità sono in macchina soltanto due fogli – tenga già in mano e stampato su carta candidissima, in legatura fastosa, ornato di vignette, il primo, il secondo volume, anzi la serie intera: vede la folla che si pigia davanti alle librerie; son decine di migliaia di persone, a Parigi, in provincia, nei castelli e nelle stanze modeste, che tutte leggono quei libri. Vede già lo scrittoio del signor Canel coperto di ordinazioni, i facchini che sospirano sotto il carico delle balle da spedirsi ogni ora in tutte le direzioni del mondo. Vede la cassa colma di biglietti da mille e se stesso in un fastoso alloggio, col tilbury davanti alla porta. Vede già i mobili che sceglierà per l’arredo, il sofà di damasco rosso che ha scovato da un antiquario della Rive Gauche e le cortine di seta e le statuette sul caminetto e i quadri alle pareti. Naturalmente, dichiara al signor Canel stupito di tanto entusiasmo, troverà quel paio di migliaia di miserabili franchi necessario a simile grandioso affare. E per di più scriverà una prefazione al Lafontaine e al Molière spiegando per la prima volta ai francesi chi siano mai stati quei signori, e diventerà la più bella edizione che mai sia stata pubblicata, il più grande successo di tutti i tempi.

Quando lascia il negozietto, Balzac si sente quasi milionario. Urbano Canel ha trovato un socio per la sua speculazione e Balzac, l’eterno illuso, ha trovato nei suoi sogni un patrimonio.

La singolare vicenda di questa impresa meriterebbe di venire raccontata da Balzac in persona. Pare che da principio il giovane scrittore non abbia pensato a impegnarsi a fondo. La sua partecipazione iniziale non supera i millecinquecento o duemila franchi, non più di quanto gli frutta uno solo dei suoi romanzi di fabbrica. Ma per Balzac tutto si traspone forzatamente in proporzioni superdimensionali; come i suoi racconti, per la capacità di combinazione e di intensificazione della fantasia, s’allargano da ambienti meschini e ristretti all’intera umanità, così ognuno dei suoi affari assume dimensioni pericolose. Mentre scrive le prime Scene della vita privata ignora di dar principio all’epopea del suo tempo, alla Commedia umana, e allo stesso modo non misura il rischio che affronta con quella piccola partecipazione finanziaria.

Il primo contratto, concluso alla metà d’aprile del 1825, non è per nulla preoccupante. Balzac diventa soltanto membro di un piccolo consorzio, che intende mettere insieme i sette o ottomila franchi indispensabili a pubblicare in volume unico le opere di Lafontaine. Nessuno sa come si riuniscono queste quattro persone tanto dissimili: oltre a Balzac ci sono un medico, un ufficiale in pensione e il libraio, che probabilmente apporta le spese già sostenute come capitale. Sono quattro modeste persone decise a investire nel piccolo affare redditizio circa millecinquecento franchi ciascuno. Malauguratamente questa società quadripartita per lo sfruttamento delle favole di Lafontaine non ha lunga durata. Da una lettera rimastaci del collerico dottore, apprendiamo che già le prime discussioni dei quattro soci riescono molto burrascose e quasi violente, e subito il primo maggio gli altri tre soci, bravi borghesi prudenti, si ritirano dall’impresa, lasciandola tutta sulle spalle dell’unico idealista e utopista della brigata.

Con questo Balzac è spinto un passo più in là di quanto avrebbe voluto. Quale unico proprietario del non ancora pubblicato Lafontaine, egli deve provvedere alle spese e versare in contanti la somma, per le sue condizioni d’allora addirittura enorme, di quasi novemila franchi. Di dove gli viene quel denaro? Il neo-editore ha forse fabbricato nelle sue ore libere altri due o tre romanzi, oppure la famiglia possidente si è decisa a concedere al figlio ventiseienne un piccolo capitale? Le annotazioni dei mastri spiegano l’enigma. Tutte e tre le tratte con le quali Balzac regola i conti sono al nome della signora de Berny, che evidentemente – come più tardi farà la Francia e farà il mondo intero – si è lasciata sedurre dalla magia delle sue parole. Per la seconda volta è l’amica, l’amante, che cerca di aprirgli il varco verso la vita.

Ma ecco che Balzac cede al suo temperamento. Logico sarebbe stato attendere i risultati del volume Lafontaine prima di affrontare un altro classico, il Molière. Ma appena entra in gioco l’innato ottimismo di Balzac, esso travolge la ragione calcolatrice. Balzac non è più in grado di pensare, di vivere e di lavorare in piccole dimensioni. Lo studente quasi avaro che rigirava il soldo si è trasformato in quell’uomo impaziente e sfrenato che rimarrà poi per tutta la sua esistenza. Aggiungiamo subito un Molière al Lafontaine! È più facile lanciare due libri che uno solo, lasciamo dunque ogni meschinità!

Di nuovo è in gioco l’appassionata arte espositiva di Balzac e questa volta è il signor d’Assonvillez, un amico di famiglia, che si dichiara pronto ad anticipare cinquemila franchi per un Molière. Ed ecco che, ancor prima che sia venduta una copia, Balzac ha già con suo rischio personale investito nelle sue imprese quattordicimila franchi di denaro altrui. Ora affretta febbrilmente la pubblicazione dei due volumi, troppo febbrilmente, giacché i grossisti, sfruttando astutamente l’inesperienza del giovane entusiasta, appioppano all’inesperto editore carta di vecchi depositi e già macchiata. Le vignette di Devéria, che nelle fantasiose speranze di Balzac dovevano essere capolavori, riescono male. Per comprimere tutte le opere in un solo volume bisogna scegliere un carattere così minuto che stanca anche gli occhi migliori e neppure le prefazioni, improvvisate da Balzac, conferiscono la minima attrattiva ai volumi tecnicamente mal riusciti.

Il risultato pratico è in proporzione. Balzac, nell’impazienza di incassare al più presto molto denaro, ha fissato il prezzo di venti franchi per ogni tomo: un prezzo che spaventerà tutti i librai, così che i mille volumi che Balzac sognava già di veder tra le mani di innumerevoli lettori rimangono non richiesti nei magazzini dello stampatore e dell’editore! Dopo un anno sono smerciati venti esemplari di un’opera calcolata per uno smercio in massa. Ma i conti del libraio, del compositore e del tipografo e della carta devono essere saldati. Per trovare una via d’uscita Balzac offre la pubblicazione a tredici franchi. Inutilmente. Scende a dodici senza che arrivi neppure un’ordinazione. Alla fine liquida tutto il deposito a un prezzo ridicolo e anche in questa transazione si lascia ingannare. Dopo un anno di lotte disperate la catastrofe è completa. Invece del patrimonio sognato, Honoré Balzac ha quindicimila franchi di debiti.

Chiunque altro, dopo un fiasco tanto clamoroso, avrebbe capitolato. Ma Balzac non è ancora forte abbastanza da potersi permettere una sconfitta definitiva. Se più tardi cade un suo dramma, si compenserà con un romanzo che commuove il mondo. Quando i creditori gli danno la caccia e gli uscieri gli fan la posta, lui si divertirà a schernirli e si vanterà dei propri debiti come di un trionfo. Ma il ventiseienne non ha ancora alle spalle l’appoggio di un successo, non ha nella sua esistenza un capitale che gli dia credito. Non è ancora il Napoleone delle lettere che può permettersi di subire una sconfitta occasionale. Forse perché si vergogna di fronte alla famiglia che non ha mai avuto fiducia nelle sue capacità, forse perché non vuol confessare all’amica di aver perduto la posta intera con la prima mossa, preferisce raddoppiare. Non vede che una via per salvare il denaro perduto: buttargliene dietro dell’altro. In quel suo primo calcolo ci dev’essere stato un errore e lui crede di averlo scoperto. Essere soltanto editore è un cattivo affare, si è ingannati dai tipografi impudenti, che prendono la panna e lasciano il latte scremato. Il buon affare non è scrivere libri e neppure pubblicarne, ma soltanto stamparli. Soltanto in una combinazione audace di questo genere, ove egli potesse a un tempo scrivere, scegliere, stampare e metter sul mercato, tutte le sue capacità avrebbero modo di manifestarsi. E Balzac, per compensare rapidamente l’insuccesso del Lafontaine e del Molière, decide di assumersi la pubblicazione totale dei libri. Secondo la vecchia ricetta di tutti i falliti, tenta di sanare l’azienda in sfacelo con ampliandola. Comincia la seconda epoca del grande affare. Balzac si accinge ad aprire una tipografia.

Per quest’impresa gli mancano, è vero, alcuni elementi importanti. Anzitutto non è un tecnico e non capisce niente di stampa, inoltre non ha il brevetto reale, allora indispensabile ad ogni imprimeur francese. In terzo luogo gli mancano i locali e gli strumenti, e in quarto non ha capitale liquido per comprare concessione, materiale, locale e pagare l’indispensabile capotecnico competente nonché gli operai. Ma quando uno vuol buttarsi in un cattivo affare, il perfido caso spesso lo aiuta. Balzac riesce a trovare il tecnico, un compositore, Andrea Barbier, avvicinato durante la stampa del Lafontaine. Induce Barbier ad assumere la direzione della Stamperia Honoré Balzac. Ottiene la licenza di stampatore per mezzo di una lettera di raccomandazione del signor de Berny, che scrive a un Ministro e al capo della Polizia, ed è facile indovinare quale mano gentile abbia guidato la penna del marito abbandonato: «Questo giovanotto mi è noto da parecchio tempo. La sincerità dei suoi sentimenti e la sua conoscenza della letteratura mi danno la certezza che egli è in alta misura cosciente dei doveri che simile professione gli imporrà».

La raccomandazione è sufficiente e Honoré Balzac (de Balzac non è ancora inventato) riceverà la licenza che lo autorizza a esercitare la professione dello stampatore.

Non è difficile, con simile brevetto in mano, trovare una stamperia in vendita. Nella Rue des Marais, una stradina oscura della Rive Gauche (che si chiamerà più tardi Rue Visconti), proprio accanto alla casa dove Jean Racine morì nel 1699 e Adrienne Lecouvreur nel 1730, al pianterreno, c’è una piccola e sporca tipografia d’infimo ordine. Il padrone, un tale Laurence Aîné, desidera da un pezzo ritirarsi dall’azienda non fruttifera e non gli può capitar di meglio che trovare un acquirente che promette di pagare e offre sufficienti garanzie.

Tre delle condizioni sono così raggiunte con facilità e fortuna, ma la quarta offre ben più gravi ostacoli, giacché è sempre molto più agevole comprare che pagare. A Balzac, per la sua nuova impresa, occorrono da cinquanta a sessantamila franchi: trentamila per il brevetto e la stamperia, dodicimila quale garanzia d’esistenza per il capotecnico Barbier, che non sembra del tutto convinto della capacità commerciale di Balzac. Inoltre nella stamperia antiquata e trascurata dal suo ultimo proprietario si rivelano subito indispensabili molte nuove spese. Si capisce che chi possiede soltanto quindicimila franchi di debiti non potrà trovare nemmeno un soldo dei cinquanta o sessantamila franchi necessari. Ma per sua fortuna, o meglio sfortuna, Balzac trova dei garanti e proprio là dove meno potremmo immaginarli. La famiglia Balzac, nella quale tanto il padre quanto la madre non sono mai stati alieni dallo speculare e che hanno accumulato un patrimonio di circa duecentomila franchi, dispone in quel momento d’un poco di denaro liquido. È sorprendente, ma i genitori non si oppongono ai piani del figlio. Una stamperia è una piccola industria solida e borghese, non è una faccenda campata in aria come la letteratura, e probabilmente Honoré, facendo sfoggio di tutta la sua fantasia ottimista, riesce a dipingere la sua futura occupazione come tanto promettente che il consiglio di famiglia decide di dargli un capitale corrispondente ai millecinquecento franchi di rendita a lui in passato promessi. Con la garanzia del padre e della madre un’amica di famiglia, la signora Delanoix, anticipa trentamila franchi di capitale. Pare che al resto abbia provveduto anche questa volta la sempre generosa signora de Berny. Il 4 giugno 1826 Honoré Balzac comunica ufficialmente al Ministero:

Io sottoscritto, proprietario di una tipografia a Parigi, mi pregio di comunicare che ho trasferito il mio domicilio e la sede della mia azienda in Rue des Marais n. 17, Faubourg Saint-Germain.

Comincia il terzo atto della tragicommedia finanziaria.

La strana tipografia è stata più tardi ripetutamente descritta, e una buona parte delle vive pagine delle Illusioni perdute e della Casa del gatto che gioca a palla getta una vivida luce dietro le finestre oscurate fronte strada di quella grottesca officina. La Rue de Marais passa stretta e tortuosa tra St-Germain-des-Prés e il Quai Malaquais. Mai un raggio di sole penetra in quel vicolo. I portoni d’ingresso alti e feudali dimostrano che nel Seicento lì giungevano gli equipaggi a visitare gran signori. Ma in due secoli mutano gusti e valori. Gli aristocratici del sangue o del denaro hanno imparato da tempo a cercarsi quartieri più luminosi e accoglienti, e nella stradina abbandonata, resa ancor più cupa dalla fuliggine, dalla sporcizia e dalla vecchiaia, abitano ora poveri artigiani.

La casa che la nuova società Balzac & Barbier è andata a prendere per la propria azienda non offre neppure il vantaggio di una certa signorilità decaduta. È un edificio che si è sfacciatamente messo al posto di un antico palazzo nobiliare giungendo sino alla metà della via: una costruzione utilitaria il cui pianterreno è costituito quasi soltanto da un grande locale che serve da stamperia; da lì una scaletta a chiocciola porta al primo piano, dove il nuovo patron ha stabilito il suo alloggio privato: un’anticamera, la cucina buia, una stanza da pranzo con caminetto stile impero, poi la stanza di soggiorno e di lavoro con una piccola alcova.

È la prima casa «sua», e Balzac le dedica le cure più amorose. Invece di tappezzerie di carta, sceglie per le pareti percalle azzurro, dispone i suoi libri dalle belle rilegature e raduna poi alcuni ninnoli di non gran valore: tutto quanto potrà allietare l’occhio dell’amica fedele, la quale in quegli anni difficilissimi lo viene a trovare ogni giorno.

«È venuta ogni giorno, come un sonno benefico che addormenta ogni dolore».

Questo piccolo asilo, che Balzac costruisce al pari di una cabina di riposo nell’oscillante bastimento della sua impresa, non può essere considerato un lusso o uno spreco, poiché Balzac affronta davvero seriamente il suo mestiere. Dalla mattina alla tarda sera se ne sta in maniche di camicia, con il colletto slacciato, sudante di zelo, in quella stamperia maleodorante di olio e di carta umida, in mezzo ai suoi ventiquattro tipografi, e lotta come un gladiatore per procurare di continuo il cibo necessario ai suoi sette torchi. Nessun lavoro lo umilia, nessun servigio respinge come indegno per orgoglio letterario. Corregge le bozze, aiuta a comporre, calcola le spese, redige di sua mano (molti sono ancor oggi conservati) i conti dei clienti. Senza riposo la sua figura già corpulenta s’aggira nell’angusto locale, tra le macchine e le risme di carta, ora per incitare un operaio, ora per andare nello sgabuzzino a vetri dove, in mezzo al tumulto delle macchine che gemono, battono e cigolano, con le mani ancora imbrattate d’olio e d’inchiostro deve litigare per ogni soldo con i librai e con i fornitori della carta. Nessuno di coloro che in quegli anni avvicinavano, per ordinazioni o per incassi, quel padrone di tipografia focoso e tarchiatello dalla rapida parlantina, ha neppur da lontano pensato che l’uomo grasso in perenne agitazione dai capelli unti e poco puliti e dalla irresistibile loquela fosse o stesse per divenire il più grande scrittore del suo tempo.

Balzac in quegli anni ha davvero detto addio alle sue più nobili ambizioni, è tipografo con tutto il suo corpo robusto e con la sua anima indomabile. Suo unico puntiglio è tenere in moto i torchi, far fiorire l’azienda. Sono svanite le stolte illusioni di portare a forza nelle case e nei cuori dei francesi i grandi classici. La tipografia Balzac stampa senza scelta tutto quanto le viene ordinato. La prima opera dello stampatore Honoré Balzac non fa per nulla parte della letteratura sublime, è un prospetto per Pillules antiglaireuses de longue vie dette anche «Grani di vita»; la seconda è un’arringa che un avvocato vanitoso fa stampare a proprie spese, la terza è pubblicità ciarlatanesca per un farmaco miracoloso, una «Mistura brasiliana» del farmacista Lepère. Segue poi a caso quel che gli capita: opuscoli, prospetti, opere classiche, cataloghi, poesie o curiosità, come L’arte di metter la cravatta o una Guida del commercio della legna da ardere. Di suo non stampa che un’operetta, un Piccolo dizionario delle insegne di Parigi, che probabilmente ha raffazzonato per qualche editore pur di procurarsi denaro in un momento difficile.

Gli affari vanno male infatti sin dall’inizio, e certo Balzac deve aver riveduto con sentimenti strani le bozze di un fascicolo affidatogli per la stampa: Arte di pagare i propri debiti e di soddisfare i propri creditori… ovvero Manuale di diritto commerciale a uso delle persone rovinate. Questa tecnica di «soddisfare i creditori» Balzac non l’ha mai posseduta. Già la sua prima transazione finanziaria mostra come le medesime forze determinino effetti opposti in mondi differenti; il medesimo ottimismo, l’energia fantastica che può costruire dei mondi nel campo dell’arte, porta inevitabilmente alla rovina nel campo pratico. Balzac inciampa subito nel primo gradino. Per avere un po’ di capitale circolante nella sua azienda ha ceduto per un tozzo di pane le edizioni invendute del Lafontaine e del Molière al libraio Baoudoin: ben duemilacinquecento volumi per ventimila franchi. Vale a dire otto franchi ogni copia, invece dei venti del suo preventivo. Ma Balzac ha urgenza di denaro e firma; anzi, nell’impazienza di aver fondi, non osserva che il compratore invece di versargli la somma di ventiduemila in contanti preferisce pagargliene ventisette, ma a rate, su due librerie, di cui una è in provincia. Egli non vede che i cinquemila franchi in più e inghiotte insieme all’esca anche l’amo. Ma presto questo mostra il suo uncino. Nel momento in cui Balzac procede all’incasso, tutti e due i librai dichiarano fallimento e Balzac, già pieno di debiti, non può aspettare che si svolga la lenta pratica legale. Pur di avere qualcosa, decide di indennizzarsi col fondo del libraio di provincia e riceve così, invece di denaro liquido, masse di volumi invendibili, antiche edizioni di Gessner, Florian, Fénelon, Gilbert, che da anni si impolverano in provincia. S’è verificato questo gioco da commedia: Balzac col denaro sonante datogli dalla signora de Berny ha stampato libri classici, li ha poi ceduti, non potendo smerciarli, a un terzo del prezzo originario, pur di avere contanti. Ma al posto dei contanti gli arrivano altri libri ancor più invendibili; invece che una merce da macero, altra carta da macero, che però vale un decimo appena dei suoi classici. Gli è capitato come al «Giovannino sempre felice» della fiaba, che cede la sua pepita d’oro per una mucca, la mucca per una capra, la capra per un’oca e l’oca per una pietra la quale alla fine gli casca in acqua.

Ora nella stamperia Balzac s’accumulano, in balle ben legate, le opere delle passate grandezze. Ma purtroppo gli operai, che devono pagare in buona moneta cibo e bevande, abiti e alloggio, non vogliono esser compensati in vecchie edizioni di Fénelon o di Florian. Respingono le cambiali di Balzac, che non possedevano a quel tempo il loro futuro valore di preziosi autografi, e insistono feroci per avere il saldo. Lo sgabuzzino a vetri nella stamperia non è più un nascondiglio sicuro, Balzac si fa vedere sempre meno e soprattutto all’avvicinarsi del sabato di paga preferisce stare più a lungo lontano. Va di porta in porta a chiedere che gli sia prorogata una cambiale, a procurarsi in qualche modo, da amici, da parenti o alle banche, un po’ di fondi. Tutte le scene umilianti che descriverà un giorno in modo indimenticabile nel suo Cesare Birotteau, le ha vissute in quei mesi in cui ha lottato disperatamente per tenere in vita la sua stamperia.

Però nemmeno le sue forze da Sansone valgono a reggere l’edificio che crolla. Nell’estate del 1827 tutto è perduto, non c’è un soldo nel cassetto per pagare gli operai. Il tipografo ha fatto fiasco quanto l’editore e quanto ancor prima l’autore del Cromwell. Secondo la legge e la logica, all’azienda rimangono due vie: fallimento dichiarato o liquidazione amichevole.

Ma invece di una di queste due, Balzac sceglie una terza soluzione. Simile al suo grande contrapposto Napoleone, non si rassegna a ritirarsi vinto all’Elba, ma tenta la sua Waterloo. Senza aver nulla imparato dalle prime esperienze, riadotta il metodo di voler salvare un’impresa da tempo rovinata ingrandendola ancora di più. Quando la casa editrice non stava a galla, le aveva agganciato come cintura di salvataggio una stamperia; ora che la stamperia sta per colare a picco, crede di reggerla aggiungendo alla ditta in fallimento una fonderia di caratteri. Tragico aspetto di questa, come di tutte le imprese balzachiane, è che in fondo il suo ragionamento era giusto. Balzac, oltre che un sognatore fantastico, era anche un acuto realista, con lo sguardo limpido di un avvocato e di un uomo d’affari. In sé e per sé il piano di una serie di classici in volumi unici non era per nulla assurdo, ed è stato più tardi meglio attuato. Anche assumere una stamperia non era assurdo, giacché in quegli anni la diffusione della stampa era in ascesa. E il terzo progetto, la fonderia di caratteri, era persino il più promettente. Balzac ha avuto notizia di un nuovo procedimento per la stampa, la cosiddetta «fonterreotipia» di cui è inventore un certo Deréchail. Pare che con essa si ottengano migliori risultati che con la solita stereotipia, «senza bisogno di fusione delle matrici e senza bisogno di rovesciare e di correggere le pagine fuse». Balzac si lascia subito affascinare. Il suo sguardo che scruta i decenni futuri ha già compreso che nell’epoca dell’industria allora iniziatasi ogni procedimento semplificatore e apportante risparmi nella produzione sarà decisivo, e che nel suo secolo i massimi guadagni dovranno risultare in ogni ramo da una scoperta che abbassi il costo di produzione o ne acceleri il ritmo. Il problema di quella scoperta lo ha sempre interessato, e i suoi romanzi ne sono prova. Non per puro caso nelle Illusioni perdute – specchio del suo tempo di stampatore – il suo David Séchard si occupa di un procedimento nuovo per la fabbricazione della carta da cui verranno milioni di guadagno. Anche Balthazar Claes nella Ricerca dell’assoluto, e Cesare Birotteau, l’inventore della «Pâte sultane», e il pittore Frenhofer e il musicista Gambara, tutti cercano di accrescere la propria azione con una nuova coordinazione di forze. Fra tutti i poeti del suo tempo nessuno all’infuori di Goethe ha seguito come Balzac, con tanta curiosità e interessamento, i progressi della scienza. Così egli giustamente prevede che la composizione e la fusione a mano, dato che il bisogno di carta stampata dell’umanità cresce in proporzioni fantastiche, dovrà fatalmente far posto a procedimenti meccanici. Questa fonterreotipia gli sembra un promettente inizio, e con l’impazienza dell’ottimista e la disperazione del bancarottiere s’aggrappa alla nuova possibilità.

Il 18 settembre 1827, mentre la stamperia sta quasi per morire, viene fondata una nuova società; Barbier, il suo socio, ne fa parte e vi è pure un certo Lorant, liquidatore del fallimento della stamperia M. Gillet Fils di Rue Garancière 4. A dicembre vengono distribuite le prime circolari. Pare che Lorant fornisca il materiale, Barbier assuma la direzione e Balzac la propaganda del nuovo procedimento tipografico. Basta ormai con la faticosa stampa con le pedaline! La nuova impresa va lanciata in grande stile. Balzac prepara uno splendido catalogo dove dovranno figurare in nitide prove tutti i nuovi caratteri di cui dispone la stamperia, come pure le vignette e i fregi che, grazie al nuovo metodo, possono essere forniti alle stamperie o agli editori. L’album è già pronto quando Barbier, il terzo accomandatario, dichiara all’improvviso di volersi ritirare. La nave minaccia di affondare in porto. Per superare questa pericolosa crisi, interviene ancora una volta la fedelissima, Madame de Berny. Si fa dare dal marito una procura patrimoniale e si accolla gli impegni dell’uscente Barbier. I novemila franchi in contanti che fa seguire ai molti già perduti mettono di nuovo a galla per un poco di tempo il bastimento.

Ma è già troppo tardi. Lo splendido catalogo destinato ad attirare e a sedurre compratori e committenti non è ancora pronto, mentre per il ritiro di Barbier, che è il solo a ispirar loro fiducia, i creditori inquieti vengono all’assalto. Fornitori di carta e librai vogliono essere saldati, gli usurai presentano le cambiali, gli operai esigono le paghe. Nessuno ascolta più le promesse di Balzac, che si dice sicuro di incassare migliaia e migliaia di franchi con la nuova impresa. Nessuno accetta assegni né della ditta Balzac e Barbier né della ditta Balzac e Lorant, né di Honoré Balzac personalmente. Il 6 aprile 1828 il terzo consorzio deve dichiarare fallimento. Balzac ha fatto bancarotta, una triplice bancarotta, come editore, come tipografo e come proprietario di una fonderia di caratteri.

Non è possibile tacere più a lungo la cattiva notizia, bisogna informare la famiglia, che non deve apprendere dai giornali il disastro del figlio, il marchio del fallimento sul nome dei Balzac. Il disastro della tipografia e della fonderia scende come un fulmine sulla casa paterna. La madre tenta di nascondere al marito ottantaduenne la perdita del capitale investito e per un poco ci riesce. Ma poi si presenta il triste problema: la famiglia deve abbandonare a se stesso il figlio scellerato oppure salvarne con un ulteriore sacrificio l’onore commerciale?

Mamma Balzac è una piccolo borghese, tenace, economa e cupida, che difende con accanimento ogni soldino messo da parte, e da lei dovremmo attenderci che non aprirà la cassetta ancora ben fornita dei risparmi familiari, lei che quando vedeva il figlio appendere nella propria camera un quadretto gli dava dello scialacquatore e che non mandava un soldo al collegiale per le sue piccole spese. Ma la madre di Balzac è borghese anche sotto un altro aspetto: è preoccupata del proprio buon nome, paurosa di ogni pubblica diceria. Il pensiero che un Balzac debba figurare in tutte le gazzette nella rubrica dei fallimenti appare insopportabile al suo orgoglio borghese di fronte ad amici e a vicini. Si dichiara quindi pronta, e si può immaginare con quanta disperazione, ad affrontare ancora un sacrificio finanziario purché sia evitato il fallimento pubblico e disonorante.

Un cugino, il signor de Sédillaud, assume, da lei pregato, il penoso compito della liquidazione. Non se la caverà facilmente, perché Balzac ha intrecciato a tal punto nei loro affari e impegni le tre aziende che il cugino dovrà faticare un anno intero per fissare lo stato delle singole attività e passività e soddisfare almeno parzialmente i creditori. La sua prima e assennata decisione è di estromettere totalmente Balzac: progettisti e sognatori sono d’impaccio in una faccenda tanto complicata. Solo un anno dopo, alla metà del 1928, il brutto lavoro è finito. La tipografia, gravata di circa centomila franchi di debiti, è rilevata da Barbier per sessantasettemila franchi insieme alla concessione governativa, così che per quest’azienda la famiglia Balzac ha una perdita fra i quaranta e i cinquantamila franchi. La signora de Berny, che ha investito quarantamila franchi negli affari dell’amante, ottiene come molto insufficiente pegno la fonderia, che affida a suo figlio Alexandre. In quel momento tutti quelli che hanno avuto fiducia nel genio commerciale di Balzac subiscono gravi perdite ma, per una strana ironia del destino, entrambe le aziende cominciano a diventare fruttifere appena il poeta si è ritirato ed esse vengono dirette con quella paziente e fredda laboriosità che il commercio esige. Balzac rientra invece nel solo mondo dove la sua fantasia può svilupparsi feconda, nel mondo dell’arte.

Ora che il cugino Sédillaud ha condotto in porto alla meglio la liquidazione della ditta Balzac e Barbier e della ditta Balzac e Lorant, tocca a Honoré fare il proprio bilancio. Dal punto di vista materiale è annientante. Ha ventinove anni e quasi centomila franchi di debiti verso la famiglia e verso l’amica. Ha lavorato inutilmente per dieci anni senza interruzione, senza riposo e senza gioia. Ha preso su di sé ogni umiliazione, ha scritto migliaia di pagine sotto falso nome, poi ha faticato come commerciante stando da mattina a notte nel suo ufficio, quando non doveva correre per combattere coi clienti e coi creditori. Ha vissuto in camerette miserande, ha dovuto accettare l’amaro pane della dipendenza familiare e ora, dopo uno sforzo titanico, si trova ridotto cento volte più povero e mille volte più schiavo di prima. I centomila franchi di debiti ereditati dal suo intermezzo commerciale sono il macigno di Sisifo che per tutta la vita dovrà spingere avanti tendendo disperatamente i muscoli e che continuerà a ributtarlo indietro. Quel suo primo errore lo condanna ad essere sempre un indebitato, né mai si avvererà il sogno della sua infanzia di poter lavorare in libertà senza dipendere da nessuno.

Ma di fronte al passivo dei suoi libri mastro vi è un incomparabile attivo: ciò che ha perduto l’uomo d’affari lo ha guadagnato il poeta in una più alta moneta di corso universale. Infatti questi tre anni di fatica e di lotta ininterrotta contro la resistenza della realtà hanno insegnato al romantico, capace soltanto di schizzare con imitazione manierata caratteri smorti e lontani dalla vita, a vedere il mondo reale con tutti i suoi drammi quotidiani, di cui ognuno è, com’egli dirà un giorno, sconvolgente come una tragedia di Shakespeare e travolgente come una battaglia di Napoleone. Balzac ha imparato a misurare l’inaudita, la demoniaca potenza del denaro nella nostra epoca materialista, sa che le lotte per una cambiale e per una rata, i mille trucchi e le astuzie che si svolgono ad ogni ora nei bugigattoli o nei grandi uffici commerciali di Parigi non pongono in gioco minori energie e passioni dei corsari di Byron o degli aristocratici cavalieri di Walter Scott. Faticando con gli operai, lottando con gli usurai, contrattando con disperata vigilanza con i fornitori, ha acquisito una cognizione dei nessi e dei contrasti sociali infinitamente più vasta di quella dei suoi grandi colleghi Victor Hugo, Lamartine o Alfredo de Musset, che sono sempre soltanto in cerca di ciò che è romantico, sublime e grandioso, mentre lui sa comprendere e rappresentare anche ciò che nell’uomo è crudelmente meschino, bassamente laido, oscuramente grandioso. Alla fantasia del giovane idealista s’è accompagnata la chiarezza del realista, lo scetticismo del deluso. Non vi sarà più grandezza che lo inganni, paludamento romantico che lo illuda: ha spinto lo sguardo dentro la macchina sociale, ha riconosciuto i lacci con cui si legano i debitori e le maglie per le quali si può sfuggire ai creditori. Sa come si accumula il denaro e come lo si perde, come si intentano processi e come si fa carriera, come si scialacqua e come si risparmia, come si riesce a ingannare se stessi o gli altri. A buon diritto affermerà più tardi di aver potuto ritrarre la propria epoca soltanto perché in gioventù era passato per tanti diversi mestieri, rendendosi conto dei loro reciproci rapporti. Appunto i suoi massimi capolavori, Illusioni perdute, La pelle di zigrino, Louis Lambert, Cesare Birotteau, le grandi epopee della vita borghese, della Borsa e degli affari, sarebbero impensabili senza le delusioni da lui patite nei suoi anni di affarista. Ora soltanto, ora che la sua fantasia s’è amalgamata con la realtà compenetrandosene, potrà nascere quella incomparabile sostanza del romanzo balzachiano, quella mistura perfetta di realismo e di fantasia. Ora soltanto, dopo che è stato sconfitto nel mondo reale, è maturo in lui l’artista che costruirà un suo mondo a fianco e al di sopra di quella realtà.