I figli di Israele, secondo la storia narrata nell’Esodo, impiegarono quarant’anni a migrare attraverso il deserto del Sinai sino alla Terra Promessa, ossia a percorrere una distanza di circa 320 chilometri. La loro velocità media fu quindi di quasi 22 metri al giorno, ossia di poco più di 90 centimetri all’ora, o di due metri e mezzo all’ora circa se si tiene conto delle soste notturne. Comunque facciamo il calcolo, ci troviamo di fronte a una velocità media assurdamente piccola, molto minore di quella del proverbiale passo di lumaca (l’attuale record mondiale di velocità della lumaca, secondo il Guinness dei primati, è di ben 50,27 metri all’ora!). Ma nessuno, ovviamente, crede che i figli di Israele abbiano mantenuto in modo continuo e uniforme la velocità media. È chiaro che essi dovettero spesso alternare periodi di marcia a periodi di stasi, rimanendo sovente accampati a lungo in un luogo prima di rimettersi in movimento. Probabilmente molti di loro non avevano neppure un’idea molto chiara di stare viaggiando in una direzione particolarmente costante, e la loro migrazione, tutt’altro che regolare, li conduceva da un’oasi all’altra, al modo dei pastori nomadi del deserto. Nessuno, lo ripeto, crede che gli ebrei mantennero in modo continuo e uniforme la velocità media nel corso del loro lungo viaggio.
Supponiamo ora che entrino in scena due storici giovani ed eloquenti. La storia biblica, ci dicono, è stata finora dominata dalla scuola di pensiero «gradualistica». Gli storici «gradualistici», ci viene detto, credono letteralmente che gli ebrei abbiano percorso quasi 22 metri al giorno; essi piegavano le loro tende ogni mattina, percorrevano quasi 22 metri in direzione est-nordest e poi piantavano di nuovo le tende. L’unica alternativa al gradualismo, ci viene detto, è la nuova scuola storica dinamica, «puntuazionistica». Secondo i giovani puntuazionisti radicali, gli ebrei trascorsero la maggior parte del loro tempo in «stasi», non muovendosi affatto ma rimanendo accampati, spesso per anni, in un posto. Poi riprendevano la marcia, piuttosto rapidamente, per fissare poco lontano un nuovo accampamento, dove facevano un’altra sosta per vari anni. Il loro procedere verso la Terra Promessa, anziché essere graduale e continuo, era a strattoni: lunghi periodi di stasi punteggiati da brevi periodi di rapido movimento. Inoltre i periodi di marcia non erano sempre nella direzione della Terra Promessa, bensì in direzioni quasi casuali. Solo quando noi osserviamo, a posteriori, il disegno macromigratorio su vasta scala, possiamo riscontrare una tendenza nella direzione della Terra Promessa.
L’eloquenza degli storici biblici puntuazionisti è tanto grande che essi hanno fatto sensazione sui mezzi di comunicazione di massa. I loro ritratti compaiono sulla copertina di settimanali di grande tiratura. Nessun documentario televisivo sulla storia biblica è completo senza un’intervista ad almeno uno fra i principali puntuazionisti. Persone che non sanno nient’altro di esegesi biblica ricordano solo un fatto: nei giorni bui prima che venissero in scena i puntuazionisti ogni altro studioso aveva idee sbagliate sull’argomento. Si osservi che la fama dei puntuazionisti non ha niente a che vedere col fatto che essi possono aver ragione. Essa ha invece tutto a che vedere con la tesi che gli autori precedenti erano «gradualisti» e sbagliavano. Il successo dei puntuazionisti è dovuto al fatto che essi si spacciano come rivoluzionari che hanno un grande ascolto presso il pubblico, non al fatto di avere ragione.
La mia esposizione sugli storici biblici puntuazionisti non è, ovviamente, vera. Essa è solo una parabola su un’analoga presunta controversia fra gli studiosi dell’evoluzione biologica. Sotto alcuni aspetti è una parabola sbagliata, ma non del tutto, e ha in sé una verità sufficiente da giustificare la sua collocazione all’inizio di questo capitolo. Fra i biologi evoluzionisti c’è una scuola di pensiero molto pubblicizzata, i cui proponenti si chiamano puntuazionisti, e fu nell’ambito di questa scuola che fu inventato il termine «gradualisti» per designare i loro predecessori più influenti. I puntuazionisti hanno goduto di una pubblicità enorme fra un pubblico che non sa quasi nient’altro sull’evoluzione, e questo perché la loro posizione è stata presentata, da fonti secondarie più che da se stessi, come radicalmente diversa dalle posizioni degli evoluzionisti anteriori, e specialmente da quella di Charles Darwin. Fino a questo punto la mia analogia con la storia biblica è abbastanza appropriata.
Il punto di vista sotto cui l’analogia è sbagliata è che, nella storia dell’esegesi biblica, i «gradualisti» erano ovviamente uomini di paglia inesistenti, fabbricati dai puntuazionisti. Nel caso degli evoluzionisti «gradualisti», il fatto che essi siano uomini di paglia inesistenti non è altrettanto ovvio, ma dev’essere dimostrato. È possibile interpretare le parole di Darwin e di molti altri evoluzionisti come ispirate da un intento gradualistico, ma poi diventa importante rendersi conto che la parola «gradualista» può essere interpretata in modi diversi a significare cose diverse. In effetti, io svilupperò un’interpretazione della parola «gradualista» in accordo alla quale quasi tutti sono gradualisti. Nel caso dell’evoluzione, diversamente che nella parabola dei figli di Israele, è latente una controversia genuina, la quale concerne però particolari minori, che non hanno mai un’importanza tale da giustificare l’interesse dei mezzi di comunicazione di massa.
Fra gli evoluzionisti, i «puntuazionisti» uscirono in origine dai ranghi della paleontologia. La paleontologia è lo studio dei fossili. Essa è una branca molto importante della biologia, poiché i progenitori degli organismi viventi si sono estinti tutti molto tempo fa, e i fossili ci forniscono l’unica documentazione diretta di animali e piante di un lontano passato. Se vogliamo sapere quale aspetto avessero i nostri lontani progenitori, i fossili sono la nostra speranza principale. Non appena ci si rese conto di che cosa fossero veramente i fossili – scuole di pensiero precedenti avevano ritenuto che fossero creazioni del demonio, o videro in essi le ossa di miseri peccatori annegati nelle acque del diluvio –, divenne chiaro che ogni teoria dell’evoluzione doveva avere certe attese sulla documentazione fossile. Ci sono state però delle controversie nel definire esattamente quali dovessero essere tali attese, e le tesi dei puntuazionisti riguardano in parte proprio questo punto.
Noi siamo fortunati a poter disporre di fossili. È una fortuna che ossa, conchiglie e altre parti dure di animali, prima di corrompersi, possano a volte lasciare un’impronta che in seguito agisce come uno stampo, plasmando la roccia che va indurendosi in un ricordo permanente dell’animale. Noi non sappiamo quale sia la proporzione degli animali che si fossilizzano dopo la loro morte – io personalmente considererei un onore fossilizzarmi – ma essa è senza dubbio molto piccola. Ma per quanto piccola essa sia, ci sono certe cose che ogni evoluzionista dovrebbe attendersi di vedere documentate dai fossili. Noi saremmo molto sorpresi, per esempio, se trovassimo dei fossili umani apparire prima dell’epoca a cui datiamo l’evoluzione dei mammiferi! Se si dovesse trovare un singolo cranio di mammifero in rocce dell’età di 500 milioni di anni, la nostra moderna teoria dell’evoluzione ne uscirebbe distrutta. Per inciso, questa è una risposta sufficiente alla tesi truffaldina, diffusa dai creazionisti e dai giornalisti loro compari, che l’intera teoria dell’evoluzione sia una tautologia «non falsificabile». Per una curiosa ironia questa è anche la ragione per cui i creazionisti insistono con tanta pervicacia sull’autenticità delle false impronte umane, scavate in realtà nel periodo della Depressione per ingannare i turisti, nei giacimenti di ossa di dinosauro nel Texas.
In ogni caso, se disponiamo in ordine cronologico i nostri fossili genuini, dai più antichi ai più moderni, la teoria dell’evoluzione si attende di vedere una qualche sorta di sequenza ordinata, e non un’accozzaglia senza capo né coda. Inoltre – cosa più interessante ai fini dell’argomento di questo capitolo – le varie versioni della teoria dell’evoluzione, per esempio il gradualismo e il «puntuazionismo», potrebbero attendersi di trovare tipi diversi di distribuzione dei fossili. Tali attese possono essere verificate solo se noi possediamo qualche mezzo per datare i fossili, o almeno per conoscere l’ordine in cui furono deposti. I problemi della datazione dei fossili, e le soluzioni di questi problemi, richiedono una breve digressione, la prima di varie digressioni per le quali chiedo in anticipo l’indulgenza del lettore. Esse sono necessarie per la spiegazione del tema principale del capitolo.
Noi abbiamo imparato da molto tempo a disporre i fossili nello stesso ordine in cui erano deposti. Il metodo è implicito nell’espressione stessa «erano deposti». I fossili più recenti vengono ovviamente deposti sopra fossili anteriori e non sotto di essi, e perciò si trovano sopra di essi nella stratificazione geologica. Di tanto in tanto può accadere che fenomeni sismici sconvolgano le rocce, capovolgendone addirittura qualche tratto; in tali casi l’ordine in cui i fossili compaiono nei nostri scavi può essere addirittura rovesciato; ma questo è un fenomeno così raro da apparire subito evidente quando si presenta. Anche se solo di rado, scavando nelle rocce di un’area qualsiasi, troviamo una documentazione storica completa, possiamo spesso ricostruire una documentazione soddisfacente componendo porzioni che presentino parziali sovrapposizioni in aree diverse (in realtà, benché io abbia parlato di scavi, accade di rado che i paleontologi scavino direttamente nella roccia strato dopo strato; molto più spesso essi trovano i fossili esposti dall’erosione a varie profondità). Già molto tempo prima di imparare come datare i fossili in milioni di anni, i paleontologi avevano elaborato uno schema attendibile delle ere geologiche, e conoscevano con grande abbondanza di particolari la sequenza delle varie ere. Certi tipi di conchiglie sono così attendibili nel fornirci informazioni sull’età delle varie rocce da essere fra i principali indicatori usati nella prospezione petrolifera. Di per se stessi, però, essi possono dirci qualcosa solo sull’età relativa dei vari strati rocciosi, mai sulla loro età assoluta.
Più recentemente, progressi compiuti in fisica ci hanno fornito metodi per assegnare età assolute, in milioni di anni, a rocce e ai fossili che esse contengono. Questi metodi dipendono dal fatto che particolari elementi radioattivi decadono entro periodi che conosciamo con precisione. È un po’ come se cronometri di precisione in miniatura fossero stati opportunamente sepolti nelle rocce. Ogni cronometro fu messo in funzione nel momento stesso in cui fu deposto nella roccia. Tutto ciò che i paleontologi devono fare è di riportarlo in luce e leggere l’ora sul quadrante. I diversi tipi di cronometri geologici fondati sul decadimento radioattivo hanno una diversa velocità di funzionamento. Il cronometro al radiocarbonio funziona con grande rapidità e il suo ticchettio è così veloce che, dopo qualche migliaio di anni, la sua molla ha quasi perduto la carica e l’orologio non è più attendibile. Esso è molto utile per datare materiali organici alla scala di tempo archeologico-storica, in cui si misurano durate di centinaia o di qualche migliaio di anni, ma non è di alcuna utilità per la scala di tempo dell’evoluzione, in cui si ha a che fare con milioni di anni.
Per la scala di tempo dell’evoluzione sono utili altri tipi di orologio, come quello al potassio-argo. L’orologio al potassio-argo è così lento che non sarebbe di alcuna utilità per la scala di tempo archeologico-storica. Sarebbe come tentare di usare la lancetta delle ore su un orologio comune per cronometrare il tempo di un atleta nei cento metri. Per prendere i tempi di quella megamaratona che è l’evoluzione, d’altra parte, un orologio come quello al potassio-argo era proprio quel che ci voleva. Altri «cronometri» radioattivi, ciascuno col suo proprio ambito di utilità, sono quello al rubidio-stronzio e quello all’uranio-torio. Questa digressione ci ha detto dunque che, se a un paleontologo viene presentato un fossile, egli è di solito in grado di dire quando l’animale sia vissuto su una scala assoluta di milioni di anni. Noi abbiamo affrontato questa discussione della datazione e della misura del tempo, come il lettore ricorderà, perché eravamo interessati alle attese sulla documentazione fossile che i vari tipi di teoria evoluzionistica – «puntuazionistica», «gradualistica» ecc. – dovrebbero avere. È venuto ora il momento di discutere quali dovrebbero essere tali attese.
Supponiamo, innanzitutto, che la natura fosse stata straordinariamente gentile con i paleontologi (o forse scortese, se si pensa al lavoro in più che questo fatto comporterebbe) e avesse dato loro un fossile di ogni animale vissuto nell’intera storia della vita sulla Terra. Se noi potessimo dare un’occhiata a una tale documentazione fossile completa, organizzata con cura in ordine cronologico, che cosa dovremmo attenderci di vedere come evoluzionisti? Se fossimo «gradualisti», nel senso messo in caricatura nella parabola degli ebrei, dovremmo attenderci qualcosa di simile al quadro seguente. Le sequenze cronologiche di fossili presenteranno sempre tendenze evolutive uniformi con tassi di mutamento fissi. In altri termini, se abbiamo tre fossili, A, B e C, di cui A è un progenitore di B, che è a sua volta un progenitore di C, dovremmo attenderci che B avesse una forma proporzionatamente intermedia fra A e C. Per esempio, se A avesse le zampe lunghe 50 centimetri e C avesse le zampe lunghe un metro, le zampe di B dovrebbero avere una lunghezza intermedia, e la loro lunghezza esatta dovrebbe essere proporzionale al tempo trascorso fra l’esistenza di A e quella di B.
Se portiamo la caricatura del gradualismo alla sua conclusione logica, possiamo calcolare la velocità media dell’allungamento delle zampe nella linea evolutiva che condusse da A a C nello stesso modo in cui abbiamo calcolato la velocità media degli ebrei a quasi 22 metri al giorno. Se, per esempio, A fosse vissuto 20 milioni di anni prima di C (per trovare un vago riscontro con la realtà, il membro più antico che si conosca della famiglia del cavallo, l’Hyracotherium, visse circa 50 milioni di anni fa, e aveva la mole di un terrier), avremmo una velocità di crescita evolutiva delle zampe di mezzo metro ogni 20 milioni di anni, ossia di 2,5 milionesimi di centimetro all’anno. Ora, il gradualismo caricaturale dovrebbe credere che le zampe crescano costantemente, nel corso delle generazioni, a questo ritmo lentissimo: diciamo a 10 milionesimi di centimetro per ogni generazione, se poniamo pari a quattro anni la durata di una generazione in animali simili ai cavalli. Il gradualista dovrebbe credere che, per tutti quei milioni di generazioni, gli individui con zampe lunghe 10 milionesimi di centimetro più della media godessero di un vantaggio significante nella lotta per la sopravvivenza rispetto agli individui con zampe di lunghezza media. Credere una cosa del genere è come credere che gli ebrei percorressero ogni giorno ventidue metri nel deserto.
Lo stesso vale anche per uno dei mutamenti evoluzionistici più rapidi che si conoscano, lo sviluppo del cranio umano da un progenitore simile all’australopiteco, con un volume encefalico di circa 500 centimetri cubici, al moderno Homo sapiens, il cui volume encefalico medio si aggira attorno a 1400 cc. Questo aumento di circa 900 cc, che rappresenta quasi una triplicazione del volume del cervello, si è realizzato in non più di tre milioni di anni. Alla scala di tempo dell’evoluzione, questo è un ritmo di mutamento molto rapido: il cervello sembra gonfiarsi come un pallone e in effetti, visto da certi angoli, il cranio umano moderno assomiglia effettivamente a una palla sferica, di contro al cranio più piatto, dalla fronte sfuggente, dell’Australopithecus. Se però contiamo il numero delle generazioni contenute in tre milioni di anni (diciamo circa quattro per secolo), il ritmo medio dell’evoluzione risulta essere di meno di un centesimo di centimetro cubico per generazione. Un gradualista caricaturale dovrebbe credere che ci sia stato un mutamento lento e inesorabile da una generazione all’altra, tale che in ogni generazione i figli avevano un cervello leggermente più grosso, di 0,01 cc, rispetto ai loro padri. E inoltre che il centesimo di centimetro cubico in più fornisse a ogni generazione successiva un vantaggio significativo ai fini della sopravvivenza rispetto alla generazione precedente.
Ma un centesimo di centimetro cubico è una quantità minuscola rispetto alla varietà di dimensioni craniche che troviamo fra gli esseri umani moderni. È un fatto spesso citato, per esempio, che lo scrittore Anatole France – che non era uno sciocco, e che vinse un premio Nobel – aveva una capacità cranica di meno di 1000 cc, mentre all’altro estremo dello spettro si conoscono cervelli di 2000 cc: come esempio si cita spesso Oliver Cromwell, anche se non so con quale attendibilità. L’incremento medio per generazione di 0,01 cc, che secondo il gradualista caricaturale dovrebbe garantire un vantaggio significativo per la sopravvivenza, è quindi solo un centomillesimo della differenza esistente fra il cervello di Anatole France e quello di Oliver Cromwell! È una fortuna che il gradualista caricaturale non esista in realtà.
Ma se questo tipo di gradualista è una caricatura inesistente – un semplice mulino a vento per la lancia dei puntuazionisti – c’è un qualche altro tipo di gradualista che esista realmente e che abbia convinzioni difendibili? Mostrerò che la risposta è affermativa, e che i ranghi dei gradualisti, in questo secondo senso, comprendono tutti gli evoluzionisti ragionevoli, fra cui, se si considerano con attenzione le loro convinzioni, anche coloro che chiamano se stessi puntuazionisti. Ma dobbiamo sforzarci di capire perché i puntuazionisti abbiano pensato che le loro opinioni fossero tanto rivoluzionarie ed eccitanti. Il punto di partenza per discutere questi argomenti è l’apparente esistenza di «lacune» nella documentazione fossile, e ora ci volgeremo proprio a considerare queste lacune.
Da Darwin in poi gli evoluzionisti si sono resi conto che, se noi disponiamo tutti i fossili in nostro possesso in ordine cronologico, essi non formano una sequenza uniforme di mutamento appena avvertibile. Noi possiamo, senza dubbio, discernere tendenze di mutamento a lungo termine – zampe progressivamente più lunghe, crani progressivamente più tondeggianti e via dicendo – ma le tendenze percepibili nella documentazione fossile sono di solito irregolari, non uniformi. Darwin, e la maggior parte dei suoi seguaci, supposero che questo fatto fosse dovuto principalmente all’incompletezza della documentazione fossile. Secondo Darwin una documentazione fossile completa, se mai potessimo averla, ci mostrerebbe effettivamente un mutamento graduale, e non a scossoni. Ma poiché la fossilizzazione è un processo dominato in gran parte dal caso, e il ritrovamento dei fossili esistenti è non meno casuale, è un po’ come se noi possedessimo la pellicola di un film dalla quale mancassero la maggior parte dei fotogrammi. Quando proiettiamo il film della nostra documentazione fossile, possiamo vedere senza dubbio un qualche tipo di movimento, ma è un movimento più a scatti di quello di Charlie Chaplin, poiché neppure le più vecchie e malconce pellicole di Chaplin hanno perduto nove fotogrammi su dieci.
I paleontologi americani Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, quando proposero per la prima volta, nel 1972, la loro teoria degli equilibri punteggiati, diedero quello che, dopo di allora, è stato presentato come un suggerimento molto diverso. Essi avanzarono l’ipotesi che la documentazione fossile potrebbe non essere, in realtà, così incompleta come si riteneva. Forse le «lacune» potevano essere un riflesso fedele di ciò che era accaduto anziché le conseguenze sgradevoli ma inevitabili di una documentazione fossile imperfetta. Forse, suggerirono, l’evoluzione era proceduta realmente a scossoni improvvisi, intervallati a lunghi periodi di «stasi», durante i quali in una linea genealogica data non si verificava alcun mutamento.
Prima di passare a considerare quale sorta di scossoni improvvisi essi avessero in mente, è il caso di rilevare che ci sono alcuni significati concepibili di «scossoni improvvisi» che essi di sicuro non avevano in mente. Questi punti devono essere chiariti perché sono stati oggetto di gravi fraintendimenti. Eldredge e Gould sarebbero certamente d’accordo sulla tesi che alcune lacune molto importanti si devono senza dubbio a imperfezioni nella documentazione fossile. Anche lacune molto grandi. Per esempio, gli strati geologici del Cambriano, databili a circa 600 milioni di anni fa, sono i più vecchi in cui possiamo trovare la maggior parte dei principali gruppi di invertebrati. E ne troviamo molti già in uno stato di evoluzione avanzato la primissima volta che compaiono fra i fossili. È un po’ come se fossero apparsi d’improvviso, senza alcuna storia evoluzionistica. Non occorre dire che questo fatto ha deliziato i creazionisti. Gli evoluzionisti di ogni specie credono però che questa sia davvero una grande lacuna nella documentazione fossile, una lacuna dovuta al fatto che, per qualche ragione, si sono conservati pochissimi fossili di periodi anteriori a 600 milioni di anni fa. Una buona ragione potrebbe essere che il corpo di molti di questi animali aveva solo parti molli: niente conchiglia o ossa suscettibili di fossilizzarsi. Un creazionista potrebbe pensare che questa sia un’argomentazione speciosa. Io qui sto sostenendo che, quando parliamo di lacune di questa grandezza, non c’è alcuna differenza di interpretazione fra «puntuazionisti» e «gradualisti». Entrambe le scuole di pensiero nutrono un eguale disprezzo verso i cosiddetti creazionisti scientifici, ed entrambe concordano sulla tesi che le lacune più grandi sono reali, che sono vere imperfezioni nella documentazione fossile. Entrambe le scuole di pensiero concordano inoltre sulla tesi che l’unica spiegazione alternativa dell’improvvisa apparizione di un così gran numero di tipi animali complessi nel Cambriano potrebbe essere la creazione divina, ed entrambe rifiutano decisamente questa alternativa.
C’è un altro senso concepibile in cui si potrebbe dire che l’evoluzione procede per sobbalzi improvvisi, un senso che non è quello proposto da Eldredge e Gould, almeno nella maggior parte dei loro scritti. È concepibile che alcune fra le «lacune» apparenti nella documentazione fossile riflettano veramente un mutamento improvviso in una singola generazione. È concepibile che non ci sia mai stata veramente alcuna forma intermedia, e che grandi mutamenti evoluzionistici abbiano avuto luogo in una singola generazione. Un figlio potrebbe essere nato così diverso da suo padre da appartenere propriamente a una nuova specie. Egli sarebbe un individuo mutante, e la mutazione sarebbe così grande che noi dovremmo chiamarla una macromutazione. Le teorie dell’evoluzione che dipendono da macromutazioni sono dette teorie «saltazioniste», dal latino saltus (salto). Poiché la teoria degli equilibri punteggiati, o puntuati, viene spesso confusa con le vere macromutazioni, è importante discutere qui le macromutazioni e mostrare perché esse non possano essere un fattore significativo nell’evoluzione.
Macromutazioni – mutazioni che esercitano grandi effetti – esistono senza dubbio. Quel che è in discussione non è se esistano ma se svolgano un ruolo nell’evoluzione; se, in altri termini, vengano incluse nel pool genico di una specie o se, al contrario, vengano invariabilmente eliminate dalla selezione naturale. Un famoso esempio di macromutazione è l’«antennapedia» nella Drosophila. In un individuo normale le antenne hanno qualcosa in comune con le zampe, e si sviluppano nell’embrione in modo simile. Ma anche le differenze sono molto vistose e i due tipi di appendici vengono usati per fini molto diversi: le zampe per camminare, le antenne per la percezione tattile, per l’olfatto e per altri compiti connessi alla percezione. Le drosofile affette da antennapedia sono capricci della natura in cui le antenne si sviluppano esattamente come le zampe. O, per esprimerci in modo diverso, sono drosofile che, in luogo delle antenne, hanno un paio di zampe extra, cresciute nella stessa posizione in cui dovrebbero trovarsi le antenne. Questa è una vera mutazione, risultando da un errore nella copiatura del DNA, e si trasmette alla prole se le drosofile affette da questa malformazione vengono curate nell’ambiente protetto del laboratorio in modo da sopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi. In natura esse non sopravviverebbero molto a lungo, poiché i loro movimenti sono goffi e i loro sensi vitali menomati.
Le macromutazioni, quindi, si verificano veramente. Ma svolgono un ruolo nell’evoluzione? I macroevoluzionisti (o saltazionisti) ritengono che le macromutazioni siano un mezzo in virtù del quale grandi salti nell’evoluzione potrebbero aver luogo nell’arco di una singola generazione. Richard Goldschmidt, che abbiamo già incontrato nel capitolo III, fu un vero macroevoluzionista. Se il saltazionismo fosse vero, le «lacune» apparenti nella documentazione fossile potrebbero non essere vere lacune. Per esempio, un saltazionista potrebbe credere che la transizione dall’australopiteco, dalla fronte sfuggente, all’Homo sapiens, dalla fronte alta e tondeggiante, abbia avuto luogo in virtù di una singola macromutazione, in una sola generazione. La differenza di forma fra le due specie è probabilmente inferiore alla differenza fra una drosofila normale e una drosofila antennapedica, ed è teoricamente concepibile che il primo Homo sapiens sia stato un figlio «strano» – probabilmente respinto e perseguitato – di due genitori normali appartenenti alla specie Australopithecus.
Ci sono ottime ragioni per rifiutare tutte le teorie saltazionistiche dell’evoluzione. Una ragione piuttosto banale è che, se una nuova specie potesse avere veramente origine da una singola mutazione, i membri della nuova specie potrebbero avere difficoltà a trovare i propri partner sessuali. Io considero però questa ragione meno efficace e interessante delle altre due che sono già state prospettate quando abbiamo esaminato perché si debbano escludere grandi salti attraverso il Paese dei Biomorfi. La prima di queste ragioni fu esposta dal grande statistico e biologo R.A. Fisher, che abbiamo incontrato in capitoli precedenti in altri contesti. Fisher fu un deciso oppositore di ogni forma di macroevoluzione, in un periodo in cui il saltazionismo era più di moda di quanto non sia oggi, e usò la seguente analogia. Pensiamo, egli scrisse, a un microscopio che sia quasi, ma non del tutto, perfettamente a fuoco e altrimenti ben regolato per una visione nitida. Quali probabilità ci sono che, apportando allo stato del microscopio qualche mutamento a caso (corrispondente a una mutazione), miglioriamo la messa a fuoco e la qualità generale dell’immagine? Fisher scrisse:
È abbastanza ovvio che qualsiasi intervento di grandi proporzioni avrà ben poche probabilità di migliorare la regolazione, mentre nel caso di alterazioni molto minori di quelle più piccole di quelle che vengono apportate intenzionalmente dal costruttore o dall’operatore la probabilità di un miglioramento dovrebbe essere quasi esattamente del 50 per cento.
Ho già osservato che quel che sembrava a Fisher «facile vedere» potrebbe porre richieste difficilissime al vigore mentale di scienziati comuni, e lo stesso vale anche per ciò che Fisher definisce «abbastanza ovvio». Nondimeno, ulteriori riflessioni dimostrano quasi sempre che egli aveva ragione, e in questo caso possiamo dimostrarlo con nostra soddisfazione senza eccessiva difficoltà. Ricordiamo che stiamo supponendo che il microscopio sia quasi perfettamente a fuoco prima che diamo inizio ai nostri interventi. Supponiamo che l’obiettivo sia troppo in basso, ossia troppo vicino di un millimetro al vetrino, perché lo strumento possa essere perfettamente a fuoco. Ora, se spostiamo l’obiettivo di un intervallo piccolissimo, diciamo di un decimo di millimetro, in una direzione casuale, quali saranno le probabilità che la messa a fuoco migliori? Se lo abbassiamo verso il vetrino di un decimo di millimetro, la messa a fuoco peggiorerà, mentre migliorerà se lo alziamo di un decimo di millimetro. Poiché stiamo intervenendo a caso, la probabilità per ciascuna di queste evenienze è un mezzo, ossia 50 per cento. Quanto più piccolo è il movimento di regolazione, in relazione all’errore iniziale, tanto più la probabilità di miglioramento si avvicinerà a un mezzo. Questa conclusione completa la giustificazione della seconda parte dell’affermazione di Fisher.
Supponiamo ora di spostare l’obiettivo del microscopio di una grande distanza – equivalente a una macromutazione –, anche questa volta in una direzione casuale; supponiamo per esempio di muoverlo di un centimetro. Ora, non importa in quale direzione operiamo questo movimento, in alto o in basso, il risultato sarà comunque quello di peggiorare la messa a fuoco rispetto a quella che era prima. Se ci capita di spostare l’obiettivo verso il basso, esso si troverà a undici millimetri dalla sua posizione ideale (e sarà andato probabilmente a frantumare il vetrino). Se ci capita invece di spostarlo verso l’alto, esso si troverà ora a nove millimetri dalla sua posizione ideale. Prima dei nostri interventi, esso si trovava a un solo millimetro dalla sua posizione ideale, cosicché, in un modo come nell’altro, la nostra «macromutazione» ha avuto effetto dannoso. Abbiamo fatto il calcolo per una mossa grandissima («macromutazione») e per una mossa piccolissima («micromutazione»). Potremmo fare ovviamente lo stesso calcolo per una varietà di mosse di grandezza intermedia, ma non caveremmo nulla di utile. Io penso che in realtà sia ora abbastanza ovvio che, quanto più piccolo sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo al caso estremo in cui le probabilità di un miglioramento saranno del 50 per cento; e quanto più grande sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo all’altro estremo, in cui le probabilità di un miglioramento saranno zero.
Questo ragionamento, come il lettore avrà notato, dipende dall’assunto iniziale che, prima che noi cominciassimo i nostri tentativi casuali di messa a punto, il microscopio era già abbastanza vicino a una messa a fuoco perfetta. Se inizialmente l’obiettivo del microscopio è lontano 2 centimetri dalla posizione corrispondente alla messa a fuoco, un mutamento casuale di 1 centimetro avrà un 50 per cento di probabilità di essere un miglioramento, esattamente come un mutamento casuale di un centesimo di centimetro. In questo caso la «macromutazione» sembra presentare il vantaggio di muovere più rapidamente l’obiettivo verso una messa a fuoco ottimale. Il ragionamento di Fisher sul carattere dannoso delle macromutazioni si applicherà qui a «megamutazioni» costituite, per esempio, da un movimento di 6 centimetri in una direzione casuale.
Perché, allora, Fisher poté fare il suo assunto iniziale che il microscopio fosse quasi a fuoco? L’assunto deriva dal ruolo svolto nell’analogia dal microscopio. Il microscopio dopo il tentativo di regolazione casuale sta per un animale mutante. Il microscopio prima del tentativo di messa a fuoco casuale sta per il genitore normale, non mutante, del presunto animale mutante. Essendo un genitore, dev’essere sopravvissuto abbastanza a lungo per riprodursi, e perciò non può che essere abbastanza vicino a una buona messa a punto. Per la stessa ragione, il microscopio prima dell’intervento casuale non può essere molto lontano da una buona messa a fuoco, giacché in caso contrario l’animale da esso rappresentato nell’analogia non avrebbe potuto sopravvivere. Questa è solo un’analogia, e non ha senso stare a discutere se l’«abbastanza vicino» significhi un centimetro o un decimo di centimetro o un millesimo di centimetro. Il punto importante è che, se noi consideriamo mutazioni di grandezza sempre crescente, verrà un punto in cui, quanto più grande è la mutazione, tanto meno probabile è che essa sia benefica; mentre, se consideriamo mutazioni di grandezza sempre decrescente, verrà un momento in cui la probabilità che una mutazione sia benefica sarà del 50 per cento.
Il ragionamento sul problema se macromutazioni come l’antennapedia possano mai essere benefiche (o almeno se si possa evitare che siano dannose) e se possano quindi dare origine al mutamento evolutivo ruota dunque attorno al problema di quanto sia «macro» la mutazione che stiamo considerando. Quanto più «macro» essa è, tanto più probabile è che sia deleteria, e tanto meno probabile che venga incorporata nell’evoluzione di una specie. In effetti, praticamente tutte le mutazioni studiate nei laboratori di genetica – le quali sono abbastanza macro, altrimenti i genetisti non le rileverebbero – sono deleterie agli animali che le posseggono (per una curiosa ironia, ho conosciuto persone le quali pensano che questo sia un argomento contro il darwinismo!). L’argomento del microscopio di Fisher fornisce quindi una ragione allo scetticismo verso le teorie saltazionistiche, almeno nella loro forma estrema.
Anche l’altra ragione generale per non credere al saltazionismo è una ragione statistica, e anche la sua forza dipende in modo quantitativo da quanto sia macro la macromutazione che stiamo postulando. In questo caso il problema in gioco è quello della complessità dei mutamenti evolutivi. Molti, anche se non la totalità, dei mutamenti evolutivi cui siamo interessati sono progressi nella complessità del progetto. L’esempio estremo dell’occhio, di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti, ben chiarisce questo punto. Gli animali con occhi come i nostri si sono evoluti da progenitori senza occhi. Un macroevoluzionista estremo potrebbe postulare che quest’evoluzione abbia avuto luogo per mezzo di una singola mutazione. Un animale che non aveva occhi, ma solo della nuda pelle là dove in seguito si sarebbero sviluppati gli occhi, ebbe un figlio «strano» con occhi completamente sviluppati, completi di cristallino a fuoco variabile, di diaframma dell’iride per variare la quantità di luce in ingresso, di una retina con milioni di fotocellule sensibili a tre colori, il tutto correttamente connesso per mezzo di nervi al cervello per fornirgli una corretta visione stereoscopica binoculare a colori.
Nel modello dei biomorfi abbiamo supposto che questo tipo di miglioramento pluridimensionale non possa avere luogo. Per produrre un occhio dal nulla non occorre infatti solo un miglioramento, bensì un gran numero di miglioramenti. Ciascuno di questi miglioramenti è alquanto improbabile di per sé, ma non così improbabile da risultare impossibile. Quanto maggiore è il numero dei miglioramenti simultanei che consideriamo, tanto più improbabile è però che essi possano verificarsi simultaneamente. La coincidenza di una loro occorrenza simultanea ha un grado di improbabilità pari a quello di saltare a una grande distanza attraverso il Paese dei Biomorfi, arrivando in un punto particolare prestabilito. Se decidessimo di considerare un numero di miglioramenti abbastanza grande, la loro occorrenza simultanea diventerebbe tanto improbabile da risultare, a ogni buon conto, impossibile. Ci siamo soffermati già abbastanza a lungo su questo argomento, ma potrebbe essere utile tracciare una distinzione fra due tipi di macromutazione ipotetica, i quali sembrerebbero esclusi entrambi dall’argomento della complessità mentre in realtà solo uno di essi ne è di fatto escluso. Io li chiamerò, per ragioni che diventeranno subito chiare, macromutazioni Boeing 747 e macromutazioni DC8 allungato.
Le macromutazioni Boeing 747 sono le uniche realmente escluse dall’argomento della complessità appena citato. Esse prendono il nome dal memorabile fraintendimento della teoria della selezione naturale da parte dell’astronomo Fred Hoyle. Questi paragonò la selezione naturale, nella sua presunta improbabilità, a un uragano che soffiasse in un cantiere di demolizioni e rimontasse per caso un Boeing 747. Come abbiamo visto nel capitolo I, questa è un’analogia del tutto falsa con la selezione naturale, mentre è un’analogia molto buona con l’idea che certi tipi di macromutazioni possano dare origine al mutamento evoluzionistico. In effetti l’errore fondamentale di Hoyle fu quello di pensare (senza rendersene conto) che la teoria della selezione naturale dipendesse da macromutazioni. L’idea che una singola macromutazione dia origine a un occhio pienamente funzionante, con le proprietà elencate sopra, là dove in precedenza c’era solo una chiazza di pelle nuda, è in effetti altrettanto improbabile quanto quella che un uragano monti un Boeing 747. Ecco perché designo questa sorta di macromutazione ipotetica col nome di macromutazione Boeing 747.
Le macromutazioni DC8 allungato sono mutazioni che, pur potendo essere grandi nell’entità dei loro effetti, risultano non essere grandi nei termini della loro complessità. Il DC8 allungato è un aereo di linea che fu costruito modificando un aereo di linea precedente, il DC8. È simile a un DC8, ma con la fusoliera allungata. Rappresentò un miglioramento almeno da un punto di vista, nel senso che poteva trasportare un numero di passeggeri superiore rispetto al DC8 originale. L’allungamento in questione è un grande accrescimento in lunghezza, e in questo senso è analogo a una macromutazione. Fatto più interessante, l’aumento in lunghezza è, a prima vista, un mutamento complesso. Per allungare la fusoliera di un aereo di linea non è sufficiente aggiungere un tratto di cabina, ma si devono allungare innumerevoli condotti, fili, tubi dell’aria e cavi elettrici. Si deve montare un numero molto maggiore di sedili, di portacenere, di lampade per la lettura, di selettori di musica a dodici canali e di prese d’aria. A prima vista parrebbe che in un DC8 allungato ci fosse molta più complessità, ma è davvero così? La risposta è no, almeno nella misura in cui le cose «nuove» nell’aereo allungato sono solo un «maggior numero delle cose vecchie». I biomorfi del capitolo III presentano spesso macromutazioni della varietà DC8 allungato.
Che cosa ha a che fare tutto questo con le mutazioni che si verificano negli animali reali? La risposta è che alcune mutazioni reali causano grandi mutamenti che sono molto simili al mutamento dal DC8 al DC8 allungato, e alcuni di questi mutamenti, pur essendo in un certo senso «macro»-mutazioni, sono stati decisamente incorporati nell’evoluzione. I serpenti, per esempio, hanno tutti un numero di vertebre molto maggiore di quello dei loro progenitori. Noi potremmo essere certi di questo fatto anche se non avessimo fossili, poiché i serpenti hanno un numero di vertebre molto maggiore rispetto ai loro cugini che sono sopravvissuti. Inoltre varie specie di serpenti hanno un numero di vertebre diverso, cosa che induce a pensare che il loro numero di vertebre dev’essere mutato nel corso dell’evoluzione dopo l’epoca del loro progenitore comune, e anche abbastanza spesso.
Ora, perché il numero delle vertebre in un animale possa cambiare, occorre qualcosa di più del semplice inserimento di un osso extra. A ogni vertebra è infatti associato un insieme di nervi, di vasi sanguigni, di muscoli ecc., esattamente come a ogni fila di sedili in un aereo è associato un insieme di cuscini, un insieme di poggiatesta, un insieme di prese per cuffia, un insieme di lampade per la lettura con i relativi fili elettrici ecc. La parte mediana del corpo di un serpente, come la parte mediana del corpo di un aereo di linea, è composta da un certo numero di segmenti, molti dei quali sono esattamente simili fra loro, per quanto complessi possano essere singolarmente. Perciò, per aggiungere nuovi segmenti, tutto ciò che si deve mettere in atto è un semplice processo di duplicazione. Poiché i meccanismi genetici per produrre un segmento di serpente – meccanismi genetici di grande complessità, che impiegarono per formarsi molte generazioni di evoluzione graduale, passo passo – esistono già, nuovi segmenti identici possono essere aggiunti facilmente per mezzo di singole mutazioni. Se noi pensiamo ai geni come a «istruzioni per sviluppare un embrione», un gene per inserire segmenti extra può essere letto semplicemente come «qui aggiungi un altro elemento uguale». Io immagino che le istruzioni per costruire il primo DC8 allungato siano state abbastanza simili a questa.
Possiamo essere certi che, nell’evoluzione dei serpenti, il numero delle vertebre mutò sempre di numeri interi e mai di frazioni. È impossibile immaginare un serpente con 26,3 vertebre. Un serpente o aveva 26 vertebre o ne aveva 27, ed è chiaro che dovettero esserci casi in cui un serpente figlio aveva almeno un’intera vertebra più dei suoi genitori. Ciò significa che esso doveva avere un’intera serie extra di nervi, vasi sanguigni, blocchi di muscoli ecc. In un certo senso, quindi, questo serpente era un macro-mutante, ma solo nel senso debole del DC8 allungato. È facile credere che singoli serpenti con mezza dozzina di vertebre più dei loro genitori possano avere avuto origine da una sola mutazione. L’«argomento della complessità» contro l’evoluzione a salti non si applica alle macromutazioni del tipo DC8 allungato perché, se esaminiamo in modo dettagliato la natura del mutamento in gioco, ci rendiamo conto che non si tratta di vere macromutazioni in un senso reale. Esse sono macromutazioni solo se consideriamo, ingenuamente, il prodotto finito, l’adulto. Se esaminiamo invece i processi dello sviluppo embrionale, questi risultano essere micromutazioni, nel senso che il grande mutamento apparente nell’adulto è conseguenza di un piccolo mutamento nelle istruzioni embrionali. Lo stesso possiamo dire per l’antennapedia nei moscerini della frutta (Drosophila) e per le molte altre cosiddette «mutazioni omeotiche».
Si conclude così la mia digressione sulle macromutazioni e sull’evoluzione a salti. Essa era necessaria perché la teoria degli equilibri punteggiati viene spesso confusa col saltazionismo. È stata comunque pur sempre una digressione, poiché la teoria degli equilibri punteggiati è l’argomento principale di questo capitolo, e questa teoria non presenta in realtà nessuna connessione con le macromutazioni e col vero saltazionismo.
Le «lacune» nella documentazione fossile di cui parlano Eldredge e Gould e gli altri «puntuazionisti» non hanno, quindi, niente a che fare con la vera macroevoluzione, e sono lacune molto più piccole di quelle che suscitano tanta eccitazione nei creazionisti. Inoltre Eldredge e Gould introdussero in origine la loro teoria non come radicalmente e rivoluzionariamente contraria al darwinismo comune, «convenzionale» – che è il modo in cui essa fu spacciata in seguito –, bensì come qualcosa che seguiva dal darwinismo convenzionale, qual era accettato da tempo, purché venisse correttamente inteso. Per conseguire questa comprensione corretta, temo che avremo bisogno di un’altra digressione, questa volta sul problema di come hanno origine nuove specie, il processo noto come «speciazione».
La risposta di Darwin al problema dell’origine delle specie fu, in un senso generale, che le specie erano discese da altre specie. Inoltre l’albero genealogico della vita è un albero ramificato, il che significa che varie specie moderne possono essere ricondotte a un’unica specie ancestrale. Per esempio, leoni e tigri appartengono oggi a specie diverse ma sono derivati entrambi da una singola specie ancestrale, probabilmente non molto tempo fa. Tale specie ancestrale potrebbe identificarsi con una delle due specie moderne, oppure potrebbe coincidere con una terza specie moderna, oppure ancora potrebbe essere oggi estinta. Similmente, esseri umani e scimpanzè appartengono oggi chiaramente a specie diverse, ma i loro progenitori, qualche milione di anni fa, appartenevano a una singola specie. La speciazione è un processo attraverso il quale una singola specie divenne due specie, una delle quali potrebbe essere ancora identica alla specie originaria.
La ragione per cui la speciazione è considerata un problema difficile è la seguente. Tutti i membri dell’ipotetica singola specie ancestrale sono interfecondi: per molte persone, in effetti, proprio questo è il significato dell’espressione «singola specie». Perciò, ogni volta che una nuova specie figlia comincia a staccarsi, il distacco rischia di essere frustrato dagli incroci. Possiamo immaginare che i presunti progenitori dei leoni e i presunti progenitori delle tigri non riuscissero a separarsi in quanto continuavano ad accoppiarsi fra loro e continuavano quindi a rimanere simili. Il lettore non deve leggere troppo nel mio uso della parola «frustrato», come se leoni e tigri ancestrali «desiderassero», in qualche senso, separarsi gli uni dagli altri. Il fatto è, semplicemente, che nel corso dell’evoluzione le specie sono andate divergendo fra loro, e a prima vista questo fatto degli incroci ci rende difficile capire in che modo si sia determinata questa divergenza.
Pare quasi certo che la principale risposta corretta a questo problema sia quella ovvia. Non ci sarà alcun problema di incroci se i leoni ancestrali e le tigri ancestrali vennero a trovarsi in parti del mondo diverse e quindi nell’impossibilità di incrociarsi. Ovviamente, non è che essi si siano recati in continenti diversi per poter divergere fra loro: essi non si consideravano affatto leoni ancestrali e tigri ancestrali! Dato però che la singola specie ancestrale si diffuse in continenti diversi, diciamo l’Africa e l’Asia, gli appartenenti alla popolazione che si trovava in Africa non poterono più incrociarsi con i membri della popolazione asiatica perché non si incontravano più. Se ci fu una tendenza per gli animali sui due continenti a evolversi in direzioni diverse, sotto l’influenza della selezione naturale o sotto l’influenza del caso, gli incroci non costituirono più una barriera alla loro divergenza e infine essi divennero due specie distinte.
Ho parlato di continenti diversi per maggiore chiarezza, ma il principio della separazione geografica come barriera all’incrocio può applicarsi agli animali che vivono al di là di un deserto, di una catena di montagne, di un fiume o persino di un’autostrada. Esso può applicarsi anche ad animali non separati da alcun’altra barriera che non sia la semplice distanza. I toporagni della Spagna non possono incrociarsi con i toporagni della Mongolia, e possono divergere, evolutivamente parlando, dai toporagni della Mongolia, quand’anche dalla Spagna alla Mongolia esistesse una catena ininterrotta di toporagni che si incrociassero liberamente. L’idea di una separazione geografica come chiave della speciazione è nondimeno più chiara se la pensiamo nei termini di una barriera fisica reale, come il mare o una catena di montagne. Le catene di isole, in effetti, sono probabilmente un fertile terreno di origine di nuove specie.
Questa è dunque la nostra visione neodarwiniana ortodossa di come ha origine una specie tipica, per divergenza da una specie ancestrale. Si prende l’avvio dalla specie ancestrale, una grande popolazione di animali piuttosto uniformi che si incrociano liberamente fra loro, dispersi su un’estesa massa continentale. Potrebbe trattarsi di qualsiasi sorta di animali, ma continuiamo a pensare ai toporagni. La massa continentale è divisa in due da una catena di montagne. Questo è un territorio ostile, ed è improbabile che i toporagni lo attraversino; l’impresa non è però del tutto impossibile, e qualche volta degli individui riescono a raggiungere le pianure dall’altro lato. Qui essi possono prosperare, e danno origine a una popolazione periferica della specie, che non ha rapporti con la parte principale della popolazione. Ora le due popolazioni rimangono reciprocamente isolate e gli individui di ciascuna popolazione si incrociano liberamente fra loro, mescolando i loro geni da ciascun lato della montagna ma non attraverso la montagna. Al passare del tempo, ogni mutamento nella composizione genetica di una popolazione si diffonde attraverso l’attività di incrocio fra i suoi membri, senza estendersi però all’altra popolazione. Alcuni di questi mutamenti possono essere determinati dalla selezione naturale, la quale può essere diversa ai due lati della catena di montagne: è infatti difficile attendersi che condizioni meteorologiche, predatori e parassiti siano esattamente gli stessi ai due lati di questa barriera geografica. Altri potrebbero essere dovuti al solo caso. Quali che siano le cause dei mutamenti genetici, gli incroci tenderanno a diffonderli all’interno di ciascuna delle due popolazioni, ma non fra le due popolazioni. Così esse divergeranno geneticamente, differenziandosi sempre più fra loro.
Dopo un po’ di tempo le due popolazioni saranno diventate così diverse fra loro che i naturalisti propenderanno per vederle come appartenenti a «razze» diverse. Dopo un tempo più lungo si saranno così diversificate che dovremmo classificarle come specie diverse. Immaginiamo ora che il clima si riscaldi, così che il viaggio attraverso i valichi montani diventi più facile e che una parte degli individui della nuova specie comincino piano piano a far ritorno ai territori ancestrali. Quando si incontrano con i discendenti dei loro cugini, con cui avevano perduto da molto tempo i contatti, il loro corredo genetico risulta mutato a tal punto che essi non sono più interfecondi. Quando l’ibridazione riesce, la prole che ne deriva è malata o sterile come i muli. Così la selezione naturale penalizza ogni tendenza, da parte di individui di entrambe le parti, all’ibridazione con l’altra specie o persino con l’altra razza. La selezione naturale perfeziona in tal modo il processo dell’«isolamento riproduttivo» iniziato con l’interposizione casuale di una catena di montagne. A questo punto la «speciazione» è completa. Ora abbiamo due specie dove in precedenza ce n’era una, e le due specie possono coesistere nella stessa area senza incrociarsi fra loro.
In realtà è improbabile che le due specie riescano a coesistere molto a lungo. Questo non a causa della possibilità di tornare a incrociarsi, ma perché sarebbero in competizione fra loro. È un principio di ecologia diffusamente accettato che due specie con lo stesso stile di vita non possano coesistere a lungo in un posto in quanto entrano in competizione fra loro e l’una o l’altra finisce con l’essere condannata all’estinzione. Ovviamente le nostre due popolazioni di toporagni potrebbero non avere più lo stesso stile di vita; per esempio, la nuova specie, durante il suo periodo di evoluzione dall’altra parte delle montagne, potrebbe essersi specializzata nella predazione a danno di tipi di insetti diversi. Se invece fra le due specie c’è una competizione degna di nota, la maggior parte degli ecologi si attenderebbero che nell’area di sovrapposizione l’una o l’altra specie si estinguesse. Se a estinguersi fosse la specie originaria, ancestrale, diremmo che essa è stata soppiantata dalla specie nuova, immigrante.
La teoria della speciazione come conseguenza di una iniziale separazione geografica è stata per parecchio tempo una pietra miliare del neodarwinismo ortodosso, ed è ancora accettata da tutti come il processo principale per mezzo del quale hanno origine nuove specie (alcuni autori pensano che ce ne siano anche altri). La sua inclusione nel darwinismo moderno fu dovuta in gran parte all’influenza del distinto zoologo Ernst Mayr. Quel che fecero i puntuazionisti, quando proposero per la prima volta la loro teoria, fu di chiedersi: dato che, come la maggior parte dei neodarwiniani, noi accettiamo la teoria ortodossa che la speciazione prenda l’avvio dall’isolamento geografico, che cosa dovremmo attenderci di osservare nella documentazione fossile?
Richiamiamo alla mente la nostra popolazione ipotetica di toporagni, con la nuova specie che, dopo avere cominciato a divergere dalla popolazione principale dal lato lontano della catena di montagne, aveva poi fatto ritorno nel suo territorio originario e aveva infine spinto la specie ancestrale all’estinzione. Supponiamo che questi toporagni avessero lasciato dei fossili, e addirittura che la documentazione fossile fosse perfetta, senza lacune dovute alla sfortunata omissione di stadi chiave. Che cosa dovremmo attenderci di trovare documentato in quei fossili? Una transizione uniforme dalla specie ancestrale alle specie figlie? Certamente no, almeno se scaviamo nella massa continentale principale in cui vissero i toporagni ancestrali originari, e in cui la nuova specie fece poi ritorno. Pensiamo alla storia di ciò che accadde in realtà nella massa continentale principale. C’erano toporagni ancestrali che vivevano e si riproducevano felicemente, non avendo alcuna ragione particolare per cambiare. Non c’è alcuna difficoltà ad ammettere che i loro cugini dall’altro lato delle montagne stessero evolvendosi attivamente, ma i loro fossili si trovano tutti al di là delle montagne, cosicché noi non li troviamo nella massa continentale principale in cui stiamo scavando. Poi, d’improvviso (d’improvviso nella scala di tempo geologica) la nuova specie ritorna nel territorio d’origine, entra in competizione con la specie principale e forse la sostituisce. D’improvviso i fossili che troviamo salendo su per gli strati della massa continentale principale mutano. In precedenza i fossili erano tutti della specie ancestrale. Ora, bruscamente e senza transizioni visibili, appaiono fossili della nuova specie, e i fossili della vecchia specie scompaiono.
Le «lacune», lungi dall’essere tediose imperfezioni o motivi di imbarazzo, risultano essere esattamente quel che dovremmo concretamente attenderci se prendiamo sul serio la nostra ortodossa teoria neodarwiniana della speciazione. La ragione per cui la «transizione» da specie ancestrali a specie discendenti appare brusca è semplicemente che, quando osserviamo una sequenza di fossili riportati in luce in una località, non osserviamo probabilmente affatto un evento evoluzionistico, bensì un evento migratorio, l’arrivo di una nuova specie da un’altra area geografica. Senza dubbio ci furono eventi evolutivi, e una specie si sviluppò realmente, forse in modo graduale, da un’altra. Ma per poter vedere la transizione evolutiva documentata nei fossili, dovremmo scavare altrove: in questo caso dall’altro lato delle montagne.
L’osservazione di Eldredge e Gould avrebbe potuto quindi essere presentata più modestamente come un utile salvataggio di Darwin e dei suoi successori da quella che era parsa loro una scomoda difficoltà. E questo fu, in effetti, il modo in cui fu presentata in principio. I darwiniani si erano sempre preoccupati dell’apparente lacunosità della documentazione fossile ed erano parsi costretti a ricorrere ad argomentazioni speciali per spiegare l’imperfezione delle prove. Lo stesso Darwin aveva scritto:
Ho tentato di dimostrare che la documentazione geologica è estremamente incompleta […] Queste cause […] spiegano in larga misura perché – pur trovando numerosi legami – non incontriamo un numero infinito di varietà, che colleghino fra di loro con gradazione perfetta tutte le forme estinte e viventi […] Chiunque si rifiuti di ammettere l’imperfezione dei documenti geologici dovrà respingere tutta la mia teoria. (capitolo XI)
Eldredge e Gould avrebbero potuto ridurre a questo il loro messaggio principale: non preoccuparti, Darwin: anche se la documentazione fossile fosse perfetta, non dovresti attenderti di vedere una progressione graduata finemente scavando solo in un luogo, per la semplice ragione che la maggior parte del mutamento evoluzionistico si verificò in qualche altro luogo! Essi avrebbero potuto spingersi ancora oltre e dire:
Darwin, quando hai detto che la documentazione fossile era imperfetta, stavi minimizzando. Non solo è imperfetta, ma ci sono buone ragioni per attendersi che sia particolarmente imperfetta proprio quando diventa interessante, proprio quando sta avendo luogo il mutamento evoluzionistico; ciò si deve in parte al fatto che l’evoluzione si è verificata di solito in un posto diverso da quelli in cui troviamo la maggior parte dei nostri fossili e in parte al fatto che, anche se siamo abbastanza fortunati da scavare in una delle piccole aree esterne in cui si è verificata la maggior parte del mutamento evoluzionistico, quel mutamento evoluzionistico (anche se ancora graduale) occupa un tempo così breve che ci occorrerebbe una documentazione fossile eccezionalmente ricca per poterlo seguire!
Specialmente nei loro scritti posteriori, nei quali furono seguiti con grande attenzione da molti giornalisti, essi preferirono invece spacciare le loro idee come radicalmente opposte a quelle di Darwin e anche alla sintesi neodarwiniana. Essi fecero questo sottolineando il gradualismo della visione darwiniana dell’evoluzione in contrapposizione al loro proprio puntuazionismo, caratterizzato da mutamenti improvvisi, irregolari e sporadici. Essi, e specialmente Gould, videro addirittura delle analogie fra la loro posizione e le vecchie scuole del «catastrofismo» e del «saltazionismo». Del saltazionismo ci siamo già occupati. Il catastrofismo fu un tentativo del Settecento e dell’Ottocento di riconciliare una qualche forma di creazionismo con gli scomodi fatti della documentazione fossile. I catastrofisti credevano che il carattere apparentemente progressivo della documentazione fossile riflettesse in realtà una serie di creazioni discrete, ciascuna delle quali doveva essersi conclusa con un’estinzione di massa catastrofica. La più recente di queste catastrofi era stata il diluvio di Noè.
I confronti fra il moderno puntuazionismo da un lato e il catastrofismo o saltazionismo dall’altro hanno una forza puramente poetica. Essi sono, se posso coniare un ossimoro, profondamente superficiali: sembrano impressionanti su un piano pseudoartistico, letterario, ma non danno alcun contributo a una comprensione seria, e per di più potendo fornire un aiuto e conforto spuri ai moderni creazionisti nella loro lotta, spesso coronata da qualche successo, per sovvertire l’istruzione e l’editoria scolastica in America. Il fatto è che, nel senso più pieno e più serio, Eldredge e Gould sono in realtà altrettanto gradualisti quanto Darwin o qualunque fra i suoi seguaci. La differenza consiste solo nel fatto che essi vorrebbero comprimere l’intero mutamento graduale in brevi esplosioni di attività anziché lasciare che continui sempre; e sottolineano che la maggior parte del mutamento graduale si verifica in aree geografiche lontane da quelle in cui vengono portati alla luce la maggior parte dei fossili.
Non è dunque in realtà al gradualismo di Darwin che si oppongono i puntuazionisti: gradualismo significa che ogni generazione è solo lievemente diversa dalla generazione precedente; occorrerebbe essere macroevoluzionisti per opporsi a questa tesi ed Eldredge e Gould non lo sono. Risulta piuttosto che essi e altri puntuazionisti si oppongono alla presunta fede di Darwin nella costanza dei ritmi di evoluzione. Essi obiettano a tale fede perché pensano che l’evoluzione (che è ancora innegabilmente un’evoluzione gradualistica) abbia luogo rapidamente durante esplosioni relativamente brevi di attività (eventi di speciazione, i quali forniscono una sorta di atmosfera di crisi in cui la presunta resistenza normale al mutamento evoluzionistico è infranta); e che l’evoluzione abbia luogo molto lentamente o per nulla durante i lunghi periodi interposti di stasi. Quando diciamo «relativamente» brevi intendiamo, ovviamente, brevi rispetto alla scala di tempo geologica in generale. Persino le esplosioni improvvise di attività dei puntuazionisti, pur potendo essere considerate istantanee a una scala di tempo geologica, hanno ancora una durata che si misura in decine o centinaia di migliaia di anni.
È illuminante in proposito una riflessione del famoso evoluzionista americano G. Ledyard Stebbins. Egli non è specificamente interessato all’evoluzione a salti, ma cerca di drammatizzare la rapidità con cui il mutamento evolutivo può aver luogo, visto di contro alla scala temporale del tempo geologico disponibile. Egli immagina una specie di animale delle dimensioni press’a poco di un topo. Suppone quindi che la selezione naturale cominci a favorire un aumento della mole corporea, ma solo molto leggermente. Forse i maschi più grossi godono di un lieve vantaggio nella competizione per le femmine. Ogni volta i maschi di dimensioni medie hanno leggermente meno successo dei maschi un pochino più grossi della media. Stebbins attribuisce al vantaggio matematico goduto dagli individui più grossi nel suo esempio ipotetico un valore quantitativo esatto. Egli assegna a tale vantaggio un valore così piccolo da non risultare misurabile da osservatori umani. E il ritmo del mutamento evolutivo che esso determina è di conseguenza così lento da non essere rilevabile nella durata di una vita umana normale. Per quanto concerne il punto di osservazione dello scienziato che studia l’evoluzione sul campo, quindi, questi animali non si evolvono affatto. Nondimeno essi stanno evolvendosi, benché a un ritmo molto lento – che è quello dato dall’assunto matematico di Stebbins –, ma persino a un ritmo così blando essi finirebbero col raggiungere le dimensioni di un elefante. Quanto tempo richiederebbe un tale sviluppo? Un tempo ovviamente lungo a una scala umana, ma in casi come questi le scale umane non sono pertinenti. Stiamo infatti parlando di tempo geologico. Stebbins calcola che a questo ritmo evolutivo lentissimo occorrerebbero per l’evoluzione di un animale, da un peso medio di 40 grammi (dimensioni del topo) a un peso medio di oltre 6.000.000 di grammi (dimensioni dell’elefante), circa 12.000 generazioni. Supponendo per ogni generazione una durata di 5 anni, che è più lunga di quella di un topo ma più breve di quella di un elefante, 12.000 generazioni occuperebbero circa 60.000 anni. 60.000 anni sono un tempo troppo breve per essere misurato dagli usuali metodi geologici di datazione della documentazione fossile. Come dice Stebbins: «L’origine di una nuova specie di animale in 100.000 anni o meno è considerata dalla paleontologia come “improvvisa” o “istantanea”».
I puntuazionisti non parlano di salti nell’evoluzione, bensì di episodi di evoluzione relativamente rapida. E persino questi episodi non hanno bisogno di apparire rapidi su scala umana per apparire istantanei alla scala geologica. Qualunque cosa possiamo pensare della teoria degli equilibri punteggiati in sé, è troppo facile confondere il gradualismo (la convinzione, nutrita dai moderni puntuazionisti oltre che da Darwin, che non ci siano salti improvvisi fra una generazione e la seguente) con la concezione dell’«evoluzione a velocità costante» (alla quale i puntuazionisti si oppongono, attribuendola, a torto, a Darwin). Queste due concezioni non sono affatto la stessa cosa. Il modo appropriato per caratterizzare le convinzioni dei puntuazionisti è il seguente: «brevi episodi di rapido mutamento graduale, intervallati a lunghi periodi di “stasi” (ristagno evolutivo)». L’accento viene posto quindi sui lunghi periodi di stasi, visti come il fenomeno in precedenza trascurato che ha bisogno in realtà di una spiegazione. Il vero contributo dei puntuazionisti è l’accento da loro posto sulla stasi, non la loro presunta opposizione al gradualismo, giacché essi sono in verità gradualisti non meno di tutti gli altri.
Persino l’accento sulla stasi si può trovare, in forma meno esagerata, nella teoria della speciazione di Mayr. Questi credeva che, delle due razze geograficamente separate, la grande popolazione ancestrale originaria sia meno soggetta a mutare della nuova popolazione «figlia» (dall’altro lato delle montagne nel caso del nostro esempio dei toporagni). Ciò non si deve solo al fatto che la popolazione figlia è quella che si è trasferita in nuove aree in cui è probabile che le condizioni siano diverse e le pressioni della selezione naturale mutate, bensì al fatto che ci sono ragioni teoriche (sottolineate da Mayr ma la cui importanza è opinabile) per pensare che grandi popolazioni di individui interfecondi abbiano una tendenza intrinseca a resistere al mutamento evolutivo. Un’analogia idonea è l’inerzia di un grande oggetto pesante, difficile da spostare. Piccole popolazioni periferiche, grazie alla loro piccola mole, hanno secondo la teoria maggiori probabilità intrinseche di evolversi. Perciò, benché io abbia parlato delle due popolazioni o razze di toporagni come divergenti l’una dall’altra, Mayr preferirebbe vedere la popolazione originaria, ancestrale, come relativamente statica, e la nuova popolazione come divergente da essa. Il ramo dell’albero evoluzionistico non si biforca in due rami uguali, ma c’è un tronco principale da cui si stacca un minuscolo ramo laterale.
I proponenti degli equilibri punteggiati accolsero questo suggerimento di Mayr e lo dilatarono in una forte convinzione che la «stasi», o assenza di mutamento evolutivo, sia la norma per una specie. Essi ritengono che in grandi popolazioni esistano forze genetiche che resistono attivamente al mutamento evoluzionistico. Il mutamento evoluzionistico, secondo loro, è un evento raro, coincidente con la speciazione, nel senso che, a loro modo di vedere, le condizioni nelle quali si formano nuove specie – la separazione geografica di piccole subpopolazioni isolate – sono le condizioni stesse sotto cui le forze che normalmente resistono al mutamento evolutivo si allentano o vengono sopraffatte. La speciazione corrisponde a un tempo di insurrezione, o di rivoluzione. Ed è proprio durante questi tempi di sconvolgimento che si concentra il mutamento evolutivo, mentre per la maggior parte della sua storia una linea genealogica ristagna.
Non è vero che Darwin credesse che l’evoluzione procede a un ritmo costante. Certamente non lo credeva nel senso ridicolmente estremo da me messo in satira nella mia parabola dei figli di Israele, e io non credo che vi credesse in alcun senso importante. La citazione del brano seguente, ben noto, dalla quarta edizione (e edizioni successive) dell’Origine delle specie irrita Gould in quanto egli pensa che esso non sia rappresentativo del pensiero generale di Darwin:
Molte specie una volta formatesi non subiscono alcun ulteriore mutamento […] è probabile che i periodi durante i quali ciascuna ha subito delle modificazioni, sebbene numerosi e lunghi se computati in anni, siano stati brevi in confronto ai periodi durante i quali ogni specie è rimasta immutata. (capitolo XI)
Gould desidera minimizzare questa frase e altre simili a essa, dicendo:
Non si può fare la storia per mezzo di citazioni scelte e della ricerca di precisazioni e limitazioni contenute in note a piè di pagina. I criteri appropriati sono il tenore generale e l’impatto storico. I contemporanei o i discendenti di Darwin lo lessero mai come un saltazionista?
Gould ha ovviamente ragione sul tenore generale e sull’impatto storico, ma l’ultima frase del brano citato è un passo falso estremamente rivelatore. Ovviamente, nessuno ha mai letto Darwin come un sostenitore dell’evoluzione per salti e, fatto altrettanto ovvio, Darwin fu sempre ostile a una concezione del genere; ma il punto è che, quando ci occupiamo della nozione di equilibri punteggiati, non è affatto in discussione l’evoluzione per salti. Come ho già sottolineato, la teoria degli equilibri punteggiati, per ammissione di Eldredge e di Gould, non è una teoria macroevoluzionistica, ossia non ammette l’evoluzione per salti. I salti che essa postula non sono veri salti, compiuti nell’arco di una singola generazione. Essi sono diffusi su un gran numero di generazioni, nell’arco di periodi che, in una stima dello stesso Gould, possono estendersi su forse decine di migliaia di anni. La teoria degli equilibri punteggiati è una teoria gradualistica, anche se insiste sull’esistenza di lunghi periodi di stasi inframmezzati con esplosioni relativamente brevi di evoluzione gradualistica. Gould è stato sviato dall’accento retorico da lui posto sulla somiglianza puramente poetica o letteraria fra il puntuazionismo da un lato e il vero saltazionismo dall’altro.
Io penso che a questo punto possa essere utile, per chiarire l’argomento, compendiare una varietà di punti di vista possibili sui ritmi dell’evoluzione. In una posizione pericolosa abbiamo la vera macroevoluzione, di cui mi sono già occupato a sufficienza. Questa forma di evoluzione non ha autentici sostenitori fra i biologi moderni. Chiunque non sia un sostenitore del saltazionismo è un gradualista, e fra questi sono anche Eldredge e Gould, comunque decidano di volersi presentare. All’interno del gradualismo possiamo distinguere diverse convinzioni sui ritmi dell’evoluzione (graduale). Alcune di queste convinzioni, come abbiamo visto, presentano una somiglianza puramente superficiale («letteraria» o «poetica») col vero saltazionismo antigradualistico, ed ecco perché possono venire talvolta confuse con questo.
A un altro estremo abbiamo la sorta di «evoluzione a velocità costante» che ho rappresentato in modo caricaturale nella parabola dell’Esodo con cui ho iniziato questo capitolo. Un fautore della forma estrema dell’evoluzione a velocità costante crede che l’evoluzione proceda sempre in modo continuo e inesorabile, sia o no in corso un fenomeno di ramificazione o di speciazione. Egli crede che la quantità di mutamento evolutivo sia strettamente proporzionale al tempo trascorso. Per una curiosa ironia, una forma di questa convinzione ha recentemente acquistato molto credito fra i moderni genetisti molecolari. Si possono addurre buoni argomenti a sostegno della tesi che il mutamento evolutivo al livello delle molecole di proteine proceda in realtà a un ritmo costante, esattamente come gli ipotetici figli di Israele; e questo anche se caratteri esteriormente osservabili come braccia e gambe si evolvono in una maniera altamente punteggiata. Ci siamo già imbattuti in questo argomento nel capitolo V, e io tornerò a menzionarlo nel capitolo seguente. Ma per quanto concerne l’evoluzione adattiva di strutture e modelli di comportamento su vasta scala, nessuno fra gli evoluzionisti accetterebbe mai la nozione di un’evoluzione a velocità costante, e senza dubbio l’avrebbe rifiutata anche Darwin. Chiunque non sia un sostenitore dell’evoluzione a velocità costante, è un sostenitore dell’evoluzione a velocità variabile.
All’interno della nozione che l’evoluzione proceda a velocità variabile, dobbiamo distinguere due tipi di convinzione diversi, che possiamo designare come «evoluzione a velocità variabile discreta» ed «evoluzione a velocità variabile in modo continuo». Un «discretista» estremo non solo crede che l’evoluzione abbia una velocità variabile, ma pensa che la velocità passi in modo brusco da un livello discreto a un altro, come il cambio di velocità di una macchina. Egli potrebbe credere, per esempio, che l’evoluzione abbia solo due velocità: molto veloce e ferma (non posso fare a meno di ricordare l’umiliazione del primo giudizio scolastico scritto su di me dalla direttrice della mia scuola quando avevo sette anni, valutando le mie prestazioni nel piegare gli indumenti, fare un bagno freddo e altre routine quotidiane della scuola elementare: «Dawkins ha solo tre velocità: lento, molto lento e fermo»). L’evoluzione «fermata» è la «stasi» che, secondo i puntuazionisti, sarebbe caratteristica di grandi popolazioni. L’evoluzione in presa diretta è quella che si ha durante la speciazione, in piccole popolazioni dinamiche isolate alla periferia di grandi popolazioni evolutivamente statiche. Secondo questa concezione, l’evoluzione si trova sempre in corrispondenza di una delle due posizioni del cambio, mai in una posizione intermedia. Eldredge e Gould tendono al discretismo, e sotto questo aspetto sono autenticamente radicali. Essi potrebbero essere chiamati «discretisti variabili». Per inciso, non c’è alcuna ragione particolare per cui un discretista variabile debba necessariamente insistere sulla speciazione come il tempo in cui l’evoluzione è in presa diretta. In pratica, però, la maggior parte di loro lo fa.
I sostenitori della «velocità discreta variabile in modo continuo» credono invece che la rapidità dell’evoluzione fluttui in modo continuo da molto veloce a molto lenta a ferma, con tutte le gradazioni intermedie. Essi non vedono alcuna particolare ragione per insistere su certe velocità più che su certe altre. In particolare, per loro la stasi è solo un caso estremo di evoluzione lentissima. Per un puntuazionista nella stasi c’è qualcosa di molto speciale. La stasi, per lui, non è solo un’evoluzione così lenta da avere velocità zero, non è solo un’assenza passiva di evoluzione a causa della mancanza di una forza che spinga a favore del mutamento. Essa rappresenta piuttosto una resistenza positiva al mutamento evolutivo. È quasi come se si pensasse che le specie presentassero una resistenza attiva per non evolversi, nonostante l’esistenza di forze che spingono a favore dell’evoluzione.
Sono in maggior numero i biologi che concordano sull’esistenza della stasi come fenomeno reale che non quelli che si trovano d’accordo sulle sue cause. Consideriamo, per fare un esempio estremo, il celacanto Latimeria. I celacanti erano un gruppo molto esteso di «pesci» (in realtà, benché vengano chiamati pesci, sono imparentati più strettamente con noi di quanto non lo siano con le trote o con le aringhe), che prosperarono più di 250 milioni di anni fa e che si estinsero a quanto pare press’a poco alla stessa epoca dei dinosauri. Dico «a quanto pare» perché nel 1938, con grande stupore del mondo zoologico, uno strano pesce, lungo quasi un metro e mezzo e con pinne insolite simili a gambe, apparve nella rete di un peschereccio d’alto mare, al largo della costa del Sudafrica. Anche se il pesce andò quasi distrutto prima che ne venisse riconosciuto il valore inestimabile per la scienza, i suoi resti in decomposizione furono fortunatamente sottoposti appena in tempo all’esame di un autorevole zoologo sudafricano. Non riuscendo a credere ai suoi occhi, egli lo identificò come un celacanto vivente, e lo chiamò Latimeria. Da allora nella stessa area ne sono stati pescati alcuni altri esemplari, e la specie è stata studiata e descritta in modo appropriato. Il celacanto è un «fossile vivente», nel senso che è mutato assai poco dal tempo dei suoi progenitori fossili di centinaia di milioni di anni fa.
Abbiamo dunque la stasi. Ma che cosa dobbiamo farne? Come spiegarla? Alcuni di noi direbbero che la linea genealogica che conduce alla Latimeria rimase immutata perché la selezione naturale non la costrinse a muoversi. In un certo senso essa non ebbe alcun «bisogno» di evolversi perché questi animali avevano trovato un modo di vita efficace negli abissi marini, dove le condizioni non mutarono molto. Forse non parteciparono mai ad alcuna corsa agli armamenti. I loro cugini che uscirono dal mare per andare a colonizzare le terre emerse si svilupparono perché vi furono costretti dalla selezione naturale, sotto una varietà di condizioni ostili fra cui corse agli armamenti. Altri biologi, fra cui alcuni di quelli che si definiscono puntuazionisti, potrebbero dire che la linea filogenetica che conduce alla moderna Latimeria resistette attivamente al mutamento, nonostante le pressioni della selezione naturale eventualmente presenti. Chi ha ragione? Nel caso particolare della Latimeria è un problema di difficile risoluzione, ma esiste un modo in cui, in linea di principio, possiamo cercare di scoprirlo.
Per equità, è opportuno mettere da parte l’esempio particolare della Latimeria. Essa è un esempio molto efficace, ma anche molto estremo, e non è uno di quelli su cui i puntuazionisti desiderino contare particolarmente. Essi sono convinti che esistano in gran numero esempi di stasi meno estremi e a più breve termine; essi sarebbero, in effetti, la norma, poiché le specie posseggono secondo loro meccanismi genetici che resistono attivamente al mutamento, anche quando ci sono forze della selezione naturale che premono per farle mutare. Ora, ecco l’esperimento semplicissimo che, almeno in linea di principio, possiamo fare per verificare quest’ipotesi. Possiamo prendere popolazioni di animali in libertà e sottoporle a forze di selezione create da noi. Ammettendo l’ipotesi che le specie resistano attivamente al mutamento, dovremmo trovare che, se tentiamo di mettere in atto incroci selettivi per ottenere certe qualità, le specie dovrebbero rifiutarsi, almeno per un po’ di tempo, di prestarsi ai nostri piani. Se prendiamo dei bovini e tentiamo di incrociarli selettivamente per ottenere, per esempio, una maggiore produzione di latte, dovremmo fallire nel nostro intento. I meccanismi genetici delle specie dovrebbero mobilitare le loro forze antievolutive in una lotta contro la pressione al mutamento. Se noi cercassimo di indurre le galline a evolvere una maggiore frequenza nella produzione di uova, dovremmo fallire. Se gli organizzatori delle corride, nel tentativo di rendere più spettacolare il loro deprecabile «sport», cercassero di migliorare la combattività dei tori mediante incroci selettivi, i loro sforzi dovrebbero essere condannati all’insuccesso. Questi insuccessi dovrebbero essere ovviamente solo temporanei. Infine, come una diga che cede sotto la pressione delle acque, le presunte forze antievolutive saranno sopraffatte, e la linea genealogica potrà spostarsi rapidamente verso un nuovo equilibrio. Ogni volta che intraprendiamo un nuovo programma di incroci selettivi noi dovremmo però imbatterci almeno in un po’ di resistenza iniziale.
In realtà, quando tentiamo di determinare un’evoluzione incrociando selettivamente animali e piante in cattività, noi non ci imbattiamo in insuccessi, né sperimentiamo alcuna difficoltà iniziale. Le specie di animali e di piante rispondono subito docilmente agli incroci selettivi, e i riproduttori non percepiscono l’azione di alcuna forza antievolutiva intrinseca. Semmai, essi sperimentano della difficoltà solo dopo un certo numero di generazioni di incroci selettivi coronati da successo. Ciò si deve al fatto che, dopo qualche generazione di incroci selezionati, la variazione genetica disponibile si esaurisce, e dobbiamo attendere nuove mutazioni. È concepibile che i celacanti abbiano smesso di evolversi perché smisero di avere mutazioni – forse perché furono protetti dai raggi cosmici standosene negli abissi marini! – ma nessuno, a quanto ne so, ha suggerito seriamente una cosa del genere, e in ogni caso non è questo che intendono i puntuazionisti quando parlano di specie che avrebbero una resistenza innata al mutamento evoluzionistico.
Essi intendono qualcosa di più simile all’osservazione che ho fatto nel capitolo VII sulla «cooperazione» fra geni: l’idea che gruppi di geni siano così ben adattati fra loro da resistere all’invasione da parte di nuovi geni mutanti che non siano membri del gruppo. Questa è un’idea molto complessa e può essere resa plausibile. Essa fu in effetti uno dei sostegni teorici dell’idea di inerzia di Mayr alla quale abbiamo già accennato. Nondimeno, il fatto che ogni volta che intraprendiamo incroci selettivi non ci imbattiamo in alcuna resistenza iniziale, mi induce a pensare che, se una linea genealogica in condizioni naturali rimane per molte generazioni esente da mutamento, ciò non si debba tanto a una resistenza intrinseca al mutamento quanto piuttosto all’assenza di una pressione della selezione naturale a favore del mutamento. Una popolazione non muta perché gli individui che rimangono immutati sopravvivono meglio degli individui che cambiano.
I puntuazionisti sono quindi in realtà altrettanto gradualisti quanto Darwin o qualsiasi darwiniano; l’unica differenza consiste nel fatto che essi interpongono fra le esplosioni di attività dell’evoluzione graduale lunghi periodi di stasi. Come ho detto, l’unico aspetto sotto cui i puntuazionisti differiscono da altre scuole del darwinismo è nel forte accento che pongono sulla stasi come su qualcosa di positivo: come resistenza attiva al mutamento evoluzionistico piuttosto che, semplicemente, come assenza di mutamento evoluzionistico. E questo è l’unico aspetto in cui essi sono probabilmente in errore. Per me rimane da chiarire il mistero del perché essi abbiano pensato di essere così lontani da Darwin e dal neodarwinismo.
La risposta risiede in una confusione fra due significati della parola «graduale», associata all’altra confusione, che già mi sono dato da fare per disperdere ma che permane con ostinazione nella mente di molti, fra puntuazionismo e saltazionismo. Darwin era appassionatamente contrario a quest’ultimo, e questo fatto lo condusse a sottolineare ripetutamente l’estrema gradualità dei mutamenti evoluzionistici che stava proponendo. La ragione di questo suo atteggiamento va vista nel fatto che, per lui, l’evoluzione per salti significava quella che io ho chiamato la macromutazione del Boeing 747. Essa significava l’origine improvvisa – come quella di Pallade Atena dalla testa di Zeus – di un complesso di organi nuovo di zecca in un singolo colpo di bacchetta magico-genetica. Essa significava l’origine da una chiazza di pelle nuda, in una singola generazione, di occhi complessi funzionanti, pienamente formati. La ragione per cui l’evoluzione per salti significava queste cose per Darwin è che questo è esattamente ciò che essa significava per alcuni fra i suoi oppositori più influenti, i quali credevano realmente in essa come in un fattore importante nell’evoluzione.
Il duca di Argyll, per esempio, accettava le prove del fatto dell’evoluzione, ma voleva far rientrare la creazione divina per la porta di servizio. Non era il solo. In luogo di una singola creazione, avvenuta una volta per tutte nel Giardino dell’Eden, molti vittoriani pensavano che Dio fosse intervenuto ripetutamente, in punti cruciali dell’evoluzione. Si pensava che organi complessi come gli occhi, anziché evolversi lentamente per gradi da occhi più semplici, come aveva suggerito Darwin, avessero avuto origine in un singolo istante. Tali persone ritenevano giustamente che in tale istante l’«evoluzione», se esisteva, avesse richiesto un intervento soprannaturale. Le ragioni di questo modo di vedere sono le stesse ragioni statistiche di cui mi sono già occupato in connessione con gli uragani e i Boeing 747. Il saltazionismo Boeing 747 non è, in effetti, altro che una forma annacquata di creazionismo. Per esprimerci in forma inversa, la creazione divina è la forma estrema di saltazionismo. Essa è il salto record dall’argilla inanimata all’uomo pienamente formato. Così la percepì Darwin. In una lettera a Sir Charles Lyell, il principale geologo del suo tempo, scrisse:
Se io fossi convinto di aver bisogno di tali aggiunte alla teoria della selezione naturale, la getterei via come immondizia […] Non darei nulla per la teoria della selezione naturale se essa richiedesse aggiunte miracolose in ogni fase dell’evoluzione.
Queste non sono cose di importanza secondaria. Secondo Darwin il punto essenziale della teoria dell’evoluzione per selezione naturale era che essa forniva una spiegazione non miracolosa dell’esistenza di adattamenti complessi. E questo è anche, per quanto vale, il punto essenziale di questo libro. Per Darwin, qualsiasi evoluzione che dovesse far ricorso all’aiuto di Dio per prendere la rincorsa per i suoi salti non sarebbe affatto un’evoluzione. Un tale espediente toglierebbe ogni significato al punto centrale dell’evoluzione. Alla luce di ciò, è facile vedere perché Darwin insistesse di continuo sulla gradualità dell’evoluzione. È facile vedere perché egli abbia scritto la frase citata nel capitolo IV:
Se si potesse dimostrare l’esistenza di un qualche organo complesso che non avrebbe potuto formarsi per numerose lievi modificazioni successive, la mia teoria cadrebbe assolutamente. (capitolo VI)
C’è un altro modo per considerare l’importanza fondamentale della gradualità per Darwin. I suoi contemporanei, come molte persone ancor oggi, avevano difficoltà a credere che il corpo umano e altre entità così complesse avessero potuto avere origine con i mezzi dell’evoluzione. Se supponiamo che l’Amoeba, un protozoo costituito da un’unica cellula, sia un nostro lontano progenitore – come fino a poco tempo fa era di moda supporre – molti trovavano difficile valicare nella loro mente l’abisso che divideva l’ameba e l’uomo. Essi trovavano inconcepibile che da inizi tanto semplici potesse emergere qualcosa di tanto complesso. Darwin si appellò, come mezzo per superare questa sorta di incredulità, all’idea di una serie graduale di piccoli passi. Può essere difficile immaginare un’ameba che si trasformi in un uomo, suona il suo ragionamento, ma non è difficile immaginare un’ameba che si trasformi in un tipo leggermente diverso di ameba. Da qui non è difficile immaginare che essa si trasformi in un tipo leggermente diverso di un tipo leggermente diverso di… e così via. Come abbiamo visto nel capitolo III, questo ragionamento è in grado di venire a capo della nostra incredulità, purché sottolineiamo che lungo questa via ci fu un numero estremamente grande di passi, e che ogni passo fu molto piccolo. Darwin lottò costantemente contro questa fonte di incredulità, e fece uso costantemente della stessa arma: l’insistenza sul mutamento graduale, quasi impercettibile, diffuso su innumerevoli generazioni.
Per inciso, val la pena di citare l’esempio caratteristico di pensiero laterale di J.B.S. Haldane nel combattere la stessa fonte di incredulità. Qualcosa di simile alla transizione dall’ameba all’uomo, egli sottolineò, si verifica nel grembo di ogni madre in soli nove mesi. Lo sviluppo del feto è senza dubbio un processo molto diverso dall’evoluzione ma, nondimeno, chiunque sia scettico circa la possibilità di una transizione da una singola cellula all’uomo deve solo contemplare i propri inizi fetali per veder svanire i suoi dubbi. Io spero di non essere considerato un pedante se sottolineo, per inciso, che la scelta dell’ameba per il titolo di progenitore onorario segue semplicemente una tradizione arbitraria. Un batterio sarebbe una scelta migliore, ma persino i batteri, quali li conosciamo, sono organismi moderni.
Per riassumere l’argomento, Darwin insistette molto sulla gradualità dell’evoluzione a causa di ciò contro cui stava lottando: i fraintendimenti sull’evoluzione che erano dominanti nell’Ottocento. Il significato di «graduale», nel contesto di quei tempi, era l’«opposto di evoluzione per salti». Eldredge e Gould, nel contesto del tardo Novecento, usano «graduale» in un senso molto diverso. Essi lo usano, in effetti, anche se non esplicitamente, nel significato di «evoluzione a velocità costante». Senza dubbio in ciò hanno ragione: nella sua forma estrema esso è altrettanto assurdo quanto la mia parabola dell’Esodo.
Ma abbinare questa critica giustificabile a una critica a Darwin significa semplicemente confondere due significati del tutto distinti della parola «graduale». Nel senso in cui Eldredge e Gould si oppongono al gradualismo, non c’è alcuna particolare ragione di dubitare del fatto che Darwin sarebbe stato d’accordo con loro. Nel senso dell’espressione secondo cui Darwin fu un appassionato gradualista, anche Eldredge e Gould sono gradualisti. La teoria degli equilibri punteggiati è solo una glossa secondaria al darwinismo, una glossa che lo stesso Darwin avrebbe approvato se il problema fosse stato discusso al suo tempo. In quanto glossa secondaria, non merita una misura di pubblicità particolarmente grande. La ragione per cui essa ha invece ricevuto una grande attenzione nei mezzi di comunicazione di massa, e per cui io mi sono sentito in dovere di dedicare a quest’argomento un intero capitolo di questo libro, consiste nel fatto che la teoria stessa è stata spacciata – e con un rilievo eccessivo da parte di taluni giornalisti – come radicalmente opposta alle idee di Darwin e dei suoi successori. Perché è accaduto ciò?
Nel mondo ci sono persone che hanno un desiderio disperato di non dover credere nel darwinismo. Esse sembrano rientrare in tre classi principali. Prima di tutto vengono coloro che, per ragioni religiose, desiderano che l’evoluzione stessa non sia vera. Al secondo posto vengono coloro che non hanno alcuna ragione per negare che l’evoluzione ci sia stata ma che, spesso per ragioni politiche o ideologiche, trovano sgradevole la teoria darwiniana del suo meccanismo. Alcuni di questi considerano l’idea della selezione naturale inaccettabilmente aspra e spietata; altri confondono la selezione naturale con la casualità, e quindi con l’«assenza di significato», cosa che offende la loro dignità; altri ancora confondono il darwinismo col darwinismo sociale, che ha connotazioni razziste e altri risvolti sgradevoli. In terzo luogo, ci sono persone – molte delle quali lavorano nei mass media – alle quali piace follemente veder mandare all’aria la baracca, forse perché giornalisticamente questi sono fatti che fanno una certa impressione; e il darwinismo è abbastanza affermato e rispettabile per indurre la tentazione di mandarlo all’aria.
Quale che ne sia il motivo, se uno studioso di prestigio accenna una qualche parvenza di critica a un qualsiasi particolare della teoria darwiniana corrente, questo fatto viene accolto con bramosia e gonfiato in modo sproporzionato. Questa bramosia è tanto forte da fornire una sorta di potente amplificatore, con un microfono sensibile a cogliere qualsiasi cosa possa apparire anche minimamente come un’opposizione al darwinismo. È un peccato che sia così perché argomentazioni e critiche serie sono una parte di importanza vitale per ogni scienza, e sarebbe tragico se gli studiosi sentissero il bisogno di mettersi la museruola per non fornire esca alle amplificazioni arbitrarie dei mezzi di comunicazione. Non occorre dire che l’amplificatore, per quanto potente, non è hi-fi: c’è infatti una distorsione considerevole! Uno scienziato che sussurri prudentemente qualche lieve apprensione su una sfumatura attuale del darwinismo corre il rischio di risentire le sue parole distorte e appena riconoscibili rimbombare e riecheggiare dagli altoparlanti in ansiosa attesa.
Eldredge e Gould non bisbigliano ma parlano ad alta voce, con eloquenza e capacità di persuasione! Ciò che essi gridano è spesso molto sottile, ma il messaggio che viene ricevuto è che nel darwinismo c’è qualcosa di sbagliato. Alleluia, lo hanno detto «gli scienziati» stessi! Il curatore del volume Biblical Creation ha scritto:
È innegabile che la credibilità della nostra posizione religiosa e scientifica è stata grandemente rafforzata dal recente sbandamento nel morale neodarwiniano. E questo è qualcosa che noi dobbiamo sfruttare a fondo.
Eldredge e Gould sono stati entrambi valorosi paladini nella lotta contro il creazionismo del Sud rurale. Essi hanno gridato a gran voce la loro protesta per il cattivo uso delle parole, ma solo per trovare che, per questa parte del loro messaggio, i microfoni diventavano improvvisamente assai poco recettivi. Io posso simpatizzare per loro, avendo avuto un’esperienza simile con una diversa serie di microfoni, in questo caso sintonizzati sulla politica anziché sulla religione.
Quel che si deve dire ora, chiaro e forte, è la verità: che la teoria degli equilibri punteggiati si situa chiaramente all’interno della sintesi neodarwiniana. E così è stato sempre. Ci vorrà molto tempo prima di poter rimediare al danno provocato da una retorica eccessiva, ma alla fine ci si riuscirà. La teoria degli equilibri punteggiati sarà vista allora nelle sue giuste proporzioni, come un corrugamento interessante ma secondario sulla superficie della teoria neodarwiniana. Essa certamente non fornisce alcuna base per supporre uno «sbandamento nel morale neodarwiniano», e nessuna base all’affermazione di Gould che la teoria sintetica (un altro nome per il neodarwinismo) «è completamente morta». È come se la scoperta che la Terra non è una sfera perfetta bensì uno sferoide leggermente appiattito ai poli fosse stata presentata con titoli a nove colonne del seguente tenore:
COPERNICO IN ERRORE: GIUSTIFICATA
LA TEORIA DELLA TERRA PIATTA
Per giustizia, però, va rilevato che l’osservazione di Gould non mirava tanto al presunto gradualismo della sintesi darwiniana quanto a un’altra delle sue tesi, ossia alla tesi, contestata da Eldredge e Gould, che l’intera evoluzione, persino alla scala geologica più grande, sia un’estrapolazione di eventi che hanno luogo all’interno di popolazioni o di specie. Essi credono che ci sia una forma più alta di selezione, che chiamano «selezione per specie». Rimando la trattazione di questo argomento al capitolo seguente. Nel prossimo capitolo ci occuperemo anche di un’altra scuola di biologi i quali, sulla base di ragioni altrettanto inconsistenti, sono stati presentati come antidarwiniani, i cosiddetti «cladisti trasformati». Questi biologi appartengono al campo generale della tassonomia, la scienza della classificazione.