Questo libro è stato scritto nella convinzione che la nostra esistenza fosse un tempo il massimo fra tutti i misteri, ma che oggi non sia più tale perché l’enigma è stato risolto. Il merito di quest’impresa va riconosciuto a Darwin e a Wallace, anche se noi continueremo per un bel po’ di tempo ad aggiungere note in calce alla loro soluzione. Io sono stato indotto a scrivere questo libro dalla sorpresa provata nello scoprire che un numero grandissimo di persone sembravano non rendersi conto non solo dell’esistenza di una soluzione bella ed elegante a questo problema, ma incredibilmente, in molti casi, neppure dell’esistenza di un problema!
Il problema è quello della complessità del «progetto» degli esseri viventi. Il computer su cui sto scrivendo queste parole ha una capacità di memoria di circa 64 kilobyte (un byte viene usato per contenere ciascun carattere del testo). Il computer fu progettato coscientemente e prodotto in conseguenza di una decisione deliberata. Il cervello con cui il lettore sta comprendendo le mie parole è un complesso di circa dieci milioni di kiloneuroni. Molte di queste cellule nervose posseggono ciascuna più di un migliaio di «fili elettrici» che le collegano ad altri neuroni. Inoltre, al livello genetico molecolare ognuna delle più di un miliardo di cellule del corpo contiene una quantità di informazione digitale, codificata con grande precisione, più di mille volte maggiore di quella del mio computer nella sua totalità. Alla complessità degli organismi viventi fa riscontro l’elegante efficienza del loro progetto, così come si presenta. Se qualcuno non è d’accordo con me che un disegno così complicato esiga a gran voce una spiegazione, sono lieto di rinunciare a questo compito. No, dopo un attimo di riflessione non rinuncerei comunque, perché uno degli obiettivi che mi propongo in questo libro è quello di trasmettere almeno in parte la mia meraviglia dinanzi alla complessità biologica a quegli occhi che sono sempre rimasti chiusi dinanzi a essa. Ma, una volta magnificato il mistero, l’altro mio obiettivo è quello di eliminarlo e di spiegarne la soluzione.
Spiegare è un’arte difficile. Si può spiegare qualcosa in modo che il lettore capisca le parole, e si può spiegare qualcosa in modo che il lettore diventi perfettamente padrone dell’argomento fin nelle pieghe più riposte. Per conseguire questo secondo obiettivo, a volte non è sufficiente esporre le prove in modo spassionato. Si deve prendere l’esempio da un avvocato e far ricorso a tutti i trucchi della retorica. Questo libro non è un trattato scientifico imparziale. Altri libri sul darwinismo lo sono, e molti di essi sono eccellenti e ricchi di informazione, e dovrebbero integrare la lettura di questo. Devo confessare che questo libro, lungi dall’essere «obiettivo», è stato scritto in varie sue parti con una passione che, in un periodico scientifico accademico, potrebbe suscitare dei commenti sfavorevoli. Senza dubbio questo libro si propone di informare, ma tende anche a persuadere e persino – è lecito specificare i propri obiettivi senza presunzione – a ispirare. Io vorrei ispirare il lettore, infondergli una visione della nostra propria esistenza concepita come un grande enigma, un mistero che fa correre brividi lungo la spina dorsale, e al tempo stesso trasmettergli tutta l’eccitazione del fatto che si tratta di un enigma che ha una soluzione elegante alla nostra portata. Vorrei inoltre convincere il lettore non solo che la visione darwiniana del mondo è di fatto quella vera, ma che è anche l’unica teoria nota in grado, in linea di principio, di risolvere il mistero della nostra esistenza. Possiamo dire perciò che essa sia una teoria doppiamente soddisfacente. Ci sono buoni argomenti per sostenere che il darwinismo è vero non solo su questo pianeta ma in qualsiasi parte dell’universo possa esistere la vita.
Sotto un certo aspetto ci tengo a differenziarmi dagli avvocati di professione. Un avvocato o un uomo politico è pagato per esercitare la sua passione e la sua persuasione a vantaggio del cliente o di una causa in cui a titolo privato potrebbe anche non credere. Io non ho mai fatto una cosa del genere e non la farò mai. Può anche darsi che io non abbia sempre ragione, ma mi prendo a cuore appassionatamente la verità e non dico mai nulla in cui non creda. Ricordo che una volta, invitato da un’associazione universitaria a partecipare a un dibattito con i creazionisti, rimasi scandalizzato. A pranzo, dopo il dibattito, mi fu assegnato un posto a tavola accanto a una giovane donna che aveva tenuto un discorso abbastanza efficace a favore del creazionismo. Essendo convinto che non potesse essere una creazionista, le chiesi di dirmi con franchezza perché avesse tenuto quel discorso. Essa ammise sinceramente che lo aveva fatto per esercitarsi nella tecnica del dibattito e aggiunse che trovava più stimolante difendere una posizione nella quale non credeva. A quanto pare è un uso comune nelle associazioni universitarie di dibattiti dire semplicemente ai vari oratori per quale parte devono parlare. Le loro convinzioni non entrano affatto in gioco. Io avevo fatto molta strada per assolvere lo sgradevole compito di parlare in pubblico solo perché credevo nella verità della tesi che mi era stato chiesto di difendere. Quando scoprii che alcuni membri dell’associazione si servivano del dibattito come di un pretesto per fare i loro esercizi di retorica, decisi di declinare futuri inviti che mi fossero venuti da società culturali che incoraggiano l’uso di dibattere in modo insincero su problemi in cui è in gioco la verità scientifica.
Per ragioni che non mi sono del tutto chiare, il darwinismo sembra aver bisogno di essere difeso più di verità similmente affermate in altre branche della scienza. Molti di noi non hanno alcuna comprensione della teoria quantistica o delle teorie di Einstein della relatività speciale e generale, ma questo fatto non ci conduce di per sé a opporci a tali teorie! Il darwinismo, a differenza dell’«einsteinismo», sembra essere considerato un facile bersaglio da critici di qualsiasi livello di ignoranza. Mi pare di capire che un guaio, nel caso del darwinismo, risiede nel fatto che, come notò acutamente Jacques Monod, tutti credono di capirlo. Esso è, in effetti, una teoria notevolmente semplice, e di livello addirittura infantile – si potrebbe pensare – rispetto alla quasi totalità della fisica e della matematica. Esso equivale, essenzialmente, alla semplice idea che una riproduzione non casuale, in presenza di variazioni ereditarie, ha conseguenze di vasta portata se queste hanno il tempo di accumularsi. Abbiamo però buone ragioni per credere che questa semplicità sia ingannevole. Non si deve mai dimenticare che, per quanto semplice la teoria possa sembrare, nessuno la escogitò prima di Darwin e Wallace, alla metà dell’Ottocento, quasi trecento anni dopo la pubblicazione dei Principia di Newton, e più di duemila anni dopo che Eratostene ebbe misurato la circonferenza terrestre. Come poté un’idea così semplice rimanere tanto a lungo ignota a pensatori della statura di Newton, Galileo, Descartes, Leibniz, Hume e Aristotele? Perché essa dovette attendere sino ai naturalisti vittoriani? Quale fu l’errore per cui tanti filosofi e matematici se la lasciarono sfuggire? E com’è possibile che un’idea così efficace stenti ancora a tal punto a essere assorbita dalla coscienza popolare?
È quasi come se il cervello umano fosse stato specificamente progettato per fraintendere il darwinismo e per giudicarlo difficile da credere. Consideriamo, per esempio, il problema del «caso», spesso presentato teatralmente come cieco. La grande maggioranza delle persone che attaccano il darwinismo saltano spesso e volentieri all’idea erronea che in esso non ci sia altro che il caso. Dato che la complessità del vivente incarna l’antitesi stessa del caso, è ovvio che chi considera il darwinismo sinonimo del caso troverà ovviamente facile confutarlo! Uno fra i compiti che mi propongo in questo libro è quello di distruggere il mito, che gode di un così grande seguito, che il darwinismo sia una teoria del «caso». Un altro modo in cui noi sembriamo predisposti a dubitare del darwinismo consiste nel fatto che il nostro cervello è costruito per far fronte a eventi su scale di tempo radicalmente diverse da quelle che caratterizzano il mutamento evolutivo. Noi siamo equipaggiati a valutare processi che richiedono, per completarsi, secondi, minuti, anni o, al massimo, decenni. Il darwinismo è una teoria di processi cumulativi così lenti da richiedere, per completarsi, da migliaia a milioni di decenni. Tutti i nostri giudizi intuitivi circa i probabili sviluppi risultano sbagliati di molti ordini di grandezza. Il nostro apparato di giudizio fondato sullo scetticismo e sulla teoria della probabilità soggettiva è esposto a margini di errore molto grandi, essendo sintonizzato – per una curiosa ironia, a opera dell’evoluzione stessa – a lavorare entro una durata di vita di pochi decenni. Per evadere dalla prigione della scala di tempo che ci è familiare si richiedono grandi sforzi di immaginazione, sforzi che io tenterò di propiziare.
Un terzo aspetto sotto cui il nostro cervello sembra predisposto a resistere al darwinismo deriva dal nostro grande successo come progettisti creativi. Il nostro mondo è dominato da grandi lavori di ingegneria e da opere d’arte. Noi siamo del tutto abituati all’idea che una complessa eleganza presupponga un progetto, frutto di abilità e di intenzionalità. Questa è probabilmente la ragione più forte a sostegno della fede, condivisa dalla grande maggioranza delle persone, in passato come oggi, in una qualche sorta di divinità soprannaturale. Darwin e Wallace dovettero profondere un grande sforzo di immaginazione per rendersi conto che, contrariamente a ogni intuizione, c’è un altro modo – un modo che, una volta che lo si sia capito, è molto più plausibile – per spiegare come, dalla semplicità primeva, possa emergere un «disegno» complesso. Uno sforzo di immaginazione così grande che oggi molte persone sembrano ancora riluttanti a compierlo. Il principale intento che mi sono proposto in questo libro e quello di aiutare il lettore a compiere questo salto di immaginazione.
Gli autori sono naturalmente inclini a sperare che i loro libri non abbiano una vita effimera ma possano al contrario esercitare un’influenza duratura. Ogni autore di parte, oltre a difendere la sua tesi dinanzi a un tribunale atemporale, deve però anche rispondere ai difensori contemporanei di punti di vista opposti, o apparentemente opposti. C’è il rischio che alcuni di questi argomenti, pur apparendo oggi ardentemente attuali, possano apparire terribilmente datati nei prossimi decenni. È stato spesso notato il paradosso che la prima edizione dell’Origine delle specie sembra più valida della sesta. Ciò dipende dal fatto che, nelle edizioni successive, Darwin si sentì obbligato a rispondere alle critiche rivolte alla prima edizione, critiche che oggi sembrano così datate da far apparire le risposte di Darwin inopportune, e in taluni luoghi addirittura svianti. Nondimeno, la tentazione di ignorare critiche contemporanee, anche quando le si consideri solo effimeri fuochi di paglia, è una tentazione cui un autore non deve indulgere, per ragioni di cortesia non solo verso i critici ma anche verso i loro lettori, destinati altrimenti a restare nella confusione. Benché io abbia mie idee personali su quali capitoli del mio libro si riveleranno infine effimeri per questa ragione, desidero però lasciare il giudizio al lettore e al tempo.
Sono afflitto nel constatare che alcune mie amiche (per fortuna non molte) considerino l’uso impersonale del pronome maschile come un segno dell’intenzione di escluderle. Se si dovesse escludere qualcuno (per fortuna non ce n’è bisogno), io penso che escluderei più volentieri gli uomini, ma quando una volta feci il tentativo di riferirmi al mio lettore astratto col pronome personale femminile, una femminista mi accusò di avere usato una certa condiscendenza: avrei dovuto scrivere non «lei» bensì «lui o lei». Questo non sarebbe certo un compito difficile per chi non si preoccupasse dello stile, ma chi non si preoccupa dello stile non merita di avere lettori né dell’uno né dell’altro sesso. In questo libro sono tornato alla normale convenzione del pronome maschile usato in forma impersonale per indicare individui di entrambi i sessi. Anche se nelle pagine che seguono mi riferirò sempre al mio lettore col pronome personale maschile, non penso affatto che i miei lettori siano specificamente maschili più di quanto si possa pensare che una cassapanca sia di sesso femminile. In realtà, quando penso ai miei lettori me li immagino forse più spesso come lettrici, ma questo è un fatto puramente personale e detesterei pensare che considerazioni del genere avessero influito sul modo in cui io uso la mia lingua materna.
Sono personali anche alcune delle ragioni che mi ispirano gratitudine verso una quantità di persone. Coloro a cui non posso rendere giustizia qui capiranno. Il mio editore non ha visto alcuna ragione per tenermi nascosta l’identità dei suoi lettori, referees (non «recensori», reviewers, poiché i veri recensori, con buona pace di molti americani sotto i quarant’anni, criticano i libri solo dopo la loro pubblicazione, quando è ormai troppo tardi perché un autore possa tenerne conto), e io ho tratto molto beneficio dai suggerimenti di John Kreb (di nuovo), di John Durant, di Graham Cairns-Smith, di Jeffrey Levinton, di Michael Ruse, di Anthony Hallam e di David Pye. Richard Gregory ha espresso le sue cortesi critiche al capitolo XII, e la versione finale del libro ha tratto vantaggio dalla sua completa eliminazione. Mark Ridley e Alan Grafen, che ora non sono più miei studenti neppure ufficialmente, sono, assieme a Bill Hamilton, le menti principali del gruppo di colleghi con cui io discuto di evoluzione e dalle cui idee traggo beneficio quasi quotidianamente. Questi – Pamela Wells, Peter Atkins e John Dawkins – mi sono stati d’aiuto criticando per me vari capitoli. Sarah Bunney apportò numerosi miglioramenti, e John Gribbin corresse un grave errore. Alan Grafen e Will Atkinson mi hanno dato consigli su problemi concernenti i computer, e l’Apple Macintosh Syndicate del dipartimento di Zoologia mi ha concesso gentilmente di usare la sua stampante laser per disegnare i biomorfi.
Ancora una volta ho tratto vantaggio dall’instancabile dinamismo di Michael Rodgers, ora alla Longman. Egli, e Mary Cunnane della Norton, applicarono abilmente l’acceleratore (al mio morale) e il freno (al mio senso dell’umorismo) a seconda del bisogno. Il libro è stato scritto in parte durante un anno sabbatico gentilmente concessomi dal dipartimento di Zoologia e dal New College. Infine – debito che avrei dovuto riconoscere già nei miei due libri precedenti – il sistema didattico di Oxford dei corsi affidati a tutors e i molti studenti di zoologia che ho avuto nel corso degli anni mi hanno aiutato a fare un uso pratico di quelle poche abilità che posso avere nella difficile arte della spiegazione.
R.D.
Oxford, 1986