LA SERRA

Quando lo Zio diventò vecchio davvero, cominciò a interessarsi di botanica. Una sua famiglia vera e propria non l’aveva mai avuta, ma c’era un vasto e affettuoso parentado che provvedeva al suo benessere; così gli comprarono libri di botanica, di grande valore e riccamente illustrati. Lo Zio ammirò i libri e li mise da parte.

Ma quando gli altri se n’erano andati al lavoro o a scuola o alle loro faccende, usciva in città e prendeva il tram per il Giardino Botanico. Il viaggio era molto faticoso e sembrava facesse sempre un gran freddo, ma la difficoltà dell’impresa era più che compensata dall’attesa e dal fondamentale istante in cui apriva la porta della Serra e il caldo gli veniva incontro insieme al profumo dolce e intenso dei fiori. E dal silenzio. Non c’era quasi mai nessuno.

Lo Zio aspettava ad avvicinarsi alla vasca delle ninfee, quella doveva sempre venire per ultima. Percorreva gli stretti corridoi che passavano in mezzo alla vegetazione tropicale, la giungla lo abbracciava e lo sfiorava, ma lui non toccava mai le piante né leggeva i loro nomi. Solo qualche rara volta si lasciava cogliere dallo sconsiderato desiderio di gettarsi a capofitto in quelle lussureggianti fioriture, in un moto di irriverente adorazione, e toccare anziché limitarsi a guardare. Quella rischiosa voglia si faceva ancora più intensa nelle vicinanze della vasca delle ninfee, la vasca dei fior di loto, un bacino poco profondo nel quale l’acqua trasparente gorgogliava nel continuo mormorìo della corrente – come sarebbe stato bello levarsi le scarpe, arrotolare i pantaloni ed entrare dentro, e guadarla lentamente passando tra i fiori e le loro larghe foglie, costringendole a spostarsi al passaggio per poi ricomporsi come se niente fosse. Del tutto solo, caldo e solo nella Serra.

Vicino all’acqua c’era una panchina di ferro battuto verniciata di bianco, e lì lo Zio si sedeva a riposare mentre sprofondava nella contemplazione e in vaghe riflessioni che poco a poco si liberavano di tutta l’inquietudine che apparteneva al mondo esterno.

Alta sopra la vasca si levava la grande cupola di vetro, costruita tanto tempo prima e così bella da vedere. Il ponticello sotto la cupola era un merletto di arabeschi Liberty di metallo e la scala a chiocciola aveva la stessa eleganza giocosamente seducente. Ogni tanto qualcuno saliva la scala a chiocciola e passava un istante sul ponticello per poi ridiscendere e sparire, sempre in gran fretta. Il bacino delle ninfee non lo guardavano quasi.

Somari, pensava lo Zio. Hanno gambe ma non molta testa.

Il custode stazionava dietro un grosso e fitto cespuglio, dove stava seduto a leggere il giornale o a lavorare all’uncinetto. Lo Zio era stato più volte sul punto di domandare quale fosse lo scopo di tutto quel lavorare all’uncinetto, ma aveva sempre desistito; voleva mantenere una riposante distanza di silenzio. Si salutavano sempre con un lieve cenno del capo.

Poteva capitare che il custode lasciasse il suo cespuglio e passasse accanto alla vasca delle ninfee per un motivo o per l’altro, una volta era arrivato mentre lo Zio stava per andarsene e allora s’era affrettato a tenergli aperta la pesante porta. A casa i parenti avevano la proibizione di tenergli aperte le porte, ma in questo caso si trattava di una palese dimostrazione di rispetto che si poteva anche accettare; lui era il Grand Old Man della Serra, l’unico che capiva.

Un giorno quando arrivò alla panchina, lo Zio la trovò occupata da un vecchio signore con il bavero di velluto e i baffi all’ingiù. Proseguì il cammino per i corridoi verdi e quando si sentì stanco tornò alla vasca delle ninfee, ma la panchina era sempre occupata. Era una panchina decisamente piccola, che aveva a stento posto per due. Lo Zio aspettò un po’, poi se ne tornò a casa.

La volta seguente sulla panchina dello Zio era seduto lo stesso signore, e aveva con sé un libro; le ninfee non le guardava nemmeno, si limitava a leggere. Lo Zio ne fu veramente irritato; andò dal custode e ruppe il loro silenzio chiedendo: “Chi è quello? Viene spesso?”

“Sì”, rispose il custode, “negli ultimi tempi anche tutti i giorni. Sono davvero spiacente.”

E così era; ogni volta che lo Zio arrivava alla Serra, il vecchio era seduto sulla panchina, per giunta al centro, ma se anche si fosse fatto da parte sarebbero stati costretti a sedersi vicinissimi – del tutto idiota star seduti in quel modo senza scambiarsi neanche una parola, e presumibilmente lasciarsi coinvolgere in una conversazione. Di sicuro era un tipo loquace; pareva talmente vecchio che con tutta probabilità doveva essere piuttosto solo.

Il custode gli portò una sedia, ma lo Zio non la volle, rimase in piedi in attesa dietro una palma, con le gambe che si facevano via via più stanche. Non una sola volta l’usurpatore alzò il deretano per andare a dare un’occhiata intorno, stava seduto come incollato alla panchina e leggeva con un paio di ridicoli occhialetti tondi sul naso. Lo Zio, arrabbiato e deluso, tornò a casa in tram all’ultimo minuto prima che arrivassero i parenti dal lavoro.

Un giorno si irritò ancora di più; quando ormai stava per tornare a casa, il vecchio si era alzato per andarsene, la panchina era libera, ma troppo tardi. Lo Zio cercò di defilarsi, ma l’altro aveva gambe più svelte di quanto si potesse supporre e i due signori arrivarono all’uscita contemporaneamente. E quel dannato vecchio tenne la porta aperta allo Zio e rimase ad aspettare che passasse! Era una situazione insopportabile e umiliante. Nessuno dei due si muoveva, nessuno parlava. Lo Zio aveva deciso che non avrebbe detto una sola parola all’usurpatore.

Fu il custode a salvare la situazione; era un uomo saggio e dal momento che si era un po’ stancato dei fiori talvolta fissava l’attenzione su quel che facevano i pochi visitatori. Così arrivò di gran carriera, aprì con disinvoltura l’altra metà della porta, s’inchinò e i due ospiti della Serra passarono fianco a fianco per poi prendere senza esitazione due opposte direzioni. Così lo Zio fu costretto a fare un giro lunghissimo per arrivare alla fermata del tram. E il giorno dopo quel dannato vecchio era di nuovo là, seduto a leggere al centro della panchina.

Il problema della panchina diventò quasi un’ossessione, lo Zio finì per considerare l’altro come un nemico personale. Di notte stava sveglio a pensare quanti anni poteva avere quel tipo, se era maggiore o minore di lui, se aveva dei parenti che si occupavano di lui, se i fiori non gli importavano per niente e voleva solo starsene al caldo, che cos’era che leggeva tutto il tempo, e se quei giganteschi baffi non andavano considerati un qualche genere di sfida…

E finalmente, un limpido giorno d’inverno, la panchina era libera. Lo Zio si sedette in gran fretta e rivolse lo sguardo verso la vasca delle ninfee che da tanto tempo non aveva più potuto contemplare. Ma la pace era finita, non riusciva più a pensare ad altro che all’usurpatore. Ed ecco aprirsi la porta, era lui che stava arrivando. Il bastone batté ritmicamente sul pavimento fino alla panchina, ci furono due colpi secchi e poi una voce: “È seduto sulla mia panchina.”

Sarebbe stato puerile rispondere: “È mia.” Non una risposta ostile, né deferente; lo Zio cercò disperatamente e alla fine disse: “Signore, sono sordo come una campana.”

Il suo nemico sospirò, pareva un sospiro di sollievo, si fece posto accanto allo Zio e aprì il suo libro, evidentemente preso a prestito in una biblioteca.

Nella Serra il silenzio era rotto soltanto dal gorgoglìo dell’acqua. Il custode rimase un momento a guardarli e poi tornò al suo cespuglio. Successivamente ebbe modo più volte di osservare i due signori che stavano in assoluto silenzio. Quello che arrivava per primo si sedeva a un’estremità della panchina, e quando arrivava l’altro si scambiavano un breve inchino, sempre uguale.

Quando lo Zio si rese conto che non aveva bisogno di parlare, l’ostilità si tramutò in una sorta di ricalcitrante rispetto. Aveva scoperto che il libro della biblioteca era un testo di Spinoza e ciò accrebbe la sua considerazione. Decise di portarsi appresso anche lui un libro per impressionare l’altro, e il giorno dopo si presentò con il grosso volume di botanica che gli avevano regalato i parenti. Il libro era pesante e poco agevole da tenere sulle ginocchia, e il testo era scritto in caratteri troppo minuti. Quello che sedeva accanto allo Zio, l’usurpatore, aveva l’abitudine di ripetere di tanto in tanto a mezza voce qualcosa che forse l’aveva colpito o divertito nel libro che stava leggendo, oppure capitava che borbottasse semplicemente fra sé che faceva troppo caldo o chissà perché uno non può mai avere la panchina in santa pace… E una volta disse sprezzante: “Quello non sa niente dei fiori, fa solo finta.”

Lo Zio ne fu così profondamente ferito che dimenticò tutta la prudenza e alzandosi in piedi gridò: “È lei a non sapere un’acca dei fiori! Non li degna mai di uno sguardo! Dovrebbe rimanersene a casa con i suoi idiotissimi libri!”

“Sorprendente”, disse il suo vicino togliendosi gli occhiali e guardando lo Zio con un certo interesse. “A quanto mi pare di capire, è anche lei una persona che apprezza il silenzio. Io mi chiamo Josephson.”

“Vesterberg”, disse lo Zio indispettito; raccolse da terra il suo libro, lo chiuse con un colpo secco e si sedette di nuovo.

“E adesso”, continuò Josephson, “adesso forse possiamo lasciarci reciprocamente in pace. O forse stare insieme in pace.”

Fu così che incominciò la loro intesa, certo burbera e di poche parole.

A poco a poco venne fuori che Josephson abitava in un posto chiassoso che si chiamava Casa di Riposo ed era pieno di vecchietti molesti che volevano solo chiacchierare. La cosa fu accennata di sfuggita e senza commenti. Lo Zio non portò più con sé il volume di botanica, ora la tranquillità della Serra serviva solo alla meditazione e alla serenità, curiosamente una serenità ancora più grande di quella che lo Zio aveva provato quando sulla panchina era solo.

E improvvisamente Josephson scomparve, non venne alla Serra per un’intera settimana. Lo Zio andò a indagare dal custode, ma questi non ne sapeva nulla.

Lo Zio pensò: Forse Josephson è malato. Devo informarmi.

Il custode lo aiutò a trovare il numero della Casa di Riposo sulla guida telefonica. Telefonare si rivelò molto complicato, lo Zio veniva messo continuamente in comunicazione con il reparto sbagliato, alla fine ci fu qualche donna delle cucine che disse che Josephson era di cattivo umore e non voleva vedere nessuno, così aveva detto. Anche lei sembrava piuttosto di cattivo umore.

La Casa di Riposo parve allo Zio un luogo abbastanza spaventoso, non era mai riuscito a figurarsi così tanta angosciosa vecchiaia raccolta in un unico posto. A casa, dove tutti erano molto più giovani, lui costituiva l’eccezione, era un personaggio praticamente unico, ma qui si aveva la sensazione di essere fagocitati in una compatta massa anonima, d’improvviso era solo un’insignificante particella di quanto lo stanco cammino della vita si è dimenticato alle spalle. Qualcuno lo indirizzò alla stanza di Josephson, una cameretta che sembrava curiosamente vuota. Josephson era a letto, con le coperte tirate fin sotto il mento.

“Ah”, disse. “Vesterberg, apprezzo che non abbia portato dei fiori. Fra parentesi non sono affatto malato, sono solo annoiato a morte. Si sieda. Allora, come va il nostro ammiratore del loto?”

“Il custode le manda i suoi saluti. Eravamo un po’ in pensiero.” Si guardò intorno in cerca di un posto dove sedersi, ma tutt’e due le sedie erano ingombre di libri.

“Li metta pure per terra”, disse Josephson con impazienza, “sono stufo anche di loro. Parole, solo parole, parole e parole. Non danno nessun aiuto. Non bastano.” Dopo un attimo continuò, quasi fra sé: “Vesterberg, lei si lascia viziare, e non capisce quanto riceve in dono. Continui a guardare i suoi benedetti fiori di loto, continui a guardarli finché c’è tempo per farlo e ne sia grato, non ha mai avuto bisogno di combattere per conquistare un’idea, voglio dire per cercare qualcosa in cui valga la pena di credere e che valga la pena di difendere.”

“Una volta difesi un prato”, attaccò lo Zio, ma Josephson non gli prestò ascolto, scese dal letto e s’infilò nel bagno.

Il mio prato, pensava lo Zio, quel prato che salvai… ma forse è meglio non parlarne in questo momento.

Josephson tornò con due bicchieri per gli spazzolini da denti e una piccola bottiglia di cognac, sedette sul bordo del letto e disse: “Se vuoi aggiungere acqua prendila pure dal rubinetto, io lo preferisco liscio.”

“Tornerai alla Serra?” domandò lo Zio. “Questo cognac è eccellente.”

“Naturale che lo è. O questa marca o niente.”

Fuori suonò un campanello.

“Pasto”, disse Josephson sprezzante. “Che cosa hai fatto ultimamente?”

“Be’, non molto. Ma perché ti sei stancato dei tuoi libri?”

“Perché scompongono. Capisci, Vesterberg, scompongono fino alla disperazione in tanti piccoli sottili ragionamenti che non portano da nessuna parte. Non me, almeno, non mi danno il sapere che mi serve per capire. Così mi sono stancato di loro.”

“Forse”, disse lo Zio con esitazione, “forse potresti lasciarli da parte per un po’ e cercare in qualche altro modo?”

“Che cosa intendi, quale modo?”

Lo Zio guardò il suo amico, fece un gesto che in realtà poteva esprimere qualsiasi cosa, ma principalmente un impacciato interesse.

“In questa casa,” proferì Josephson, “in questa casa il tempo è solo qualcosa che passa, non è più vivo. E neppure in quei libri. Io voglio avere un’immagine chiara, e presto, un’immagine chiara di quel che si è voluto e cercato e di dove si è andati a parare e di quel che conta di più. È importante. Cercare di arrivare a quel che potrebbe avere un vero significato, cioè a qualche risposta. La conclusione finale e durevole, capisci?”

Lo Zio disse: “Non proprio… Ma tutto questo è così necessario, alla fin fine? Se ti rende soltanto inquieto. E poi mica c’è più fretta adesso di quanta ce n’è sempre stata, no?”

Josephson si mise a ridere, e disse: “Vesterberg, c’è qualcosa di simpatico in te. Ma sei un gran somaro, non è vero?”

“Certamente”, rispose lo Zio. “Ma adesso ci tornerai alla Serra, eh?”

“Sì, sì, un giorno o l’altro tornerò. E adesso non dirò più una parola, non una sola parola ragionevole.”

Mentre lo Zio tornava a casa in tram, i suoi pensieri non erano particolarmente presi da quel che era stato detto in quella conversazione certamente importante e anche un po’ incomprensibile; pensava soltanto a Josephson e al suo prato. L’immagine del prato si fece sempre più viva, il prato che lui aveva difeso.

Un giorno gli racconterò del prato.