6. Veneri senza voce

La ribellione di Manet non ha un gran successo. Ma un altro gesto ribelle nasce nel contesto del vivace movimento suffragista che si è formato negli Stati Uniti e nel Regno Unito sin dalla fine del XIX secolo. Il movimento cerca innanzitutto di ottenere il diritto di voto per le donne e poi, in prospettiva, anche il riconoscimento di una più piena parità di genere. Nel Regno Unito il movimento è particolarmente dinamico, articolato in varie associazioni, molto attive, con una militanza di molte decine di migliaia di donne. Fra le varie associazioni la più forte di tutte è la Women’s Social and Political Union, fondata nel 1903 da Emmeline Pankhurst. Le sue militanti chiedono insistentemente di essere ascoltate, chiedono ai parlamentari, liberali soprattutto, di prendere in considerazione l’ipotesi di un disegno di legge da discutere in Parlamento, che estenda il diritto di voto anche alle donne. Parlano con i sindacati, parlano con il primo gruppo parlamentare laburista che si affaccia in Parlamento nel 1906, ma non ricevono ascolto, cosicché dal 1912 al 1914 radicalizzano molto i loro metodi di protesta: sassi lanciati contro i vetri delle finestre del Ministero dell’Interno o degli uffici pubblici; tentativi di incendiare la casa di qualche esponente politico che non le ha ascoltate; taglio dei fili dell’elettricità e del telefono; militanti che si incatenano alla linea ferroviaria.

Tra le attiviste di questa associazione c’è anche un’audace venticinquenne, Mary Richardson (che in seguito avrà un percorso politico assai tortuoso). Il 10 marzo del 1914 Mary è a Londra, alla National Gallery. È un martedì, giorno in cui possono entrare tutti senza pagare il biglietto. E lei è lì. Come mai? Ha intenzione di protestare contro l’imprigionamento di Emmeline Pankhurst nella prigione di Holloway, dove Emmeline sta conducendo un pericoloso sciopero della fame. Che fa, dunque, Mary Richardson? Entra nella National Gallery, va davanti alla Venere allo specchio di Velázquez, aspetta che i guardiani si allontanino, e poi tira fuori dal soprabito una mannaia, spacca il vetro del quadro e lo colpisce ripetutamente, accanendosi soprattutto sul corpo della Venere. Naturalmente viene subito bloccata, portata in prigione, processata. Quando le viene chiesta una spiegazione del gesto, dice che la mitica bellezza di Venere non è minimamente comparabile con la bellezza morale della vita di Emmeline Pankhurst, e che questo era il messaggio che lei voleva far arrivare alla pubblica opinione. Diversi anni dopo, in un’intervista nella quale le chiedono di nuovo perché avesse danneggiato la Venere di Velázquez, lei dichiara che lo ha fatto perché non le piaceva proprio come gli uomini guardavano quel corpo di donna.

Anche collocandolo nel suo contesto, non possiamo certo condividere il gesto di Mary Richardson. Tuttavia possiamo capirlo. «Non mi piaceva proprio come gli uomini guardavano quel corpo di donna». Beh, francamente penso che questa sia una frase che anche oggi potremmo ripetere un’infinità di altre volte, davanti a un’infinità di altre immagini, non così diverse in fondo da quelle che popolavano le più frequentate mostre di pittura nell’Europa borghese del XIX secolo. Ciò suggerisce che l’abuso visivo del corpo femminile non è affatto un’assoluta novità degli ultimi decenni, ma è un fenomeno che ha un suo passato: e in questo caso, come in molti altri, narrarne e decifrarne la storia può aiutarci a comprendere meglio pratiche e mentalità largamente diffuse anche nella società che ci circonda.