I

Spiegare il molto improbabile

Noi animali siamo le cose più complicate che esistano nell’universo conosciuto. Il nostro universo è, ovviamente, solo un minuscolo frammento dell’universo reale. Su altri pianeti potrebbero esistere oggetti ancora più complicati di noi, e alcuni di essi potrebbero essere già informati della nostra esistenza. Ciò non incide però sull’osservazione che vorrei fare. Le cose complicate, dovunque si trovino, meritano un tipo specialissimo di spiegazione. Noi vogliamo sapere come abbiano avuto origine e perché siano così complicate. Sono propenso a credere che la spiegazione debba essere grosso modo la stessa per le cose complicate in qualsiasi parte dell’universo; la stessa per noi, per gli scimpanzè, per i vermi, per le querce e per i mostri che vengono dallo spazio. D’altra parte non sarà così per quelle che chiamerò le cose «semplici», come le pietre, le nuvole, i fiumi, le galassie e i quark. Queste cose sono gli oggetti di cui si occupano le scienze fisiche. Scimpanzè e cani e pipistrelli e scarafaggi e persone e vermi e denti di leone e batteri ed esseri alieni sono oggetti della biologia.

La differenza consiste nella complessità del progetto. La biologia è lo studio di cose complicate che danno l’impressione di essere state progettate in vista di un fine. La fisica è lo studio di cose semplici che non ci inducono nella tentazione di invocare un disegno deliberato. A tutta prima oggetti costruiti dall’uomo come computer e automobili sembrerebbero costituire delle eccezioni. Essi sono complicati e chiaramente costruiti in vista di uno scopo, eppure non sono vivi e sono fatti di metallo e plastica anziché di carne e ossa. In questo libro li tratterò decisamente come oggetti biologici.

La risposta del lettore a questa presa di posizione potrebbe consistere nel chiedere: «Sì, ma sono realmente oggetti biologici?». Le parole sono al nostro servizio, non noi al loro. A fini diversi noi possiamo trovare utile usare le parole in significati diversi. La maggior parte dei libri di cucina classificano le aragoste come pesci. I biologi possono rischiare un colpo apoplettico per questo, sottolineando che avrebbero più ragione le aragoste di chiamare noi pesci, dal momento che i pesci sono tassonomicamente molto più vicini agli esseri umani che non a esse. E, parlando di giustizia e di aragoste, ho sentito dire che un tribunale si è trovato recentemente nella necessità di decidere se le aragoste fossero insetti o «animali» (dalla risoluzione di questo problema dipendeva se si poteva permettere alla gente di bollire le aragoste vive). Zoologicamente parlando, è sicuro che le aragoste non sono insetti. Esse sono animali, ma anche gli insetti sono animali, e anche noi non facciamo eccezione. È poco utile prendersela tanto per come le diverse persone usano le parole (anche se nella mia vita non professionale io sono prontissimo a prendermela con le persone che gettano le aragoste vive nell’acqua bollente). Cuochi e avvocati hanno bisogno di usare le parole a modo loro, e farò anch’io così in questo libro. Non dobbiamo prendere troppo sul serio il problema se automobili e computer siano «realmente» oggetti biologici. Il punto è che, se qualcosa di complessità paragonabile venisse trovato su un pianeta, non avremmo alcuna esitazione nel concludere che su di esso esiste la vita, o che vi è esistita un tempo. Le macchine sono prodotti diretti di esseri viventi; esse derivano la loro complessità e il loro disegno da oggetti viventi e attestano l’esistenza della vita su un pianeta. Lo stesso vale per fossili, scheletri e cadaveri.

Ho detto che la fisica è lo studio di cose semplici e a tutta prima anche quest’affermazione può sembrare strana. La fisica sembra un argomento complicato perché le idee della fisica sono per noi difficili da capire. Il nostro cervello è stato progettato per capire la caccia e la raccolta, l’accoppiamento e il compito di allevare i figli; un mondo di oggetti di media grandezza che si muovono nelle tre dimensioni a velocità moderate. Noi siamo mentalmente male equipaggiati per capire oggetti molto piccoli e molto grandi, cose la cui durata si misura in picosecondi o in giga-anni; particelle che non hanno una posizione; forze e campi che non possiamo vedere o toccare. Noi pensiamo che la fisica sia complicata perché per noi è difficile da capire, e perché i libri di fisica sono pieni di complesse formule matematiche. Ma gli oggetti studiati dai fisici sono ancora oggetti fondamentalmente semplici. Essi sono nuvole di gas o minuscole particelle, o masse di materia uniforme come i cristalli, in cui strutture atomiche si ripetono quasi senza fine. Essi non hanno parti funzionanti complesse, almeno a paragone con gli oggetti biologici. Persino oggetti fisici di dimensioni molto grandi, come le stelle, sono formati da un numero di parti distinte piuttosto limitato, disposte in modo più o meno casuale. Il comportamento di oggetti fisici, non biologici, è così semplice che possiamo usare, per descriverlo, il linguaggio matematico esistente ed è appunto questa la ragione per cui i libri di fisica sono pieni di matematica.

I libri di fisica possono essere complicati, ma essi, come le automobili e i computer, sono i prodotti di oggetti biologici: ossia di cervelli umani. Gli oggetti e i fenomeni descritti da un libro di fisica sono più semplici di una singola cellula nel corpo del suo autore. E l’autore è formato da bilioni di quelle cellule, molte delle quali diverse l’una dall’altra, organizzate con una complessa architettura e una tecnica di precisione in una macchina funzionante, capace di scrivere un libro. Il nostro cervello non è meglio equipaggiato a far fronte agli estremi di complessità che agli estremi di grandezza e agli altri difficili estremi della fisica. Nessuno ha ancora inventato la matematica necessaria per descrivere nella sua globalità la struttura e il comportamento di un oggetto così complesso come un fisico, o anche solo come una delle sue cellule. Quel che possiamo fare è di capire alcuni dei principi generali di come le cose viventi funzionano e perché esse esistano in generale.

Fu questo il punto in cui entrammo in scena noi. Volevamo sapere perché esistiamo, e perché esistono tutte le altre cose complicate. E oggi siamo in grado di rispondere a tali domande in termini generali, anche se non sappiamo ancora comprendere i particolari della complessità stessa. Per fare un’analogia, la maggior parte di noi non capisce nei particolari come funzioni un aereo di linea. Probabilmente non lo capiscono a fondo neppure i suoi costruttori: gli specialisti dei motori non capiscono nei particolari le ali, e gli specialisti delle ali comprendono i motori solo in modo vago. Gli specialisti delle ali non capiscono con un’assoluta precisione matematica neppure le ali: essi possono predire come si comporterà un’ala in condizioni di turbolenza solo esaminando un modello in una galleria del vento o una simulazione al computer: lo stesso tipo di cosa cui può far ricorso un biologo per capire un animale. Ma per quanto incompleta sia la nostra comprensione del modo in cui funziona un aereo di linea, noi tutti comprendiamo in virtù di quale processo generale esso abbia avuto origine. Esso è stato progettato su tavoli da disegno da esseri umani. Poi altri esseri umani hanno costruito le parti sulla base del progetto, e molti altri esseri umani (con l’aiuto di altre macchine progettate da altri esseri umani) hanno imbullonato, rivettato, saldato o incollato assieme i pezzi, ciascuno al posto giusto. Il processo per mezzo del quale un aereo di linea è venuto all’esistenza non è fondamentalmente misterioso per noi, poiché esso è stato costruito da esseri umani. La composizione sistematica di una pluralità di parti in vista di un disegno intenzionale è qualcosa che noi conosciamo e comprendiamo bene, avendola sperimentata di persona, non foss’altro che giocando nella nostra infanzia col Meccano o altre scatole di montaggio.

Che dire del nostro corpo? Ciascuno di noi è una macchina, come un aereo di linea, anche se molto più complicata. Anche noi siamo stati progettati su un tavolo da disegno, e le nostre parti sono state montate da un abile tecnico? La risposta è: no. È una risposta sorprendente, e noi la conosciamo e la comprendiamo solo da un secolo circa. Quando Charles Darwin spiegò per la prima volta questi concetti, molte persone non vollero o non poterono capire. Io stesso mi rifiutai decisamente di credere alla teoria di Darwin la prima volta che ne sentii parlare da bambino. Nel corso della storia, fino alla seconda metà dell’Ottocento, quasi tutti avevano creduto fermamente nella tesi opposta: la teoria di un disegno divino intenzionale. Molte persone credono ancora a una creazione divina, forse perché la spiegazione vera della nostra esistenza, quella data da Darwin, non è ancora diventata una parte di routine del curriculum dell’istruzione generale. Si può certamente affermare senza tema di smentita che la teoria di Darwin è ancor oggi fraintesa da molte persone.

L’orologiaio che dà il titolo a questo libro è preso a prestito da un famoso trattato del teologo settecentesco William Paley. La sua Teologia naturale o sia prove della esistenza e degli attributi della divinità ricavate dalle apparenze della natura, edita nel 1802, è l’esposizione meglio nota dell’«argomento del disegno divino», che è sempre il più influente fra gli argomenti a sostegno dell’esistenza di un Dio. Io ammiro molto il libro di Paley perché il suo autore riuscì a fare ai suoi tempi quel che io sto sforzandomi di fare ora. Paley aveva una tesi da dimostrare, credeva in essa appassionatamente e non risparmiò alcuno sforzo per ficcarla bene in testa nel modo più chiaro ai suoi lettori. Egli aveva una giusta reverenza per la complessità del mondo vivente, e si rese conto che essa richiede un tipo molto speciale di spiegazione. L’unica cosa in cui sbagliò – anche se non è certo una cosa da poco! – fu la spiegazione stessa. Egli fornì la risposta religiosa tradizionale all’enigma, ma la espresse in modo più chiaro e più convincente di chiunque altro prima di lui. La vera spiegazione è molto diversa, e sarebbe stata trovata solo da uno fra i pensatori più rivoluzionari di tutti i tempi: Charles Darwin.

Paley apre la Teologia naturale con un brano famoso:

Attraversando una brughiera, supponiamo che io avessi urtato col piede contro una pietra, e che qualcuno mi avesse chiesto in che modo la pietra fosse venuta a trovarsi là; io avrei forse potuto rispondere che, a quanto ne sapevo, quella pietra poteva trovarsi là da sempre: né forse sarebbe stato molto facile dimostrare l’assurdità di quella risposta. Supponiamo però che io avessi trovato al suolo un orologio, e che mi fosse stato chiesto in che modo l’orologio si trovasse là; io non avrei certo potuto pensare alla risposta che avevo dato prima, ossia che, a quanto ne sapevo, l’orologio poteva essere là da sempre.

Paley dimostra qui di saper apprezzare la differenza fra oggetti fisici naturali come pietre e oggetti prodotti da un artefice come gli orologi. Egli prosegue esponendo la precisione con cui sono costruiti gli ingranaggi e le molle di un orologio, e la complessità con cui sono montati. Se noi trovassimo in una brughiera un oggetto come un orologio, anche se non sapessimo in che modo esso avesse avuto origine, la sua precisione e la complessità del progetto ci costringerebbero a concludere

che l’orologio deve avere avuto un costruttore; che devono essere esistiti, in qualche tempo e in qualche luogo, un artefice o degli artefici che lo formarono in vista del fine al quale noi vediamo che effettivamente risponde, che ne comprendevano la struttura e ne progettarono l’uso.

Nessuno potrebbe ragionevolmente dissentire da questa conclusione. Paley insiste, però, che questo è proprio ciò che fa l’ateo, quando contempla le opere della natura, giacché

ogni indicazione di inventiva, ogni manifestazione di un progetto intelligente che esistevano nell’orologio esistono anche nelle opere della natura; con la differenza, a vantaggio della natura, di una maggiore grandezza, e ciò in un grado che sfida ogni calcolo.

Paley dimostra la sua tesi con belle e reverenti descrizioni del meccanismo della vita, che disseziona, a cominciare dall’occhio umano, uno fra gli esempi preferiti in questo genere di argomentazioni, esempio che sarebbe stato usato in seguito anche da Darwin e che riappare nell’intero corso di questo libro. Paley paragona l’occhio a uno strumento progettato dall’uomo come un telescopio e conclude che «c’è precisamente la stessa dimostrazione che l’occhio sia stato costruito per vedere, e che il telescopio sia stato costruito per aiutare l’occhio». L’occhio deve avere avuto un progettista, esattamente come il telescopio.

L’argomentazione di Paley viene condotta con appassionata sincerità ed è informata alle migliori conoscenze biologiche del tempo, ma è sbagliata, clamorosamente e totalmente sbagliata. L’analogia fra il telescopio e l’occhio, fra l’orologio e l’organismo vivente, è falsa. Nonostante ogni apparenza del contrario, l’unico orologiaio in natura sono le forze cieche della fisica, anche se impiegate in un modo speciale. Un vero orologiaio ha la prescienza: egli progetta i suoi ingranaggi e le sue molle e ne prevede le interconnessioni, avendo in vista il fine futuro. La selezione naturale, il processo cieco, inconscio, automatico che fu scoperto da Darwin e che, come noi oggi sappiamo, è la spiegazione dell’esistenza e della forma apparentemente finalistica di ogni essere vivente, non ha in vista alcun fine. Essa non ha una mente né alcuna forma di coscienza. Non progetta per il futuro. Non vede, non ha alcuna forma di preveggenza. Se si può dire che essa svolge il ruolo di orologiaio in natura, è l’orologiaio cieco.

Spiegherò tutto questo, e molte altre cose ancora. Ma una cosa che non farò è quella di sminuire la meraviglia verso gli «orologi» viventi che ispirò così fortemente Paley. Al contrario, cercherò di illustrare la mia convinzione che Paley avrebbe potuto spingersi ancor oltre. Quando si tratta di sentir reverenza per gli «orologi» viventi, io non rimango indietro a nessuno. Io mi sento più vicino al reverendo William Paley che non al famoso filosofo moderno, ateo ben noto, con cui discussi una volta su questo argomento a pranzo. Alla mia affermazione che non potevo immaginare come avrei potuto essere ateo se fossi nato prima del 1859, l’anno di pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, il filosofo ribatté: «Che cosa ne dici di Hume?». «In che modo Hume spiegò la complessità organizzata del mondo vivente?» chiesi a mia volta. «Non la spiegò» disse il filosofo. «Perché mai essa avrebbe bisogno di una speciale spiegazione?»

Paley sapeva che essa aveva bisogno di una speciale spiegazione; anche Darwin lo sapeva, e io sospetto che nel suo intimo lo sapesse anche il filosofo che pranzò assieme a me. In ogni caso questo è il compito che io mi propongo qui. Quanto a David Hume, a volte si dice che il grande filosofo scozzese fece piazza pulita dell’argomento del disegno divino un secolo prima di Darwin. Ma il contributo di Hume si ridusse semplicemente a criticare la logica di usare il disegno apparente in natura come una prova positiva a sostegno dell’esistenza di un Dio. Egli non offrì alcuna spiegazione alternativa del disegno apparente, ma lasciò aperto il problema. Un ateo prima di Darwin avrebbe potuto dire, seguendo Hume: «Io non ho alcuna spiegazione per il complesso disegno biologico. Tutto ciò che so è che Dio non è una buona spiegazione, cosicché dobbiamo attendere e sperare che qualcuno ne trovi una migliore». Io non posso fare a meno di pensare che una tale posizione, per quanto logicamente sana, non potesse essere soddisfacente e che, per quanto l’ateismo possa essere stato logicamente sostenibile prima di Darwin, soltanto Darwin abbia creato la possibilità di adottare un punto di vista ateo con piena soddisfazione intellettuale. Mi piace pensare che lo stesso Hume sarebbe stato d’accordo ma alcuni suoi scritti suggeriscono che egli abbia sottovalutato la complessità e la bellezza del disegno biologico. Charles Darwin, già con le nozioni di storia naturale che aveva da ragazzo, avrebbe potuto mostrargli un paio di cosette in proposito, ma quando Darwin si iscrisse all’università di Hume a Edimburgo, il vecchio filosofo era ormai passato a miglior vita da quarant’anni.

Ho parlato in modo piuttosto disinvolto della complessità e del disegno apparente, come se il significato di queste parole fosse ovvio. E in un certo senso è ovvio: la maggior parte delle persone ha un’idea intuitiva di che cosa significa la complessità. Ma queste nozioni, la complessità e il disegno, sono così centrali in questo libro che devo tentare di definire in modo un po’ più preciso, a parole, la nostra convinzione che in cose complesse, e prodotte in apparenza da un disegno deliberato, ci sia qualcosa di speciale.

Che cos’è dunque una cosa complessa? Come dovremmo riconoscerla? In che senso è valido dire che un orologio o un aereo di linea o un dermattero o una persona sono complessi mentre la Luna è semplice? Il primo punto che potrebbe venirci in mente come attributo necessario di una cosa complessa è che essa ha una struttura eterogenea. Un budino o un semolino è semplice nel senso che, se lo tagliamo in due, le due parti avranno la stessa costituzione interna: un semolino è omogeneo. Un’automobile, di contro, è eterogenea: a differenza di un semolino, quasi ogni parte della macchina è diversa dalle altre parti. Due mezze automobili non fanno un’automobile. Ciò equivale spesso a dire che un oggetto complesso, a differenza di uno semplice, ha molte parti, le quali sono di più di un genere.

Tale eterogeneità – o composizione in più parti – può essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Una grande varietà di oggetti sono suddivisi in molte parti ed eterogenei nella loro struttura interna, senza essere però complessi nel senso in cui io desidero usare il termine. Il monte Bianco, per esempio, è composto da molti tipi diversi di roccia, tutti accozzati assieme in modo tale che, se si tagliasse la montagna in un punto qualsiasi, le due parti differirebbero l’una dall’altra nella loro costituzione interna. Il monte Bianco ha un’eterogeneità di struttura inesistente in un semolino, ma non è ancora complesso nel senso in cui usa il termine un biologo.

Proviamo ora a seguire un’altra via nella ricerca di una definizione della complessità, servendoci a questo scopo dell’idea matematica di probabilità. Supponiamo di provare la seguente definizione: una cosa complessa è qualcosa le cui parti componenti sono organizzate in modo tale che è improbabile che abbiano avuto origine in virtù del solo caso. Per riproporre un’analogia già usata da un astronomo eminente, se prendiamo le parti di un aereo di linea e le accozziamo assieme a caso, la probabilità che da una tale combinazione casuale venga prodotto un Boeing funzionante è evanescentemente piccola. Esistono miliardi di modi possibili di combinare i pezzi di un aereo di linea e solo uno, o pochissimi, di essi possono darci effettivamente un aereo di linea. Ancora minore è il numero dei modi per comporre in un’unità funzionante, operando alla rinfusa, le parti di un essere umano.

Questo approccio a una definizione della complessità è promettente, ma manca ancora qualcosa. Esistono, si può dire, miliardi di modi di mettere assieme i pezzi del monte Bianco, e soltanto uno di essi è il monte Bianco. Che cos’è dunque che rende l’aereo di linea e l’essere umano complicati, mentre il monte Bianco è semplice? Qualsiasi collezione di parti accozzate assieme è unica e, considerata retrospettivamente, altrettanto improbabile quanto qualsiasi altra. Il mucchio di rottami di ferro in un cantiere di demolizione di aerei è unico. Non esistono due mucchi di rottami uguali. Se cominciamo ad accumulare frammenti di aerei in mucchi, la probabilità di imbroccare due volte esattamente la stessa disposizione dei pezzi è esattamente altrettanto piccola quanto quella di ottenere un aereo di linea funzionante. Perché dunque non diciamo che un cumulo di rifiuti, o il monte Bianco, o la Luna, sono altrettanto complessi quanto un aereo o un cane, dato che in tutti questi casi la disposizione degli atomi è altrettanto «improbabile»?

Il lucchetto a combinazione sulla mia bicicletta ha 4096 posizioni diverse. Ognuna di queste è altrettanto «improbabile» nel senso che, se si fanno girare le rotelle del lucchetto a caso, la probabilità che venga una qualsiasi delle 4096 posizioni è altrettanto piccola quanto quella di qualsiasi altra. Io posso girare le rotelle a caso, guardare il numero che è venuto fuori ed esclamare post factum: «Che cosa sorprendente. Le probabilità contro questo numero erano 4096 a 1. Un piccolo miracolo!». Questo ragionamento equivale a considerare «complessa» la particolare disposizione delle rocce in una montagna, o dei pezzi di metallo in un cumulo di rottami. Ma solo una di quelle 4096 posizioni è in realtà unica in un senso interessante: la combinazione 1207 è l’unica che apre il lucchetto. L’unicità del 1207 non ha niente a che fare col senno di poi: essa è specificata in anticipo dal produttore. Se, facendo girare le rotelline a caso, ci capitasse di imbroccare proprio il numero 1207, potremmo rubare la bicicletta, e questo sembrerebbe un piccolo miracolo. Se riuscissimo ad azzeccare per fortuna una delle combinazioni a molte ruote su una cassaforte di banca, questo ci sembrerebbe un miracolo molto grande, poiché le probabilità contrarie sono di molti milioni a 1, e potremmo rubare una fortuna.

Ora, indovinare il numero fortunato che apre la cassaforte di una banca è l’equivalente, nella nostra analogia, di gettare dei rottami di metallo in un mucchio e di accorgerci di avere montato per caso un Boeing 747. Fra tutti i milioni di posizioni uniche e, col senno di poi, altrettanto improbabili, della serratura a combinazione, soltanto una apre la serratura. Similmente fra tutti i milioni di disposizioni uniche e, col senno di poi, altrettanto improbabili, del mucchio di rottami, soltanto una (o pochissime) saranno in grado di volare. L’unicità della disposizione che riesce a sollevarsi dalla pista di decollo, o che apre la cassaforte, non ha niente a che fare col senno di poi. Essa è specificata in anticipo. È stato il produttore della serratura a fissare la combinazione e a comunicarla al funzionario della banca. La capacità di volare è una proprietà di un aereo di linea che noi specifichiamo in anticipo. Se vediamo un aereo in aria possiamo essere sicuri che esso non è stato montato gettando a caso dei pezzi di metallo in un mucchio, perché sappiamo che la probabilità che una tale accozzaglia casuale di pezzi possa alzarsi in volo è troppo piccola per poter essere presa in considerazione.

Ora, se consideriamo tutti i modi possibili in cui le rocce del monte Bianco potevano essere ammassate, è vero che l’unica che ci avrebbe dato il monte Bianco quale lo conosciamo è definita a posteriori. Uno qualsiasi di un enorme numero di modi di accozzare assieme delle rocce ci avrebbe dato una montagna, la quale avrebbe potuto essere chiamata il monte Bianco. Non c’è niente di speciale nel particolare monte Bianco che conosciamo, niente di specificato in anticipo, niente di equivalente alla capacità dell’aereo di decollare o all’apertura della cassaforte che consente di mettere le mani sul denaro contenuto nel suo interno.

Qual è l’equivalente dell’apertura della cassaforte, o del volo dell’aereo, nel caso di un corpo vivente? Si può dire che a volte sia quasi esattamente la stessa cosa. Le rondini volano. Come abbiamo visto, non è facile mettere assieme una macchina volante. Se prendiamo tutte le cellule di una rondine e le componiamo a caso, la probabilità che l’oggetto risultante voli non è, a fini pratici, diverso da zero. Non tutte le cose viventi volano, ma fanno altre cose che sono altrettanto improbabili, e altrettanto specificabili in anticipo. I cetacei non volano ma nuotano, e nuotano con la stessa efficienza con cui le rondini volano. La probabilità che un’aggregazione casuale di cellule di cetaceo nuoti, per non dire di nuotare con la stessa velocità ed efficienza di un cetaceo, è trascurabilmente piccola.

A questo punto qualche filosofo dallo sguardo acuto come quello dell’aquila (le aquile hanno occhi molto acuti: non si potrebbe mai ottenere un occhio d’aquila componendo in modo casuale lenti cristalline e cellule sensibili alla luce) comincerà a borbottare qualcosa sulla circolarità dell’argomentazione. Le rondini volano ma non nuotano, e i cetacei nuotano ma non volano. È col senno di poi che noi decidiamo se giudicare il successo del nostro aggregato casuale di cellule come volatore o come nuotatore. Supponiamo di accordarci a giudicare il successo del nostro aggregato di cellule come X-atore, lasciando impregiudicato che cosa significhi esattamente X finché non avremo fatto il tentativo di combinare assieme le cellule in modo casuale. L’aggregato casuale di cellule potrebbe risultare un efficiente scavatore, come una talpa, o un eccellente arrampicatore, come una scimmia cinomorfa. Potrebbe essere molto bravo a librarsi nel vento, o ad aggrapparsi a rocce scivolose o a muoversi in cerchi sempre decrescenti. L’elenco potrebbe continuare a lungo. O no?

Se l’elenco potesse realmente continuare a lungo, il mio ipotetico filosofo potrebbe avere un appiglio. Se, aggregando in modo casuale della materia, si potesse spesso dire, col senno di poi, che il conglomerato risultante è buono a qualcosa, sarebbe giusto obiettare che ho barato parlando della rondine e del cetaceo. Ma i biologi possono essere molto più specifici quando si tratta di definire che cosa si debba intendere per «buono a qualcosa». La richiesta minima per indurci a riconoscere un oggetto come un animale o come una pianta è che esso dovrebbe riuscire in qualche modo a procurarsi i mezzi di sostentamento (più precisamente, che esso, o almeno alcuni membri della sua specie, dovranno riuscire a vivere abbastanza a lungo per riprodursi). È vero che ci sono molti modi diversi per procurarsi i mezzi di sostentamento, come volare, nuotare, arrampicarsi sugli alberi e via dicendo. Ma, per quanti modi possano esserci di essere in vita, è certo che esistono molti più modi di essere morti, o piuttosto non vivi. Si possono combinare cellule a caso, continuando a darsi da fare per un miliardo di anni senza ottenere mai un conglomerato che voli o nuoti o scavi o corra o faccia, anche male, una cosa qualsiasi che possa essere interpretata anche lontanamente come un lavorare per mantenersi in vita.

Questa è stata un’argomentazione protratta a lungo ed è venuto il momento di richiamare alla mente come ci siamo imbarcati in essa all’inizio. Stavamo cercando un modo preciso per esprimere che cosa intendiamo quando definiamo una cosa complicata. Tentavamo di precisare che cosa esseri umani e talpe e vermi e aerei di linea e orologi abbiano in comune fra loro, ma non col semolino o col monte Bianco o con la Luna. La risposta a cui siamo pervenuti è che le cose complicate hanno una qualche qualità, specificabile in anticipo, che è molto improbabile sia stata acquisita in virtù del solo caso. Nella fattispecie delle cose viventi, la qualità che è specificata in anticipo è, in un certo senso, l’«efficienza»; o l’efficienza in una particolare abilità come il volo, quale potrebbe essere ammirata da un ingegnere aeronautico; o l’efficienza in qualcosa di più generale, come l’abilità di evitare la morte, o la capacità di propagare i propri geni nella riproduzione.

Riuscire a evitare la morte è una cosa che richiede un certo lavoro. Lasciato a se stesso – che è ciò che succede quando muore – il corpo tende a tornare a uno stato di equilibrio col suo ambiente. Se si misura una qualche quantità, come la temperatura, l’acidità, il contenuto d’acqua o il potenziale elettrico in un corpo vivente, si trova che essa è considerevolmente diversa dalla misura corrispondente nell’ambiente esterno. Il nostro corpo, per esempio, è di solito più caldo dell’ambiente, e nei climi freddi deve lavorare parecchio per mantenere tale differenza. Quando noi moriamo quel lavoro si arresta, la differenza di temperatura tende a sparire e noi finiamo con l’avere la stessa temperatura dell’ambiente. Non tutti gli animali lavorano altrettanto duramente per evitare di venire a trovarsi in equilibrio con la temperatura dell’ambiente, ma tutti compiono un qualche lavoro comparabile. Per esempio, in un paese arido, animali e piante lavorano per mantenere il contenuto di liquidi delle loro cellule, lavorano contro una tendenza naturale dell’acqua a fluire da loro all’ambiente esterno arido. Se essi non riescono a conservare i loro liquidi corporei muoiono. Più in generale, se gli organismi vivi non lavorassero attivamente a scongiurare questa possibilità, finirebbero col fondersi col loro ambiente e cesserebbero di esistere come esseri autonomi. Questo è ciò che accade quando muoiono.

Con l’eccezione delle macchine artificiali, che abbiamo già convenuto di considerare alla stregua di cose viventi onorarie, le cose non viventi non funzionano in questo modo. Esse non oppongono resistenze alle forze che tendono a portarle in equilibrio con l’ambiente. Il monte Bianco, senza dubbio, esiste da molto tempo, e probabilmente esisterà ancora per molto, ma non compie alcun lavoro per continuare a esistere. Quando una pietra viene a fermarsi sotto l’influenza della gravità, non si muove più. Non è necessario compiere alcun lavoro per mantenerla in quella posizione. Il monte Bianco esiste, e continuerà a esistere finché non sarà cancellato dall’erosione o distrutto da un terremoto. Diversamente da un organismo vivo, esso non fa nulla per rimediare all’usura del tempo o per riparare i danni di possibili eventi catastrofici. Esso si limita solo a obbedire alle leggi comuni della fisica.

Quest’affermazione equivale forse a negare che gli esseri viventi obbediscano alle leggi della fisica? Certamente no. Non c’è alcuna ragione per pensare che nella materia vivente vengano violate le leggi della fisica. Non esiste niente di soprannaturale, nessuna «forza vitale» in antagonismo alle forze fondamentali della fisica. È solo che, se si cerca di usare le leggi della fisica in modo ingenuo per capire il comportamento di un corpo vivente nella sua globalità, si troverà che non ci si può spingere molto lontano. Il corpo è una cosa complessa con molte parti componenti, e per comprenderne il comportamento si devono applicare le leggi della fisica alle sue parti, non al tutto. Il comportamento del corpo nella sua globalità emergerà quindi come una conseguenza delle interazioni delle parti.

Consideriamo per esempio le leggi del moto. Se gettiamo in aria un uccello morto, esso descriverà una elegante parabola, esattamente come dicono i libri di fisica parlando del moto di proiezione, dopo di che cadrà al suolo e vi resterà immobile. Esso si comporta come dovrebbe comportarsi un corpo solido avente una determinata massa e una determinata resistenza aerodinamica. Se gettiamo in aria un uccello vivo, esso non descriverà una parabola e non verrà a fermarsi al suolo, ma volerà via e potrebbe non toccare più terra finché non sarà oltre i confini di questa provincia. La ragione di questo diverso comportamento consiste nel fatto che esso ha muscoli che lavorano per resistere alla gravità e ad altre forze fisiche che agiscono su tutto il suo corpo. All’interno di ogni cellula dei muscoli vengono osservate le leggi della fisica. Il risultato è che i muscoli muovono le ali in modo tale che l’uccello riesce a stare in aria. L’uccello non viola affatto la legge di gravità. Esso viene attratto costantemente dalla gravità verso il basso, ma le sue ali compiono un lavoro attivo – obbedendo nei loro muscoli alle leggi della fisica – per mantenerlo in volo nonostante la forza di gravità. Noi penseremo che esso sfidi una legge fisica se saremo così ingenui da trattarlo semplicemente come un aggregato di materia con una certa massa e una certa resistenza aerodinamica. Solo ricordando che esso ha molte parti interne, le quali obbediscono tutte alle leggi della fisica al loro proprio livello, saremo in grado di comprendere il comportamento del corpo nella sua globalità. Questa non è, ovviamente, una peculiarità delle cose viventi, ma una proprietà che si applica anche a tutte le macchine costruite dall’uomo, e potenzialmente a ogni oggetto complesso formato da molte parti.

Queste considerazioni mi conducono all’argomento finale che desidero discutere in questo capitolo piuttosto filosofico, ossia il problema di che cosa intendiamo per spiegazione. Abbiamo già visto quale significato vogliamo dare al concetto di una cosa complessa. Ma quale tipo di spiegazione potremo considerare soddisfacente se ci chiediamo come funzioni una macchina complicata, o un corpo vivente? La risposta è quella a cui siamo pervenuti nel paragrafo precedente. Se desideriamo capire come funzioni una macchina o un corpo vivente, guardiamo le sue parti componenti e ci chiediamo in che modo interagiscano fra loro. Se c’è una cosa complessa che non comprendiamo ancora, potremo pervenire a capirla dopo aver capito come funzionano le sue parti componenti, più semplici.

Se chiedo a un ingegnere come funzioni una macchina a vapore, ho un’idea abbastanza precisa del tipo generale di risposta che potrei considerare soddisfacente. Come Julian Huxley, non resterei affatto impressionato se l’ingegnere mi dicesse che essa viene azionata dalla «forza locomotiva». E se cominciasse a pontificare sul fatto che il tutto è maggiore della somma delle sue parti, lo interromperei: «Non si preoccupi di ciò, mi dica solo come funziona». Quel che vorrei sapere è qualcosa sul modo in cui le parti della macchina interagiscono fra loro per produrre il comportamento della macchina nella sua globalità. All’inizio sarei preparato ad accettare una spiegazione nei termini di parti componenti abbastanza grandi, la cui struttura e il cui comportamento interni potrebbero essere anche molto complicati e finora inspiegati. Le unità di una spiegazione in un primo momento soddisfacente potrebbero avere nomi come forno, caldaia, cilindro, pistone, regolatore del vapore. L’ingegnere direbbe, senza fornire inizialmente alcuna spiegazione, che cosa fa ciascuna di queste unità. Io accetterei per il momento tale spiegazione, rinunciando a chiedere in che modo ciascuna unità assolva il suo particolare compito. Concedendo che ciascuna unità assolva il suo particolare compito, posso capire in che modo esse interagiscono per far muovere la macchina a vapore nella sua globalità.

Ovviamente, io ho poi la facoltà di chiedere anche in che modo ciascuna parte funzioni. Avendo in precedenza accettato il fatto che il regolatore determini la misura del flusso di vapore, e avendo usato questo fatto nella mia comprensione del comportamento della macchina nella sua globalità, rivolgo ora la mia curiosità al regolatore del vapore stesso. Ora vorrei capire in che modo esso consegua il suo proprio comportamento, in funzione delle parti che lo compongono. All’interno delle parti componenti c’è una gerarchia di subcomponenti. Noi spieghiamo il comportamento di un componente, a ogni livello dato, nei termini di interazioni fra subcomponenti la cui propria organizzazione interna viene data per il momento per scontata. Ci addentriamo in tal modo nella gerarchia, un livello dopo l’altro, fino a raggiungere unità così semplici che, ai nostri fini quotidiani, non sentiamo più il bisogno di porre domande su di esse. A ragione o a torto, per esempio, la maggior parte di noi si accontenta di dare per scontate le proprietà di barre di ferro rigide, e noi siamo pronti a usarle come unità di spiegazione di macchine più complesse che le contengono.

I fisici, ovviamente, non danno per scontate le barre di ferro. Essi si chiedono perché siano rigide, e continuano a discendere nella gerarchia per molti altri livelli ancora, sino a quelli delle particelle elementari e dei quark. Ma la vita è troppo breve perché la maggior parte di noi sia disposta a seguirli in questa loro ricerca di spiegazione. Per ogni livello dato di un’organizzazione complessa si possono conseguire normalmente spiegazioni soddisfacenti se si scende nella gerarchia di uno o due livelli al di sotto di quello che si sta considerando, ma non di più. Il comportamento di un’automobile viene spiegato in termini di cilindri, carburatore e candele. È vero che ciascuno di questi componenti poggia su una piramide di spiegazioni a livelli inferiori. Se però mi chiedeste come funziona un’automobile, mi giudichereste un po’ pomposo se rispondessi nei termini delle leggi di Newton e delle leggi della termodinamica, e decisamente oscuro se rispondessi nei termini delle particelle fondamentali. È senza dubbio vero che, al più basso dei vari livelli, il funzionamento di un’automobile si spiega nei termini di interazioni fra le particelle elementari, ma è molto più semplice spiegarlo nei termini di interazioni fra pistoni, cilindri e candele.

Il funzionamento di un computer può essere spiegato nei termini di interazioni fra porte logiche elettroniche a semiconduttori, e il comportamento di queste, a loro volta, è spiegato dai fisici a livelli ancora inferiori. Per la maggior parte dei fini, però, sprecheremmo in gran parte il nostro tempo se tentassimo di capire il comportamento dell’intero computer all’uno o all’altro di questi livelli, troppo grande essendo il numero delle porte logiche e delle interconnessioni fra loro. Una spiegazione soddisfacente dev’essere nei termini di un numero di interazioni abbastanza piccolo da poter essere padroneggiato senza difficoltà. Ecco perché, se vogliamo capire il funzionamento dei computer, preferiamo una spiegazione preliminare nei termini di una mezza dozzina di subcomponenti principali: memoria, processore, memoria ausiliaria, unità di controllo, gestore di input-output ecc. Dopo avere compreso le interazioni fra la mezza dozzina di componenti principali, può venirci il desiderio di porre domande sull’organizzazione interna di questi componenti principali. È probabile che solo tecnici specializzati discendano al livello delle porte AND e NOR, e solo i fisici si spingeranno ancor oltre, al livello di come gli elettroni si comportano in un mezzo semiconduttivo.

Per coloro che amano i tipi di nomi in «ismo», il nome più adatto per designare il mio approccio al problema di capire come funzionano le cose è probabilmente «riduzionismo gerarchico». Chi è abituato a leggere riviste di cultura può aver notato che il «riduzionismo» è una di quelle cose, come il peccato, che vengono menzionate solo da coloro che le combattono. Designare se stesso come un riduzionista è un po’, in certi ambienti, come ammettere di mangiare bambini. Ma come in realtà non c’è nessuno che mangi bambini, così nessuno è veramente un riduzionista in un qualsiasi senso contro cui valga la pena di prendere posizione. Il riduzionista inesistente – il tipo a cui tutti si oppongono, ma che esiste solo nella loro immaginazione – cerca di spiegare le cose complicate direttamente nei termini delle parti più piccole, e persino, in alcune versioni del mito, come la somma delle parti! Il riduzionista gerarchico, invece, spiega un’entità complessa, a un qualsiasi livello particolare nella gerarchia dell’organizzazione, nei termini di entità che si trovano solo un livello più in basso nella gerarchia; entità che sono probabilmente a loro volta abbastanza complesse da esigere un’ulteriore riduzione alle loro parti componenti; e via dicendo. Non occorre dire – anche se si ritiene che il riduzionista mitico, che mangia i bambini, lo neghi – che i tipi di spiegazione che sono adatti ai livelli superiori nella gerarchia sono del tutto diversi dai tipi di spiegazione che sono adatti a livelli inferiori. Ecco perché le automobili si prestano a essere spiegate nei termini di carburatori ma non nei termini di quark. Ma il riduzionista gerarchico crede che i carburatori si spieghino a loro volta nei termini di unità minori, le quali si spiegano nei termini di unità ancora minori, le quali si spiegano in ultima analisi nei termini delle più piccole fra le particelle elementari. Il riduzionismo, in questo senso, è solo un altro nome per designare un onesto desiderio di capire come funzionino le cose.

Abbiamo cominciato quest’ultima parte del capitolo chiedendoci quale tipo di spiegazione di cose complicate ci soddisferebbe. Abbiamo appena considerato la questione dal punto di vista del meccanicismo: come funziona? Abbiamo concluso che il comportamento di una cosa complicata dovrebbe essere spiegato nei termini di interazioni fra le parti che la compongono, considerate come livelli successivi di una gerarchia ordinata. Ma un altro tipo di problema è in che modo la cosa complicata abbia avuto origine. È questo il problema alla cui soluzione è dedicato quest’intero libro, cosicché non è il caso che io mi dilunghi qui molto oltre su questo punto. Menzionerò solo che si applica qui lo stesso principio generale che abbiamo già visto a proposito del meccanismo della comprensione. Una cosa complicata è una cosa così «improbabile» che non ci sentiamo inclini a darne per scontata l’esistenza. Essa non avrebbe potuto venire all’esistenza in conseguenza di un singolo atto casuale. Noi spiegheremo il suo venire all’essere come una conseguenza di trasformazioni graduali, cumulative, passo-passo, da cose più semplici, da oggetti primordiali abbastanza semplici da potere aver avuto origine per caso. Esattamente come un «riduzionismo a grandi passi» non può funzionare come spiegazione di un meccanismo, e dev’essere sostituito da una serie di piccoli passi graduali da un livello della gerarchia all’altro, così non possiamo spiegare una cosa complessa come se avesse avuto origine in un singolo passo. Dobbiamo di nuovo far ricorso a una serie di piccoli passi, questa volta disposti in sequenza nel tempo.

Nel suo libro, scritto splendidamente, La creazione, il chimico e fisico di Oxford Peter Atkins comincia così:

Io condurrò la vostra mente in un viaggio. È un viaggio a vasto raggio, che ci porta ai confini dello spazio, del tempo e della comprensione. Nel corso di questo viaggio io sosterrò che non c’è niente che non possa essere capito, niente che non possa essere spiegato, e che tutto è straordinariamente semplice… Gran parte dell’universo non abbisogna di alcuna spiegazione. Gli elefanti, per esempio. Una volta che le molecole hanno imparato a competere fra loro e a creare altre molecole a loro immagine, elefanti, e cose simili agli elefanti, si troveranno a tempo debito a vagare attraverso le savane.

Atkins suppone che l’evoluzione di cose complesse – l’argomento di questo libro – sia inevitabile una volta che si siano affermate le condizioni fisiche appropriate. Egli si chiede quali siano le minime condizioni fisiche necessarie, quale sia la quantità minima di lavoro di progettazione che un Creatore pigro dovrebbe fare per essere certo che l’universo, e in seguito elefanti e altre cose complesse, venissero un giorno all’esistenza. La risposta, dal suo punto di vista di scienziato fisico, è che il Creatore potrebbe essere infinitamente pigro. Le unità fondamentali originarie che noi abbiamo bisogno di postulare per comprendere il venire all’esistenza di qualcosa, o consistono letteralmente in nulla (secondo alcuni fisici) o (secondo altri fisici) sono unità di una semplicità estrema, troppo semplici per aver bisogno di una cosa così grandiosa come una Creazione deliberata.

Atkins dice che gli elefanti e le cose complesse non hanno bisogno di alcuna spiegazione. Ma lo dice perché è uno scienziato fisico, che dà per scontata la teoria dell’evoluzione dei biologi. Egli non intende dire realmente che gli elefanti non abbiano bisogno di una spiegazione, ma piuttosto che gli basta che i biologi siano in grado di spiegare gli elefanti purché sia consentito loro di dare per scontati alcuni fatti della fisica. Il suo compito come scienziato fisico, perciò, è quello di giustificare la nostra decisione di dare quei fatti per scontati. Ed egli riesce ad assolvere questo compito. La mia posizione è complementare. Io sono un biologo. Io do per scontati i fatti della fisica, i fatti del mondo della semplicità. Se i fisici non sono ancora d’accordo fra loro sul problema se quei fatti semplici siano stati o no ancora compresi, questo non è affar mio. Il mio compito è quello di spiegare gli elefanti, e il mondo delle cose complesse, nei termini delle cose semplici che i fisici capiscono o su cui stanno lavorando. Il problema del fisico è il problema delle origini ultime e delle leggi naturali ultime. Il problema del biologo è invece il problema della complessità. Il biologo cerca di spiegare il funzionamento, e il venire all’esistenza, delle cose complesse nei termini di cose più semplici. Egli può considerare assolto il suo compito quando arriva a entità così semplici da poterle lasciare tranquillamente ai fisici.

Mi rendo ben conto che la mia caratterizzazione di un oggetto complesso – statisticamente improbabile in una direzione che non è specificata retrospettivamente – può sembrare estremamente personale. E altrettanto personale può sembrare la mia caratterizzazione della fisica come lo studio della semplicità. Se il lettore preferisse qualche altro modo per definire la complessità, per me andrebbe bene lo stesso e sarei ben lieto di accettare la sua definizione ai fini della discussione. Ma una cosa a cui tengo molto è che, comunque decidiamo di chiamare la qualità di «essere statisticamente improbabile in una direzione specificata senza l’aiuto del senno di poi», essa è una qualità importante che richiede uno speciale sforzo di spiegazione. È la qualità che caratterizza gli oggetti biologici come opposti agli oggetti della fisica. Il tipo di spiegazione che troveremo non dovrà essere in contraddizione con le leggi della fisica. Esso si servirà in effetti delle leggi della fisica, e di nient’altro che delle leggi della fisica. Esso utilizzerà le leggi della fisica in un modo speciale che non è quello discusso di solito nei testi di fisica. Quel modo speciale è il modo di Darwin. Io ne introdurrò l’essenza fondamentale nel capitolo III sotto il titolo di selezione cumulativa.

Frattanto vorrei seguire Paley nel sottolineare la grandezza del problema che la nostra spiegazione si trova a dover affrontare, la mera grandezza della complessità biologica e la bellezza ed eleganza del progetto biologico. Il capitolo II è un’estesa discussione di un esempio particolare, il «radar» nei pipistrelli, scoperto molto tempo dopo il tempo di Paley. E qui, in questo capitolo, ho incluso un’illustrazione (figura 1) – Paley avrebbe sicuramente amato molto il microscopio elettronico! – di un occhio, assieme a due «zumate» successive su suoi dettagli. In alto è presentata una sezione dell’occhio stesso. Questo livello di ingrandimento mostra l’occhio come uno strumento ottico. La somiglianza con la macchina fotografica è evidente. Il diaframma dell’iride, la pupilla, è responsabile della variazione costante dell’apertura. La lente cristallina (o cristallino), che in realtà è solo una parte di un sistema diottrico composto, è responsabile della parte variabile della messa a fuoco. Il fuoco viene modificato comprimendo il cristallino con muscoli (o, nel camaleonte, muovendo il cristallino stesso in avanti o all’indietro, come in una macchina fotografica). L’immagine cade sulla parte posteriore della retina, dove eccita delle fotocellule.

La parte al centro della figura 1 presenta un ingrandimento di una piccola sezione della retina. La luce proviene da sinistra. Le cellule sensibili alla luce («fotocellule») non sono la prima cosa colpita dalla luce, ma sono sepolte all’interno e rivolte dalla parte opposta a quella della luce. Su questa stranezza torneremo più avanti. La prima cosa colpita dalla luce è, in effetti, lo strato di cellule gangliari, che costituiscono l’«interfaccia elettronica» fra le fotocellule e il cervello. In realtà le cellule gangliari sono responsabili della pre-elaborazione dell’informazione in modi complessi prima della sua ritrasmissione al cervello, e sotto qualche aspetto la parola «interfaccia» non rende ragione di questo stato di cose. «Computer satellite» potrebbe essere una denominazione più appropriata. I fili provenienti dalle cellule gangliari decorrono lungo la superficie della retina sino alla «macchia cieca», dove si internano nella retina a formare il principale cavo di collegamento col cervello, il nervo ottico. Nell’«interfaccia elettronica», che raccoglie dati da circa 125 milioni di fotocellule, si trovano circa tre milioni di cellule gangliari.

Ingrandimento di una piccola sezione della retina

Figura 1

In basso c’è una fotocellula ingrandita, un bastoncello. Mentre osserviamo l’architettura fine di questa cellula dobbiamo tener presente che tutta questa complessità si ripete 125 milioni di volte in ciascuna retina. E una complessità comparabile si ripete bilioni di volte altrove nel corpo nel suo complesso. La cifra di 125 milioni di fotocellule è circa 5000 volte maggiore del numero di punti risolvibili singolarmente in una fotografia di rivista di buona qualità. Le membrane ripiegate nella parte a destra della fotocellula qui illustrata sono le strutture che raccolgono la luce. La loro forma stratificata accresce l’efficienza della fotocellula nella cattura di fotoni, le particelle fondamentali da cui è formata la luce. Se un fotone non viene catturato dalla prima membrana, può venire catturato dalla seconda, e via dicendo. In conseguenza di ciò, alcuni occhi sono capaci di scoprire un singolo fotone. Le emulsioni più rapide e sensibili disponibili ai fotografi hanno bisogno di un numero di fotoni circa 25 volte superiore per scoprire un punto di luce. Gli oggetti in forma di losanghe nella sezione mediana della cellula sono per lo più mitocondri. I mitocondri non si trovano solo nelle fotocellule, ma anche nella maggior parte delle altre cellule. Ciascuno di essi può essere concepito come uno stabilimento chimico che, nel corso della fabbricazione del suo prodotto primario di energia utilizzabile, lavora più di 700 sostanze chimiche diverse in lunghe linee di montaggio interconnesse, distribuite lungo la superficie delle sue membrane interne ripiegate in modi complessi. Il globulo di forma circolare alla sinistra della figura 1 in basso è il nucleo. Anche il nucleo è una struttura comune a tutte le cellule animali e vegetali. Ogni nucleo, come vedremo nel capitolo V, contiene una banca dati codificata in modo digitale e più vasta, come contenuto di informazione, dell’insieme di tutt’e trenta i volumi dell’Encyclopaedia Britannica. E questa cifra vale per ogni cellula, e non per l’insieme di tutte le cellule che compongono un corpo.

Il bastoncello nella parte bassa della figura è una singola cellula. Il numero totale di cellule del corpo (di un essere umano) è di circa 10 bilioni. Quando mangiamo una bistecca, mastichiamo l’equivalente di più di 100 miliardi di copie dell’Encyclopaedia Britannica.