II

Progetto razionale

La selezione naturale è l’orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine. Eppure i risultati viventi della selezione naturale ci danno un’impressione molto efficace dell’esistenza di un disegno intenzionale di un maestro orologiaio; che alla base della complessità della natura vivente ci sia un disegno intenzionale e un progetto è però solo un’illusione. L’obiettivo di questo libro è quello di risolvere questo paradosso con soddisfazione del lettore, e il fine di questo capitolo è quello di rendere il lettore ancora più consapevole dell’illusione del disegno. Considereremo un esempio particolare e concluderemo che, nel prospettare la complessità e la bellezza del disegno, Paley rimase molto lontano dal concepirle e presentarle in modo adeguato.

Possiamo dire che un corpo vivente o un organo è ben progettato se ha attributi che un ingegnere intelligente e competente avrebbe potuto dargli per conseguire un qualche fine ragionevole, come quelli di permettergli di volare, nuotare, vedere, mangiare, riprodursi o, più in generale, di promuovere la sopravvivenza e la replica dei geni dell’organismo. Non è necessario supporre che il progetto di un corpo o di un organo sia il migliore che un ingegnere potesse concepire. Spesso la cosa migliore che un ingegnere può fare è, in ogni caso, superata dalla cosa migliore che può fare un altro ingegnere, specialmente nel caso che il secondo viva in un periodo posteriore della storia della tecnologia. Ogni ingegnere è però in grado di riconoscere un oggetto che sia stato progettato, anche se in modo mediocre, in vista di un fine, e di solito è in grado di accertare quale sia tale fine semplicemente osservando la struttura dell’oggetto. Nel capitolo I ci siamo occupati per lo più di aspetti filosofici. In questo capitolo svilupperò un particolare esempio concreto che credo impressionerà qualsiasi ingegnere, ossia il sonar («radar») nei pipistrelli. Nello spiegare ciascun punto comincerò ponendo un problema che la macchina vivente deve fronteggiare; poi considererò le possibili soluzioni del problema che un ingegnere intelligente potrebbe considerare; e infine illustrerò la soluzione adottata in realtà dalla natura. Quest’unico caso preso in esame è ovviamente solo un esempio. Se un ingegnere rimane impressionato dai pipistrelli, resterà impressionato da innumerevoli altri esempi di progettazione negli esseri viventi.

I pipistrelli hanno un problema: come orientarsi al buio. Essi escono a caccia di notte e non possono usare la luce come aiuto per trovare le loro prede e per evitare ostacoli. Qualcuno potrebbe dire che, se questo è un problema, se lo sono creato loro, e che potrebbero evitarlo cambiando semplicemente le loro abitudini e andando a caccia di giorno. Ma le risorse delle ore di luce sono già massicciamente sfruttate da altre creature, come per esempio gli uccelli. Poiché di notte sono disponibili delle risorse, e poiché quelle diurne sono già monopolizzate da altri, la selezione naturale favorì quelli fra i pipistrelli che praticavano la caccia notturna. È ovviamente probabile che le attività notturne risalgano a un passato lontano, fino ai progenitori di tutti i mammiferi attuali. Quando i dinosauri dominavano l’economia diurna, i mammiferi nostri progenitori riuscirono probabilmente a sopravvivere solo perché trovarono modi per procurarsi di notte i loro mezzi di sostentamento. Solo dopo la misteriosa estinzione in massa dei dinosauri, circa 65 milioni di anni fa, i nostri antenati furono in grado di emergere in numero consistente alla luce del giorno.

Tornando ai pipistrelli, essi hanno un problema di ingegneria: come orientarsi e trovare le loro prede in assenza di luce. I pipistrelli non sono gli unici animali a dover fronteggiare queste difficoltà oggi. È chiaro che anche gli insetti notturni su cui essi esercitano la predazione devono trovare in qualche modo la loro via. I pesci e i cetacei che vivono negli abissi marini dispongono di poca o niente luce di giorno o di notte perché i raggi del sole non possono penetrare molto in profondità al di sotto della superficie. Pesci e delfini che vivono in acque estremamente fangose non possono vedere perché la luce, pur essendo presente, è intercettata e diffusa dalle particelle in sospensione nell’acqua. Molti altri animali moderni si procurano i mezzi di sostentamento in condizioni in cui la visione è difficile o impossibile.

Dato il problema di come manovrare al buio, quali soluzioni potrebbe considerare un ingegnere? La prima che potrebbe venirgli in mente è quella di produrre in qualche modo della luce, di usare una lanterna o un fascio di luce. Le lucciole e qualche pesce (di solito con l’aiuto di batteri) hanno il potere di prodursi da sé la luce di cui hanno bisogno, ma pare che questo processo consumi una grande quantità di energia. Le lucciole di sesso maschile usano la loro luce per attrarre le femmine. Quest’uso della luce non richiede una quantità di energia proibitiva: in una notte buia la luce di un maschio, non più grande della capocchia di uno spillo, può essere vista a distanza da una femmina, i cui occhi sono esposti direttamente alla sorgente di luce stessa. L’uso della luce per orientarsi nell’ambiente richiede invece un dispendio di energia molto più elevato, poiché gli occhi devono scoprire la minuscola frazione della luce che viene riflessa da ogni parte della scena. La sorgente di luce dev’essere perciò immensamente più luminosa per poter essere usata come un faro per illuminare la via che non per essere usata semplicemente come segnale per attrarre altri individui della stessa specie. In ogni caso, sia o no la ragione il dispendio di energia, pare che, con la possibile eccezione di qualche strano pesce degli abissi marini, nessun animale a parte l’uomo usi la luce per illuminare l’ambiente in cui si muove.

Che cos’altro potrebbe escogitare il nostro ipotetico ingegnere? A volte i ciechi sembrano avere uno strano senso degli ostacoli presenti sul loro cammino. Si è parlato in proposito di «visione facciale» perché dei ciechi hanno riferito che questa sensazione assomiglia un po’ a una sensazione tattile sulla faccia. Un autore ha riferito su un bambino totalmente cieco che riusciva ad andare a buona velocità col suo triciclo intorno al palazzo vicino alla sua casa, servendosi della «visione facciale». Degli esperimenti dimostrarono che, in realtà, la «visione facciale» non ha niente a che fare col tatto o con la parte frontale della faccia benché la sensazione possa essere riferita alla parte anteriore del viso, esattamente come una persona cui sia stata amputata una gamba può sentire dolore alla punta del piede. Pare che in realtà la sensazione della «visione facciale» venga ottenuta attraverso le orecchie. Le persone cieche, senza rendersene conto a livello cosciente, percepiscono la presenza di ostacoli per mezzo di echi, dei loro passi o di altri suoni. Prima che venisse compiuta questa scoperta, degli ingegneri avevano già costruito degli strumenti per sfruttare questo principio, per esempio per misurare la profondità del mare sotto una nave. Dopo l’invenzione di questa tecnologia, fu solo questione di tempo prima che i progettisti di armi la adattassero al problema del rilevamento di sottomarini. Nel corso della Seconda guerra mondiale entrambe le parti fecero un uso massiccio di questi dispositivi di rilevamento sotto nomi in codice come ASDIC (Gran Bretagna) e sonar (Stati Uniti), oltre che della tecnologia simile del radar (Stati Uniti) o dell’RDF (Gran Bretagna), che usano echi radio anziché echi acustici.

Benché i pionieri del Sonar e del Radar non se ne rendessero allora conto, oggi tutti sanno che i pipistrelli, o piuttosto la selezione naturale lavorando sui pipistrelli, avevano perfezionato il sistema decine di milioni di anni prima e che il loro radar ottiene risultati di rilevamento e di navigazione che riempirebbero di ammirazione un ingegnere. È tecnicamente scorretto parlare di «radar» dei pipistrelli, dato che essi non usano onde radio. Si tratta invece di un sonar. Ma le teorie matematiche che sono alla base del radar e del sonar sono molto simili, e gran parte della nostra comprensione scientifica dei particolari di che cosa fanno i pipistrelli deriva dall’applicazione al loro comportamento della teoria del radar. Lo zoologo americano Donald Griffin, al quale si deve in gran parte la scoperta del sonar nei pipistrelli, coniò il termine di «ecolocazione» per designare tanto il sonar quanto il radar, usati tanto da animali quanto da strumenti umani. In pratica pare che la parola venga usata soprattutto in riferimento al sonar animale.

È sbagliato parlare dei pipistrelli come se fossero tutti uguali. È come se facessimo tutt’un fascio di cani, leoni, donnole, orsi, iene, panda e lontre, solo perché sono tutti carnivori. Vari gruppi di pipistrelli usano il sonar in modi radicalmente diversi, e sembrano averlo inventato separatamente e in modo autonomo, esattamente come britannici, tedeschi e americani svilupparono tutti indipendentemente il radar. Non tutti i pipistrelli usano l’ecolocazione. I pipistrelli frugivori tropicali del Vecchio Mondo hanno una buona vista, e la maggior parte di essi usano per orientarsi solo gli occhi. Una o due specie di pipistrelli frugivori, però, per esempio le rossette (Rousettus), sono capaci di volare in un’oscurità totale, in cui gli occhi, per quanto buoni, non devono essere in grado di vedere. Usano il sonar, ma è un tipo di sonar più rozzo di quello usato dai pipistrelli più piccoli che ci sono familiari nelle regioni temperate. La rossetta fa schioccare ritmicamente la lingua mentre vola, producendo un forte clic, e naviga misurando l’intervallo di tempo che intercorre fra ogni clic e l’eco di ritorno. Buona parte dei clic della rossetta sono chiaramente percepibili anche da noi: si tratta dunque, per definizione, di suoni e non di ultrasuoni (gli ultrasuoni sono semplicemente suoni troppo alti per essere percepibili dall’orecchio umano).

In teoria, quanto più alto è il tono di un suono, tanto maggiore è la sua precisione ai fini del rilevamento di un oggetto. Ciò dipende dal fatto che i suoni più bassi hanno una lunghezza d’onda maggiore, la quale non consente di risolvere la differenza fra oggetti vicini fra loro. A parità di tutto il resto, quindi, un missile che usasse l’ecolocazione come sistema di guida dovrebbe produrre idealmente suoni molto alti. La maggior parte dei pipistrelli usano in effetti suoni estremamente alti, troppo alti perché gli esseri umani possano percepirli: ultrasuoni. A differenza della rossetta, che ha una vista eccellente e che usa suoni relativamente bassi non modulati per integrare la sua buona vista con una modesta attività di ecolocazione, i pipistrelli più piccoli sembrano essere macchine per l’ecolocazione molto avanzate. Essi hanno occhi minuscoli che, nella maggior parte dei casi, probabilmente non vedono molto bene. Vivono in un mondo di echi, e il loro cervello è presumibilmente in grado di usare tali echi per conseguire qualcosa di affine alla «visione» di immagini, anche se per noi è quasi impossibile «visualizzare» come potrebbero essere tali immagini. I rumori da loro prodotti non sono solo leggermente troppo alti per poter essere uditi da noi, come una sorta di superfischietto per cani, ma in molti casi sono molto più alti della nota più alta che chiunque abbia udito o che possa immaginare. Per inciso, è una fortuna che non possiamo udirli, poiché sono immensamente potenti e ci assordirebbero, oltre a renderci impossibile il sonno.

Questi pipistrelli sono come aerei spia in miniatura, irti di strumenti raffinatissimi. Il loro cervello è un complesso delicatamente sintonizzato di elettronica miniaturizzata, programmato col software necessario per decodificare un mondo di echi in tempo reale. Il loro muso assume spesso forme mostruose, simili ai mostri rappresentati nei doccioni di cattedrali gotiche, le quali ci appaiono orrende finché non le vediamo per ciò che realmente sono, ossia strumenti foggiati con estrema precisione per inviare ultrasuoni nelle direzioni desiderate.

Anche se non riusciamo a udire direttamente gli impulsi a ultrasuoni di questi pipistrelli, possiamo farci un’idea di quel che sta accadendo per mezzo di una macchina traduttrice o «rivelatore di pipistrelli», un bat-detector. Questa macchina riceve gli impulsi attraverso uno speciale microfono per ultrasuoni e traduce ciascun impulso in un clic udibile, ossia in un suono che possiamo udire attraverso cuffie acustiche. Se portiamo un tale rivelatore di pipistrelli in una radura su cui svolazzano pipistrelli in cerca di cibo, udiremo quando ogni impulso viene emesso, anche se non potremo farci un’idea precisa di quale sia il «suono» reale di tali impulsi. Se il nostro pipistrello è un Myotis, uno dei piccoli pipistrelli bruni comuni, mentre svolazza in una missione di routine udremo un susseguirsi di clic con la frequenza di una decina al secondo. Questo è press’a poco il ritmo di funzionamento di una telescrivente standard, o di un mitragliatore Bren.

È presumibile che l’immagine che il pipistrello ha del mondo in cui si muove venga aggiornata dieci volte al secondo. La nostra immagine visiva pare venga aggiornata in modo continuo finché teniamo aperti gli occhi. Possiamo farci un’idea di cosa voglia dire avere un’immagine del mondo aggiornata a intermittenza, come quella dei pipistrelli, usando uno stroboscopio di notte. Qualcosa del genere si fa talvolta nelle discoteche, e gli effetti che si ottengono sono molto vistosi. Una persona che balla ci appare come una successione di pose statuarie irrigidite. È chiaro che, quanto maggiore è la velocità che conferiamo allo stroboscopio, tanto più l’immagine corrisponderà alla visione normale «continua». Una visione stroboscopica a circa dieci immagini al secondo, ossia a un ritmo corrispondente a quello dell’attività di ecolocazione del pipistrello in volo, sarebbe quasi altrettanto buona della visione normale «continua» ai fini delle nostre normali esigenze quotidiane, anche se non al fine di prendere al volo una palla o un insetto.

Questa è esattamente la frequenza dei rilevamenti di un pipistrello mentre svolazza di notte a caccia di insetti. Quando un piccolo pipistrello Myotis rileva la presenza di un insetto e comincia a muoversi su una rotta di intercettazione, la frequenza dei suoi clic aumenta. Più rapida di una mitragliatrice, può raggiungere frequenze massime di 200 impulsi al secondo quando infine il pipistrello si avvicina al suo bersaglio mobile. Per simulare questa situazione, noi dovremmo accelerare il nostro stroboscopio al punto che i suoi lampi abbiano una rapidità doppia di quella dei cicli dell’elettricità domestica, cicli che non percepiamo in una lampada al neon. È chiaro che noi non avremmo alcuna difficoltà a eseguire tutte le nostre normali funzioni visive, nemmeno a giocare a tennis o a ping-pong, in un mondo visuale in cui la luce «pulsasse» con una frequenza così elevata. Se possiamo immaginare che il cervello del pipistrello costruisce un’immagine del mondo analoga alle nostre immagini visive, la frequenza degli impulsi da sola sembra suggerire che l’immagine che il pipistrello si forma dell’ambiente col suo sistema di ecolocazione possa essere dettagliata e continua almeno quanto la nostra immagine visiva. Ovviamente possono esserci altre ragioni per le quali essa potrebbe non essere così dettagliata come la nostra immagine visiva.

Se i pipistrelli sono in grado di accelerare la frequenza dei loro clic ultrasonici fino a 200 impulsi al secondo, perché non mantengono questa frequenza per tutto il tempo? Visto che posseggono a quanto pare una «manopola» per il controllo del loro «stroboscopio», perché non lo tengono in permanenza al massimo, col vantaggio di avere di continuo una percezione molto fine del mondo, e di essere quindi in grado di far fronte a qualsiasi emergenza? Una ragione consiste nel fatto che queste frequenze elevate sono adatte solo per bersagli vicini. Se un impulso segue a un intervallo di tempo troppo ravvicinato all’impulso precedente, si confonde con la sua eco riflessa da un bersaglio lontano. Ma anche se così non fosse, ci sarebbero probabilmente buone ragioni economiche per non mantenere per tutto il tempo la frequenza di impulsi massima. Produrre impulsi a ultrasuoni molto forti dev’essere costoso, in termini di energia, di usura della voce e delle orecchie, e forse anche in «tempo di computer». Un cervello impegnato a elaborare 200 echi distinti al secondo potrebbe non trovare quella capacità in eccedenza che si richiede per pensare a qualcos’altro. Persino il ritmo minimo di circa dieci impulsi al secondo dev’essere piuttosto costoso, ma lo è certamente molto meno della frequenza massima di 200 al secondo. Un singolo pipistrello che accelerasse la frequenza dei suoi impulsi dovrebbe pagare un prezzo aggiuntivo di energia ecc., che non sarebbe giustificato dall’accresciuto potere risolutivo del suo sonar. Quando l’unico oggetto in movimento nell’ambiente immediato è il pipistrello stesso, il mondo apparente è abbastanza simile in decimi di secondo successivi da non richiedere una maggiore frequenza di rilevamento. Quando però nell’ambiente immediato c’è un altro oggetto in movimento, in particolare un insetto in volo che cambia frequentemente direzione, scendendo a volte anche in picchiata verso il suolo in un disperato tentativo di liberarsi del suo inseguitore, il beneficio extra che il pipistrello ottiene intensificando la frequenza degli impulsi giustifica ampiamente il costo accresciuto. Ovviamente le considerazioni di costi e benefici in questo paragrafo sono del tutto congetturali ma devono quasi certamente corrispondere in qualche misura alla realtà.

L’ingegnere che si accinge a progettare un apparecchio sonar o radar efficiente viene a trovarsi ben presto di fronte a un problema, connesso al bisogno di rendere gli impulsi estremamente forti. Questi devono essere forti perché, quando viene emesso un suono, il suo fronte d’onda avanza come una sfera che si espande di continuo. L’intensità del suono si distribuisce e, in un certo senso, si «diluisce» sull’intera superficie della sfera. La superficie di qualsiasi sfera è proporzionale al quadrato del raggio. Man mano che il fronte d’onda avanza e la sfera si espande, l’intensità del suono in ogni punto particolare della sfera diminuisce perciò non in proporzione alla distanza (al raggio) bensì al quadrato della distanza dalla sorgente del suono. Ciò significa che l’intensità del suono diminuisce abbastanza rapidamente man mano che esso si allontana dalla sua sorgente, ossia in questo caso dal pipistrello.

Quando questo suono diluito colpisce un oggetto, per esempio un insetto in volo, ne viene riflesso. Il suono riflesso si irraggia a sua volta a partire dall’insetto in un fronte d’onda sferico in espansione. Per la stessa ragione che abbiamo visto per l’impulso sonoro originario, anche questo suono si indebolisce in proporzione al quadrato della distanza dalla sua sorgente, ossia dall’insetto. Quando l’eco perviene al pipistrello, la diminuzione della sua intensità è proporzionale non alla distanza dell’insetto dal pipistrello, e neppure al quadrato della distanza, ma a qualcosa di più del quadrato del quadrato – ossia della quarta potenza – della distanza. Ciò significa che esso è ora molto debole. Il problema potrebbe essere in parte risolto nel caso che il pipistrello riuscisse a dirigere il suono per mezzo dell’equivalente di un megafono, cosa che è possibile però solo se esso conosce già la direzione del bersaglio. In ogni caso, se il pipistrello deve ricevere un’eco ragionevole da un bersaglio lontano, lo stridio che esso emette dev’essere molto forte, e lo strumento che ne percepisce l’eco, ossia l’orecchio, molto sensibile a suoni molto deboli, gli echi. Le grida dei pipistrelli, come ho detto, sono in effetti assai forti, e le loro orecchie sensibilissime.

Ora, ecco il problema che dovrebbe essere risolto dall’ingegnere che cercasse di progettare una macchina simile al pipistrello. Se il microfono, o orecchio, è molto sensibile, rischia di essere gravemente danneggiato dagli impulsi sonori emessi dal pipistrello stesso, che sono fortissimi. Non è una buona soluzione tentare di risolvere questo problema riducendo la forza dei suoni, poiché in questo caso gli echi risulterebbero troppo deboli per poter essere percepiti. E neppure sarebbe una buona soluzione se tentassimo di risolvere questo secondo problema rendendo più sensibile il microfono (l’«orecchio»); in questo caso, infatti, otterremmo solo il risultato di renderlo più vulnerabile a danni da parte dei suoni, anche se ora leggermente più deboli, prodotti dal pipistrello! Questo dilemma è connesso intrinsecamente alla forte differenza di intensità fra i suoni in uscita e l’eco di ritorno, una differenza che è imposta inesorabilmente dalle leggi della fisica.

Quale altra soluzione potrebbe escogitare l’ingegnere? Quando un problema analogo si pose ai progettisti dei radar nella Seconda guerra mondiale, essi trovarono una soluzione adeguata in un dispositivo di commutazione. I segnali radar venivano emessi in impulsi necessariamente molto potenti che avrebbero potuto danneggiare le antenne molto sensibili in attesa dei deboli echi di ritorno. Il dispositivo di commutazione staccava temporaneamente il ricevitore dell’antenna subito prima della trasmissione dell’impulso, dopo di che staccava il trasmettitore sino all’emissione dell’impulso successivo, attivando di nuovo l’antenna in tempo per ricevere l’eco.

I pipistrelli svilupparono la tecnologia della commutazione trasmissione-ricezione molto tempo fa, probabilmente milioni di anni prima che i nostri progenitori scendessero dagli alberi. Il loro dispositivo di commutazione funziona nel modo seguente. Nelle orecchie dei pipistrelli, come nelle nostre, il suono viene trasmesso dal timpano alle cellule microfoniche, sensibili al suono, per mezzo di un ponte formato da tre ossicini noti come il martello, l’incudine e la staffa. La disposizione e articolazione di questi tre ossicini, per inciso, è esattamente come avrebbe potuto essere progettata da un ingegnere dell’alta fedeltà per assolvere una funzione di «adattamento di impedenza», ma questa è un’altra storia. Quel che ci interessa qui è che alcuni pipistrelli hanno muscoli ben sviluppati inseriti sulla staffa e sul martello. Quando questi muscoli vengono contratti, le ossa non trasmettono più il suono in modo efficiente, un po’ come se neutralizzassimo un microfono premendo il pollice contro il suo diaframma per impedirgli di vibrare. Il pipistrello è capace di usare questi muscoli per sconnettere temporaneamente le sue orecchie. I muscoli si contraggono subito prima dell’emissione di ogni impulso, preservando in tal modo le orecchie da ogni danno, dopo di che tornano a rilassarsi, consentendo all’orecchio di tornare alla sua sensibilità massima giusto in tempo per ricevere l’eco di ritorno. Questo sistema di commutazione fra la trasmissione e la ricezione funziona solo se si mantiene una precisione rigorosissima nei tempi anche in frazioni di secondo molto piccole. I pipistrelli del genere Tadarida sono capaci di contrarre e rilassare alternativamente i muscoli del loro sistema di commutazione 50 volte al secondo, mantenendosi in perfetta sincronia col crepitio degli impulsi di ultrasuoni. Questa è una prestazione notevolissima, paragonabile a un dispositivo usato in alcuni aerei da caccia durante la Prima guerra mondiale. Le loro mitragliatrici sparavano «attraverso» l’elica grazie a una perfetta sincronizzazione con la rotazione dell’elica stessa, così che le pallottole riuscivano sempre a passare fra le pale in movimento senza mai colpirle.

Il problema successivo che potrebbe presentarsi ai nostri ingegneri è questo: se il dispositivo sonar determina la distanza dei bersagli misurando la durata del silenzio fra l’emissione di un suono e la sua eco di ritorno (è questo il metodo che sembrano usare, in effetti, le rossette) i suoni dovrebbero essere a impulsi molto brevi, discontinui. Un suono di lunga durata sarebbe infatti ancora in corso al ritorno dell’eco e, anche se parzialmente smorzato dai muscoli del sistema di commutazione, ostacolerebbe il rilevamento dell’eco stessa. Idealmente, a quanto pare, gli impulsi emessi dai pipistrelli dovrebbero essere quindi effettivamente molto brevi. Ma quanto più un suono è breve, tanto più difficile è renderlo abbastanza energico per produrre un’eco soddisfacente. Eccoci dunque, a quanto pare, di fronte alla necessità di un altro compromesso con le leggi della fisica. Agli ingegneri potrebbero venire in mente due soluzioni, e ciò fu in realtà quanto avvenne quando si trovarono a dover affrontare lo stesso problema, ancora una volta nel caso analogo del radar. Delle due soluzioni può essere preferibile l’una o l’altra a seconda che sia più importante misurare la distanza dell’oggetto dallo strumento o la sua velocità relativamente allo strumento. La prima soluzione è quella nota ai tecnici dei radar come radar chirp, o «radar a modulazione di frequenza».

Possiamo pensare i segnali radar come una serie di impulsi, ma ciascun impulso ha una cosiddetta frequenza portante. Questa è analoga all’«altezza» di un impulso di suoni o ultrasuoni. Le grida dei pipistrelli, come abbiamo visto, hanno un ritmo di ripetizione di impulsi a decine o centinaia al secondo. Ognuno di tali impulsi ha una frequenza portante da decine di migliaia a centinaia di migliaia di cicli al secondo. Ogni impulso, in altri termini, è uno strido molto alto. Similmente, ogni impulso del radar è uno «strido» di onde radio, con un’elevata frequenza portante. Il carattere speciale del radar a modulazione di frequenza è che non ha una frequenza portante fissa durante ogni strido, ma tale frequenza oscilla su o giù di un’ottava circa. Se si pensa a questi impulsi come a equivalenti di suoni, ogni emissione radar può essere concepita come l’urlo di un lupo. Il vantaggio del radar a modulazione di frequenza, in contrapposizione al radar a impulsi di altezza fisica, è il seguente: quando l’eco ritorna, non importa se la sorgente stia emettendo il suono, giacché il suono emesso e quello ricevuto non possono essere confusi fra loro. Ciò dipende dal fatto che l’eco ricevuta in ogni momento dato sarà un riflesso di una parte precedente del suono emesso, e avrà perciò un’altezza diversa.

I progettisti umani di radar hanno fatto buon uso di questa tecnica ingegnosa. C’è qualche prova del fatto che i pipistrelli abbiano «scoperto» anche questa tecnica, oltre al sistema di commutazione fra trasmissione e ricezione? In effetti numerose specie di pipistrelli producono grida la cui altezza va diminuendo, di solito di un’ottava circa, nel corso della loro emissione. Queste grida, paragonabili all’ululato dei lupi, sono note come modulate in frequenza (FM). Pare che esse siano esattamente quel che si richiede per sfruttare la tecnica del radar chirp. Le prove finora raccolte suggeriscono però che i pipistrelli usino questa tecnica non per distinguere un’eco dal suono originale che l’ha prodotta, ma per il compito più sottile di distinguere degli echi da altri echi. Un pipistrello vive in un mondo di echi provenienti da oggetti vicini, da oggetti lontani e da oggetti a tutte le distanze intermedie. Esso deve distinguere questi echi l’uno dall’altro. Se emette grida di altezza calante, come gli ululati dei lupi, sarà in grado di distinguere con precisione fra i vari echi in base all’altezza. Quando un’eco proveniente da un oggetto lontano arriva infine di ritorno al pipistrello, sarà un’eco «più vecchia» di quella che gli arriva simultaneamente da un oggetto vicino. Essa avrà perciò un’altezza maggiore. Quando il pipistrello si trova di fronte a echi rimandati da vari oggetti, può applicare una semplice regola empirica: altezza maggiore significa maggiore distanza.

La seconda idea brillante che potrebbe venire a un ingegnere, specialmente se è interessato a misurare la velocità di un bersaglio in movimento, è quella di sfruttare quello che i fisici chiamano l’effetto Doppler. Lo si potrebbe chiamare anche «effetto ambulanza» perché la sua manifestazione più familiare consiste nel calo improvviso in altezza del suono della sirena di un’ambulanza dopo il suo passaggio in prossimità dell’ascoltatore. L’effetto Doppler si verifica ogni volta che una sorgente di suono (o di luce o di qualsiasi altro tipo di onda) e un ricevitore di tale suono sono in movimento l’uno relativamente all’altro. È più facile pensare che la sorgente del suono sia immobile e l’ascoltatore in movimento. Supponiamo che la sirena sul tetto di una fabbrica emetta un suono continuo, tutto della stessa altezza. Il suono viene emesso verso l’esterno sotto forma di una serie di onde. Queste non sono visibili, essendo onde di pressione nell’aria. Se potessero essere viste assomiglierebbero ai cerchi concentrici che si diffondono verso l’esterno quando gettiamo sassi nell’acqua tranquilla di uno stagno. Immaginiamo che una serie di sassi vengano lasciati cadere in rapida successione nel mezzo di uno stagno, così che dal suo centro si irraggino di continuo delle onde. Se ormeggiamo in qualche punto fisso dello stagno una nave giocattolo, questa oscillerà su e giù ritmicamente al passaggio delle onde sotto di essa. La frequenza con cui la nave oscilla è analoga all’altezza di un suono. Supponiamo ora che la nave, anziché essere all’attracco, sia in movimento attraverso lo stagno, e si diriga verso il centro da cui hanno origine i cerchi delle onde. Incontrando i successivi fronti d’onda, la nave continuerà a oscillare su e giù, ma la frequenza con cui incontra le onde è ora più elevata poiché essa è in movimento verso il luogo d’origine delle onde stesse. Essa oscillerà perciò su e giù con una frequenza maggiore. D’altra parte, una volta che abbia superato la sorgente delle onde e se ne stia allontanando diretta verso la riva opposta dello stagno, la frequenza con cui oscilla su e giù sotto l’effetto delle onde sarà ovviamente minore.

Per la stessa ragione, se passiamo a tutta velocità con un ciclomotore (preferibilmente non rumoroso) vicino a una fabbrica in cui sta suonando una sirena, mentre ci avviciniamo il suono della sirena risulterà più alto: le nostre orecchie stanno in effetti ricevendo le onde con una frequenza maggiore che se fossimo fermi. Per la stessa ragione, una volta che abbiamo superato la fabbrica e stiamo allontanandocene, l’altezza del suono calerà. Se ci fermiamo, sentiremo il tono della sirena com’è realmente, intermedio fra le due altezze determinate dall’effetto Doppler. Ne segue che, conoscendo esattamente l’altezza del suono della sirena, è teoricamente possibile calcolare con quanta velocità stiamo avvicinandoci alla sorgente del suono o ce ne stiamo allontanando: è sufficiente a tal fine ascoltare il tono apparente e confrontarlo con l’altezza «vera» del suono che conosciamo.

Vale lo stesso principio se a muoversi è la sorgente del suono mentre l’ascoltatore è immobile. Ecco perché questo effetto trova applicazione nel caso delle ambulanze. È poco plausibile il racconto che lo stesso Christian Doppler abbia dato una dimostrazione dell’effetto che porta il suo nome facendo passare a tutta velocità accanto a un pubblico affascinato un carro ferroviario aperto su cui suonava una banda di ottoni ingaggiata per l’occasione. Quel che importa è il movimento relativo, e per quanto concerne l’effetto Doppler non ha alcuna importanza se si consideri in movimento la sorgente del suono rispetto all’orecchio o l’orecchio rispetto alla sorgente del suono. Se due treni passano l’uno accanto all’altro in direzioni opposte, ciascuno viaggiando alla velocità di 200 chilometri all’ora, un passeggero su un treno sentirà il fischio dell’altro treno presentare un effetto Doppler molto marcato, giacché la velocità relativa è di 400 chilometri l’ora.

L’effetto Doppler è usato dai dispositivi radar della polizia per il controllo della velocità degli automobilisti. Uno strumento immobile invia segnali radar su una strada. Le onde radar vengono riflesse dalle automobili in avvicinamento e registrate dal ricevitore. Quanto maggiore è la velocità di una macchina, tanto maggiore è il mutamento Doppler della frequenza. Confrontando la frequenza emessa con la frequenza dell’eco di ritorno, la polizia, o piuttosto la sua apparecchiatura automatica, è in grado di calcolare la velocità di ogni autovettura. Se la polizia può usare questa tecnica per misurare la velocità degli automobilisti indisciplinati, non può darsi che i pipistrelli la usino per misurare la velocità degli insetti di cui si nutrono?

La risposta è: sì. È noto da molto tempo che i piccoli pipistrelli noti come «ferri di cavallo» emettono lunghe grida di altezza fissa piuttosto che brevi clic discontinui o urla discendenti come l’ululato dei lupi. Quando dico lunghe, intendo questa parola relativamente ai criteri consueti dei pipistrelli. Le «grida» durano infatti ancor meno di un decimo di secondo. E spesso alla fine di ciascun grido è unita, come vedremo, una sorta di ululato di tono discendente. Immaginiamo, dapprima, un pipistrello ferro di cavallo che, mentre si dirige in volo verso un oggetto immobile, come un albero, emetta un ronzio continuo di ultrasuoni. In conseguenza del movimento del pipistrello verso l’albero, i fronti d’onda colpiranno l’albero con una frequenza accelerata. Se sull’albero fosse collocato un microfono, esso «udrebbe» il suono, a causa del movimento del pipistrello, con uno spostamento del tono verso l’alto. Sull’albero non c’è alcun microfono, ma l’eco riflessa dall’albero presenterà lo stesso spostamento del tono verso l’alto. Ora, mentre i fronti d’onda ritornano dall’albero verso il pipistrello in avvicinamento, questo sta ancora muovendosi rapidamente verso di essi. Perciò si ha un ulteriore mutamento Doppler nella percezione che il pipistrello ha dell’altezza dei suoni. Il movimento del pipistrello ha quindi come conseguenza una sorta di effetto Doppler raddoppiato, la cui grandezza è una precisa indicazione della velocità del pipistrello relativamente all’albero. Confrontando l’altezza del suo grido con quella dell’eco, il pipistrello (o piuttosto il computer incorporato nel suo cervello) potrebbe quindi, in teoria, calcolare la velocità con cui esso sta muovendosi verso l’albero. Ciò non direbbe al pipistrello a quale distanza si trovi dall’albero, ma potrebbe essere comunque un’informazione ancora molto utile.

Se l’oggetto che riflette gli echi non fosse un albero immobile, bensì un insetto in movimento, le conseguenze dell’effetto Doppler sarebbero più complicate, ma il pipistrello potrebbe ancora calcolare la velocità del moto relativo fra se stesso e il suo bersaglio, che è chiaramente proprio il tipo di informazione di cui ha bisogno un pipistrello a caccia di insetti, esattamente come un perfezionatissimo missile teleguidato. In realtà alcuni pipistrelli mettono in atto un espediente che è più interessante della semplice emissione di grida di altezza costante e della misurazione dell’altezza degli echi di ritorno. Essi regolano con grande cura l’altezza delle grida emesse in modo da mantenere costante l’altezza dell’eco una volta che essa abbia subito il mutamento Doppler dell’altezza. Mentre il pipistrello si muove velocemente verso un insetto in volo, l’altezza delle sue grida muta costantemente, nella ricerca continua dell’altezza giusta per mantenere gli echi di ritorno a un’altezza fissa. Questo ingegnoso espediente mantiene l’eco all’altezza a cui le orecchie del pipistrello sono soprattutto sensibili, cosa importante dato che gli echi sono così deboli. Esso può quindi ottenere l’informazione necessaria per i suoi calcoli dell’effetto Doppler controllando l’altezza dei suoni che deve emettere per conseguire l’eco ad altezza fissa. Io non so se dispositivi costruiti dall’uomo, sonar o radar, usino questo sottile espediente. Ma se teniamo presente il principio che la maggior parte delle idee più ingegnose in questo campo sembrano essere state sviluppate dai pipistrelli prima che dall’uomo, non mi preoccuperei molto di sapere se la risposta sia o no positiva.

È ragionevole attendersi che queste due tecniche piuttosto diverse, la tecnica del mutamento dell’altezza dei suoni utilizzando l’effetto Doppler e la tecnica del radar a modulazione di frequenza, siano utili a fini speciali diversi. Alcuni gruppi di pipistrelli si specializzano in una di queste due tecniche, altri nell’altra. Pare che alcuni gruppi tentino di ottenere il meglio da entrambe, attaccando un «ululato» in modulazione di frequenza alla fine (o a volte al principio) di un lungo «grido» di frequenza costante. Un altro espediente curioso usato dai pipistrelli ferri di cavallo concerne i movimenti della membrana del loro orecchio. A differenza di altri pipistrelli, i ferri di cavallo hanno la capacità di «battere» rapidamente avanti e indietro, a mo’ di ali, il loro padiglione auricolare. È concepibile che questo ulteriore rapido movimento della superficie di ascolto rispetto al bersaglio causi utili modulazioni nell’altezza dei suoni ricevuti, modulazioni che forniscono un’informazione aggiuntiva. Quando il padiglione si muove in avanti, la velocità apparente del movimento verso il bersaglio ne risulta accresciuta. Quando il movimento dell’orecchio è in direzione opposta al bersaglio, accade l’inverso. Il cervello del pipistrello «conosce» la direzione del «battito» di ciascun orecchio, e in linea di principio potrebbe eseguire i calcoli necessari per sfruttare l’informazione.

Il problema più difficile cui i pipistrelli devono far fronte è forse quello del disturbo dei propri segnali per opera delle grida di altri pipistrelli. Gli sperimentatori umani hanno trovato estremamente difficile ingannare i pipistrelli trasmettendo verso di essi ultrasuoni artificiali ad alta intensità. Ragionando a posteriori, lo si sarebbe potuto prevedere. I pipistrelli devono avere affrontato il problema di come evitare questo tipo di disturbo molto tempo fa. Molte specie di pipistrelli riposano in numero grandissimo in caverne che devono essere una babele assordante di ultrasuoni e di echi; eppure i pipistrelli riescono ancora a volare rapidamente all’interno della caverna, evitando le pareti e gli altri pipistrelli in volo nel buio più totale. In che modo un pipistrello tiene conto dei suoi echi ed evita di essere sviato dagli echi degli altri? La prima soluzione che potrebbe venire in mente a un ingegnere sarebbe quella di una qualche sorta di codificazione della frequenza: ogni pipistrello deve avere una propria frequenza privata, esattamente come le stazioni radio distinte. In qualche misura è senza dubbio così, ma questo non è sicuramente tutto.

In che modo i pipistrelli evitino di essere disturbati dai segnali e dagli echi di altri pipistrelli non è del tutto certo, ma un indizio interessante è stato fornito dagli esperimenti con i quali si è tentato di ingannarli. È risultato che si possono imbrogliare efficacemente alcuni pipistrelli rimandandogli le loro grida con un ritardo artificiale. Se gli si trasmettono, in altri termini, falsi echi delle loro grida. È possibile persino, controllando con cura le apparecchiature che ritardano la falsa eco, indurre i pipistrelli a tentare di posarsi su sporgenze «fantasma». Io penso che questo fatto sia, per i pipistrelli, l’equivalente di guardare il mondo attraverso una lente.

Può darsi che i pipistrelli usino un espediente che potremmo chiamare un «filtro di stranezza». Ogni eco successiva delle grida del pipistrello produce un’immagine del mondo che ha senso in funzione della precedente immagine del mondo, costruita con echi anteriori. Se il cervello di un pipistrello ode un’eco del grido di un altro pipistrello e tenta di includerlo nell’immagine del mondo che si è costruita in precedenza, questa operazione non darà alcun senso. Sarebbe come se gli oggetti nel mondo fossero saltati improvvisamente a caso in varie direzioni. Gli oggetti del mondo reale non si comportano in un modo così folle, cosicché il cervello può escludere tranquillamente l’eco apparente come un semplice rumore di fondo privo di significato. Se uno sperimentatore umano fornisce a un pipistrello «echi» artificialmente ritardati o accelerati di proprie grida, i falsi echi avranno senso nei termini dell’immagine del mondo che il pipistrello si è costruito in precedenza. I falsi echi vengono accettati dal filtro di stranezza perché sono plausibili nel contesto degli echi precedenti. Essi fanno sembrare gli oggetti spostati solo di poco nella loro posizione, un comportamento che è conforme a quanto ci si può plausibilmente attendere dagli oggetti nel mondo reale. Il cervello del pipistrello si fonda sull’assunto che il mondo, quale viene presentato da un qualsiasi impulso riflesso, sarà o uguale a quello che è stato presentato da impulsi precedenti o solo di poco diverso: l’insetto che viene inseguito, per esempio, non può essersi spostato di molto.

C’è un articolo ben noto del filosofo Thomas Nagel intitolato Che effetto fa essere un pipistrello? L’articolo non è tanto sui pipistrelli quanto sul problema filosofico di immaginare che cosa significhi essere qualcosa che non siamo. La ragione, però, per cui un pipistrello è un esempio particolarmente eloquente per un filosofo è che si presume che le esperienze di un animale che usa l’ecolocazione siano peculiarmente estranee e diverse rispetto alle nostre. Se volessimo farci un’idea dell’esperienza di un pipistrello, sarebbe quasi certamente un errore grossolano entrare in una caverna, gridare o battere assieme due cucchiai, ritardare coscientemente il tempo in cui udremmo l’eco e calcolare in base a tale tempo quanto debba essere lontana la parete della caverna.

Quest’esperienza non ci direbbe che effetto faccia essere un pipistrello più di quanto il procedimento illustrato qui di seguito ci dia una buona idea di che cosa voglia dire vedere il colore: usiamo uno strumento per misurare la lunghezza d’onda della luce che entra nel nostro occhio: se la lunghezza d’onda è grande si vede il rosso, se è piccola si vede il violetto o il blu. È un fatto fisico che la luce che chiamiamo rossa ha una lunghezza d’onda maggiore della luce che chiamiamo blu. Le fotocellule sensibili al rosso e le fotocellule sensibili al blu nella nostra retina sono attivate da lunghezze d’onda diverse. Nella nostra sensazione soggettiva dei colori non c’è però alcuna traccia del concetto di lunghezza d’onda. Nulla in ciò «che vuol dire» vedere il blu o il rosso ci dice quale luce, se la rossa o la blu, abbia la lunghezza d’onda maggiore. Se la cosa è importante per noi (di solito non lo è), non abbiamo da far altro che ricordarla o (cosa che io faccio sempre) cercarla in un libro. Similmente, un pipistrello percepisce la posizione di un insetto usando quelli che noi chiamiamo echi. Ma il pipistrello non pensa sicuramente in termini di echi quando percepisce un insetto, non più di quanto noi pensiamo in termini di lunghezze d’onda quando percepiamo il blu o il rosso.

In effetti, se io fossi costretto a tentare l’impossibile, a immaginare che effetto faccia essere un pipistrello, farei la congettura che, per i pipistrelli, l’ecolocazione possa essere come la vista per noi. Noi siamo animali così radicalmente visivi che non riusciamo a renderci conto con facilità di quanto sia complicata la visione. Gli oggetti sono nell’ambiente esterno e noi pensiamo di «vederli» là fuori di noi. Io sospetto però che in realtà ciò che noi percepiamo sia un complesso modello computerizzato presente nel nostro cervello, costruito sulla base dell’informazione che ci viene dall’esterno, ma trasformato nella nostra testa in una forma in cui tale informazione possa essere usata. Le differenze di lunghezza d’onda della luce esterna vengono codificate nel modello computerizzato nella testa come differenza di «colore». La figura e altri attributi sono codificati in modo simile, in una forma che sia facile da manipolare. La sensazione di vedere è, per noi, molto diversa dalla sensazione di udire, ma questa differenza non può essere dovuta direttamente alle differenze fisiche fra luce e suono. Tanto la luce quanto il suono sono, dopo tutto, tradotti dai rispettivi organi di senso nello stesso tipo di impulsi nervosi. È impossibile dire, sulla base degli attributi fisici di un impulso nervoso, se esso trasmetta informazioni sulla luce, sul suono o sugli odori. La ragione per cui la sensazione di vedere è così diversa dalla sensazione di udire e dalla sensazione di odorare consiste nel fatto che il cervello trova conveniente usare tipi diversi di modello interno del mondo visivo, del mondo uditivo e del mondo olfattivo. Le nostre sensazioni di vedere e di udire sono così diverse perché noi internamente usiamo la nostra informazione visiva e la nostra informazione uditiva in modi diversi e a fini diversi, e non direttamente a causa delle differenze fisiche fra luce e suono.

Ma un pipistrello usa la sua informazione uditiva per uno scopo molto simile a quello per cui noi usiamo la nostra informazione visiva. Esso usa il suono per percepire gli oggetti, e per aggiornare continuamente la posizione degli stessi nello spazio tridimensionale, esattamente nello stesso modo in cui noi usiamo la luce. Il tipo di modello computerizzato interno di cui ha bisogno è perciò un modello adatto alla rappresentazione interna delle posizioni mutevoli degli oggetti nello spazio tridimensionale. La mia tesi è che la forma che l’esperienza soggettiva di un animale assumerà sarà una proprietà del modello computerizzato interno. Quel modello sarà progettato, nell’evoluzione, in modo da poter fornire una rappresentazione interna utile, a prescindere dagli stimoli fisici che gli perverranno dall’esterno. I pipistrelli e noi abbiamo bisogno dello stesso tipo di modello interno per rappresentare la posizione di oggetti nello spazio tridimensionale. Il fatto che i pipistrelli costruiscano il loro modello interno con l’aiuto di echi, mentre noi costruiamo il nostro con l’aiuto della luce, è irrilevante. L’informazione esterna viene tradotta, in ogni caso, nello stesso tipo di impulsi nervosi nel suo cammino verso il cervello.

Io congetturo perciò che i pipistrelli «vedano» in modo molto simile a noi, nonostante la diversità del mezzo fisico con cui il mondo «esterno» viene tradotto in impulsi nervosi: ultrasuoni anziché luce. I pipistrelli potrebbero usare addirittura ai loro fini le sensazioni che noi chiamiamo colore per rappresentare differenze nel mondo esterno che potrebbero non avere nulla a che fare con la fisica della lunghezza d’onda, ma che potrebbero svolgere, per il pipistrello, un ruolo funzionale simile al ruolo che i colori svolgono per noi. I pipistrelli maschi potrebbero avere la superficie corporea caratterizzata da un pelo fine disposto in modo tale che i suoni che ne vengono riflessi fossero percepiti dalle femmine come vistosamente colorati, ossia con un suono equivalente alla livrea nuziale di un uccello del paradiso. Io non intendo quest’affermazione solo come una vaga metafora. Può darsi che la sensazione soggettiva sperimentata da un pipistrello femmina quando essa percepisce un maschio sia, diciamo, di un rosso brillante; la stessa sensazione che io provo quando vedo un fenicottero. O, almeno, la sensazione che la femmina del pipistrello ha del suo compagno potrebbe non differire dalla mia sensazione visiva di un fenicottero più di quanto questa differisca dalla sensazione visiva che di un fenicottero ha un altro fenicottero.

Donald Griffin ci racconta ciò che accadde quando egli e il suo collega Robert Galambos riferirono per la prima volta in un convegno di zoologi attoniti, nel 1940, la loro nuova scoperta dei vari aspetti della ecolocazione nei pipistrelli. Un eminente scienziato era così indignato nella sua incredulità che

prese Galambos per le spalle e lo scosse, dicendo che non era possibile che noi intendessimo suggerire una cosa tanto assurda. Il radar e il sonar erano ancora sviluppi molto segreti della tecnologia militare e la nozione che i pipistrelli potessero fare qualcosa di anche lontanamente analogo ai trionfi più recenti dell’ingegneria elettronica colpiva molte persone come non solo non plausibile, ma addirittura ripugnante sul piano emotivo.

È facile simpatizzare con lo scetticismo del famoso scienziato. Nella sua riluttanza a credere c’è qualcosa di molto umano. E questo è in effetti ciò che dice la sua riluttanza: è precisamente umano. Noi stentiamo a credere a ciò che fanno i pipistrelli proprio perché i nostri sensi umani non sono capaci di farlo. Poiché noi riusciamo a capire tali prestazioni solo a un livello di strumentazione artificiale e di calcoli matematici su carta, troviamo difficile immaginare che un animaletto come il pipistrello possa risolvere tali problemi nella sua testa. Eppure i calcoli matematici che sarebbero necessari per spiegare i principi della visione sono altrettanto complessi e difficili, e nessuno ha mai avuto alcuna difficoltà a credere che degli animali di piccole dimensioni siano capaci di vedere. La ragione di questo doppio criterio nel nostro scetticismo è, del tutto semplicemente, che noi riusciamo a vedere mentre non possediamo la capacità della ecolocazione.

Io posso immaginarmi un qualche altro mondo in cui un gruppo di creature dotte, e totalmente cieche, simili a pipistrelli, riunite a convegno rimangano sbalordite nel sentirsi dire che l’animale detto uomo è capace di usare i nuovi raggi non udibili chiamati «luce», che sono ancora oggetto di sviluppi militari top secret, per orientarsi nell’ambiente. Questo essere, altrimenti di livello molto modesto, è quasi totalmente sordo (per la precisione, in un certo senso esso riesce a udire, ed è addirittura capace di emettere pochi borbottii ponderosamente lenti, molto strascicati, ma usa questi suoni solo per fini rudimentali, come comunicare con i suoi simili; non sembra invece capace di usarli per scoprire neppure gli oggetti di mole maggiore). L’uomo possiede invece organi altamente specializzati, chiamati «occhi», per sfruttare i raggi di «luce». Il Sole è la principale sorgente di raggi di luce e gli esseri umani riescono sorprendentemente a sfruttare gli echi complessi che rimbalzano sugli oggetti quando i raggi di luce emanati dal Sole li colpiscono. Essi hanno un ingegnoso dispositivo chiamato «lente cristallina» o, più semplicemente, «cristallino», la cui forma appare matematicamente calcolata in modo tale da deflettere questi raggi silenziosi in vista di una rappresentazione esatta dell’ambiente, di una corrispondenza biunivoca fra gli oggetti del mondo e un’«immagine» su uno strato di cellule detto «retina». Queste cellule retiniche sono capaci, in un qualche modo misterioso, di rendere la luce (in un certo senso) «udibile», dopo di che trasmettono le loro informazioni al cervello. I nostri matematici hanno dimostrato che è teoricamente possibile, eseguendo calcoli molto complessi, navigare con sicurezza nell’ambiente con l’ausilio di questi raggi di luce, con la stessa efficacia con cui lo si può fare normalmente usando ultrasuoni, e sotto qualche aspetto in modo addirittura più efficace! Ma chi avrebbe mai pensato che un umile essere umano fosse in grado di eseguire questi calcoli?

L’ecolocazione usata dai pipistrelli è solo uno delle migliaia di esempi che avrei potuto scegliere per illustrare l’argomento del progetto razionale. Gli animali danno l’impressione di essere stati progettati da un fisico o da un ingegnere molto dotato nella teoria e molto ingegnoso nella pratica, ma non c’è alcuna indicazione del fatto che i pipistrelli stessi conoscano o capiscano la teoria nello stesso senso in cui la capisce un fisico. Il pipistrello dev’essere concepito come qualcosa di analogo al dispositivo radar usato dalla polizia per cogliere in fallo gli automobilisti indisciplinati, e non alla persona che ha progettato tale dispositivo. Il progettista del misuratore della velocità usato dalla polizia comprendeva la teoria dell’effetto Doppler ed espresse questa comprensione in equazioni matematiche, scritte esplicitamente su carta. La comprensione del progettista è materializzata nel progetto dello strumento, ma lo strumento stesso non capisce il proprio funzionamento. Lo strumento contiene componenti elettronici, i quali sono collegati in modo tale da comparare automaticamente due frequenze radar e da convertire i risultati ottenuti in unità convenienti: chilometri all’ora. Il calcolo che si richiede è complesso, ma alla portata di una scatoletta di componenti elettronici moderni collegati fra loro nel modo appropriato. Ovviamente, è stato un cervello cosciente raffinato a eseguire i collegamenti (o almeno a progettare lo schema di cablaggio), ma nel funzionamento della scatoletta non ha parte alcun cervello cosciente.

La nostra esperienza della tecnologia elettronica ci prepara ad accettare l’idea che un meccanismo inconscio possa comportarsi come se comprendesse idee matematiche complesse. Quest’idea è trasferibile direttamente al funzionamento di un meccanismo vivente. Un pipistrello è una macchina la cui elettronica interna è cablata in modo tale che i suoi muscoli alari lo fanno dirigere verso un insetto, nello stesso modo in cui un missile guidato, privo di coscienza, punta verso un aereo in volo. Fin qui la nostra intuizione, derivata dalla tecnologia, è corretta. Ma la nostra esperienza della tecnologia ci prepara anche a vedere, nella genesi di una macchina complessa, la mente di un progettista cosciente e intenzionale. È questa seconda intuizione che è sbagliata nel caso delle macchine viventi. In questo caso il «progettista» è la selezione naturale inconscia, l’orologiaio cieco.

Io spero che il lettore sia molto impressionato, come lo sono io e come lo sarebbe stato William Paley, da queste storie di pipistrelli. Il mio obiettivo è stato, sotto un certo aspetto, identico a quello di Paley. Io non vorrei che il lettore sottovalutasse le prodigiose opere della natura e i problemi che noi dobbiamo affrontare nello spiegarle. L’ecolocazione nei pipistrelli, pur essendo sconosciuta al tempo di Paley, sarebbe servita al suo fine altrettanto bene di uno qualsiasi dei suoi esempi. Paley ficcò bene in testa ai suoi lettori la sua argomentazione moltiplicando gli esempi. Egli esaminò l’intero corpo umano, dalla testa ai piedi, mostrando come ogni parte, ogni particolare anche minimo, fosse simile all’interno di un orologio ben costruito. Sotto molti aspetti io farei volentieri lo stesso, poiché ci sono storie meravigliose da raccontare e a me piace molto raccontare storie. In realtà, però, non c’è alcun bisogno di moltiplicare gli esempi. Uno o due basteranno. L’ipotesi che può spiegare la navigazione dei pipistrelli ben si presta a spiegare qualsiasi cosa nel mondo della vita, e se la spiegazione data da Paley per ciascuno dei suoi esempi era sbagliata non possiamo certo farla diventare giusta moltiplicando gli esempi stessi. La sua ipotesi era che gli orologi viventi fossero stati letteralmente progettati e costruiti da un maestro orologiaio. La nostra ipotesi moderna è che questo lavoro sia stato compiuto in fasi evolutive graduali dalla selezione naturale.

Oggi i teologi non sono così tutti d’un pezzo come Paley. Essi non sostengono che i meccanismi viventi complessi siano stati evidentemente progettati da un creatore, nello stesso senso in cui vengono progettati e costruiti gli orologi. C’è però una tendenza a dire che «è impossibile credere» che una tale complessità, o una tale perfezione, possa essersi evoluta per selezione naturale. Ogni volta che io leggo una tale osservazione, mi viene sempre il desiderio di scrivere in margine: «Parla per te». Gli esempi di questa tendenza abbondano (io ne ho contati 35 in un solo capitolo) nel volume The Probability of God del vescovo di Birmingham Hugh Montefiore. Nella parte restante di questo capitolo userò per tutti i miei esempi questo libro, dato che esso è un tentativo sincero e franco, compiuto da un autore rispettabile e colto, di aggiornare la teologia naturale. Quando dico franco intendo franco. Diversamente da alcuni suoi colleghi teologi, il vescovo Montefiore non ha timore di dire che il problema dell’esistenza di Dio è una questione di fatto ben precisa. Egli non indulge in soluzioni evasive come: «Il cristianesimo è un modo di vita. Il problema dell’esistenza di Dio è eliminato: esso è un miraggio creato dalle illusioni del realismo». Alcune parti del suo libro sono sulla fisica e sulla cosmologia e io non ho alcuna competenza per commentarle, a parte l’osservazione che egli sembra avere usato come autorità dei fisici autentici. Magari avesse fatto lo stesso nelle parti biologiche! Purtroppo in queste ha preferito consultare le opere di Arthur Koestler, di Fred Hoyle, di Gordon Rattray-Taylor e di Karl Popper. Il vescovo crede nell’evoluzione, ma non può credere che la selezione naturale sia una spiegazione adeguata per il corso preso dall’evoluzione (in parte perché, come molti altri, egli fraintende purtroppo la selezione naturale, ritenendola «casuale» e «priva di significato»).

Montefiore fa un uso massiccio di quello che potrebbe essere chiamato l’argomento dell’incredulità personale. Nel corso di un capitolo troviamo le frasi seguenti, in questo preciso ordine:

Pare non ci sia alcuna spiegazione su basi darwiniane […] Non è facile da spiegare […] È difficile da capire […] Non è facile capire […] È egualmente difficile spiegare […] Non trovo facile comprendere […] Non trovo facile vedere […] Trovo difficile capire […] Non pare possibile spiegare […] Non riesco a vedere come […] Il neodarwinismo sembra incapace di spiegare molte fra le complessità del comportamento animale […] Non è facile comprendere in che modo un tale comportamento potrebbe essersi evoluto esclusivamente attraverso la selezione naturale […] È impossibile […] Come potrebbe evolversi un organo così complesso? […] Non è facile vedere […] È difficile vedere […]

L’argomento dell’incredulità personale è un argomento estremamente debole, come notò lo stesso Darwin. In alcuni casi esso si fonda semplicemente sull’ignoranza. Per esempio, uno dei fatti che il vescovo trova difficile capire è il colore bianco degli orsi polari.

Quanto al mimetismo, esso non è sempre facile da spiegare sulla base di premesse neodarwiniane. Se gli orsi polari sono dominanti nell’Artico, pare che non ci sarebbe stato per loro alcun bisogno di evolversi sviluppando una forma di mimetismo di colore bianco.

Quest’affermazione dovrebbe essere tradotta così:

Io personalmente, standomene a disquisire seduto nel mio studio senza aver mai visitato l’Artico, non avendo mai visto un orso polare in libertà nel suo ambiente ed essendo stato educato in letterature classiche e in teologia, non sono riuscito finora a trovare una ragione per cui gli orsi polari potrebbero trarre beneficio dall’essere bianchi.

In questo caso specifico il vescovo Montefiore suppone che solo gli animali soggetti a un’attività di predazione da parte di altri animali abbiano bisogno di mimetizzarsi. Egli ignora il fatto che anche i predatori traggono beneficio dal fatto di restare invisibili alle loro prede. Gli orsi polari vanno a caccia di foche attaccandole di sorpresa mentre riposano sul ghiaccio. Se la foca vede l’orso avvicinarsi da una distanza sufficiente, può fuggire. Io sospetto che, se il vescovo Montefiore farà lo sforzo di immaginazione di figurarsi un orso grigio che si apposta sulla neve per attaccare furtivamente delle foche, vedrà immediatamente la risposta al suo problema.

L’argomento dell’orso polare è risultato quasi troppo facile da demolire ma, in un senso importante, non è questo il punto. Persino se la massima autorità del mondo non riuscisse a trovare una spiegazione per un fenomeno biologico notevole, ciò non significherebbe che esso non possa essere spiegato. Numerosi misteri sono durati per secoli trovando però infine una spiegazione. Per quel che importa, la maggior parte dei biologi moderni non avrebbe alcuna difficoltà a spiegare ognuno dei 35 esempi del vescovo Montefiore nei termini della teoria della selezione naturale, anche se non tutti sono così semplici come quello degli orsi polari. Noi non stiamo però sottoponendo a un test l’ingegnosità umana nell’escogitare spiegazioni. Quand’anche trovassimo un esempio che non fossimo in grado di spiegare, dovremmo esitare prima di trarre conclusioni troppo radicali da questa nostra incapacità. Lo stesso Darwin fu molto chiaro su questo punto.

Esistono versioni più serie dell’argomento dell’incredulità personale, versioni che non si fondano semplicemente sull’ignoranza o sulla mancanza di ingegnosità. Una forma dell’argomentazione fa un uso diretto del senso estremo di meraviglia che noi tutti proviamo quando ci troviamo di fronte a meccanismi molto complessi, come la minuziosa perfezione del dispositivo di ecolocazione nei pipistrelli. L’implicazione è che una cosa così mirabile non può evidentemente essersi evoluta per selezione naturale. Il vescovo cita, con approvazione, ciò che G. Bennett scrive sulle ragnatele:

È impossibile, per una persona che abbia osservato un ragno all’opera per molte ore, avere qualche dubbio sul fatto che né i ragni presenti della specie in oggetto né i loro progenitori furono mai gli architetti della ragnatela, e che la concezione di questa non può concepibilmente essersi prodotta passo passo per mezzo di variazioni casuali; sarebbe assurdo supporre che le proporzioni complesse ed esatte del Partenone siano state prodotte accumulando dei pezzi di marmo l’uno sull’altro.

Non è affatto impossibile. Questo è proprio ciò che io credo fermamente, e devo anche aggiungere che ho qualche esperienza di ragni e delle loro ragnatele.

Il vescovo Montefiore prosegue affrontando il tema dell’occhio umano e ponendosi retoricamente la domanda: «Come poté evolversi un organo così complesso?», con l’implicazione che non esiste risposta. Questo non è un argomento, ma semplicemente un’affermazione di incredulità. Alla base dell’incredulità intuitiva che noi tutti siamo tentati di provare dinanzi a quelli che Darwin definì organi di estrema perfezione e complicazione ci sono, secondo me, due ragioni. Innanzitutto, non abbiamo alcuna comprensione intuitiva delle immensità di tempo disponibili per il mutamento evolutivo. La maggior parte degli scettici sulla selezione naturale sono disposti ad accettare che questa possa determinare mutamenti minori, come la colorazione scura che si è evoluta in varie specie di falene dopo l’inizio della rivoluzione industriale. Ma, dopo avere accettato questo punto, essi insistono sull’esiguità di questo mutamento. Come sottolinea il vescovo Montefiore, la falena scura non è una nuova specie. Io sono d’accordo sulla tesi che questo sia un piccolo mutamento, e che non sia certo paragonabile all’evoluzione dell’occhio o dell’ecolocazione. Va però osservato che queste falene hanno impiegato solo un centinaio di anni per realizzare il loro mutamento. Un centinaio di anni sembra un tempo lungo per noi, essendo più lungo della durata della nostra vita, ma per un geologo è un migliaio di volte circa più breve di quelli che è di solito in grado di misurare.

Gli occhi non si fossilizzano, cosicché non sappiamo quanto tempo il nostro tipo di occhio abbia impiegato a evolvere la sua presente complessità e a perfezionarsi dal nulla, ma il tempo disponibile è di varie centinaia di milioni di anni. Pensiamo, come termine di riferimento, ai mutamenti prodotti dall’uomo in un periodo di tempo molto più breve per mezzo della selezione genetica dei cani. In poche centinaia, o al massimo migliaia, di anni siamo passati dal lupo al pechinese, al bulldog, al chihuahua e al San Bernardo. Ah, ma tutte queste razze sono ancora cani, non è vero? Non si sono trasformate in una specie di animali diversa, no? Sì, se il lettore può trarre conforto dal giocare in questo modo con le parole, possiamo dire che essi sono ancora tutti cani. Ma pensiamo solo alla durata di tempo nella quale si sono verificati tutti questi mutamenti. Rappresentiamo con la lunghezza di un passo il tempo totale impiegato per l’evoluzione di tutte queste razze di cani da un lupo. Allora, sulla stessa scala, quanti passi si dovrebbero fare per risalire a Lucy e alla sua specie, i fossili umani più antichi dotati inequivocabilmente della locomozione eretta? La risposta è: circa tre chilometri. E quanta strada si dovrebbe fare per giungere sino all’inizio dell’evoluzione sulla Terra? La risposta è che ci si dovrebbe sobbarcare un viaggio decisamente faticoso, come quello da Londra a Baghdad. Si pensi all’entità del mutamento che si è realizzata nel passaggio dal lupo al chihuahua, e poi lo si moltiplichi per il numero dei passi che dividono Londra da Baghdad. In questo modo avremo una qualche idea intuitiva della quantità di mutamento che possiamo attenderci nell’evoluzione naturale reale.

La seconda ragione della nostra naturale incredulità dinanzi all’evoluzione di organi molto complessi come gli occhi dell’uomo e le orecchie del pipistrello è un’applicazione intuitiva della teoria della probabilità. Il vescovo Montefiore cita C.E. Raven sui cuculi. Questi depongono le uova nel nido di altri uccelli, che operano poi come genitori adottivi involontari. Come molti altri adattamenti biologici, quello del cuculo non è singolo bensì multiplo. Vari caratteri diversi rendono i cuculi ben adattati al loro modo di vita parassitico. Per esempio, la madre ha l’abitudine di deporre le uova nel nido di altri uccelli, e il piccolo ha l’abitudine di gettare fuori dal nido i piccoli dell’uccello che lo ospita. Entrambe queste abitudini aiutano il cuculo ad avere successo nella sua vita da parassita. Raven prosegue:

Si vedrà che ciascuna condizione di questa sequenza è essenziale per il successo complessivo. Eppure ciascuna di esse è anche inutile isolatamente. L’intero opus perfectum dev’essere stato conseguito simultaneamente. Le probabilità contro l’occorrenza casuale di una tale serie di coincidenze sono, come abbiamo già detto, astronomiche.

Gli argomenti come questo sono, in linea di principio, più rispettabili dell’argomento fondato sulla mera incredulità. La misurazione dell’improbabilità statistica di un’evenienza è il modo giusto per valutarne la credibilità. Questo è, in effetti, un metodo che useremo varie volte in questo libro. Ma lo si deve usare nel modo giusto! Nell’argomentazione di Raven ci sono due cose sbagliate. Innanzitutto c’è la confusione familiare e, come ho detto, piuttosto irritante, della selezione naturale col «caso». Una mutazione è casuale; la selezione naturale è l’opposto stesso della casualità. In secondo luogo, non è assolutamente vero che «ciascuna di esse è anche inutile isolatamente». Non è vero che l’intera opera perfetta debba essere stata conseguita simultaneamente. Non è vero che ciascuna parte sia essenziale per il successo del tutto. Un semplice, rudimentale sistema di ecolocazione occhio/orecchio, o di parassitismo del cuculo ecc., è sempre meglio che niente. Senza occhi si è del tutto ciechi. Avendo degli occhi molto imperfetti si è almeno in grado di rilevare la direzione generale del movimento di un predatore, anche se non si riesce a metterne a fuoco un’immagine chiara. E proprio in questo potrebbe risiedere l’intera differenza fra la vita e la morte. Questi argomenti saranno ripresi, con maggiore abbondanza di particolari, nei prossimi due capitoli.