Lo hindūismo oggi
di Stefano Piano

È noto che la creazione dei due Stati di India e Pakistan, sorti nel 1947 dalle rovine dell’impero britannico delle Indie, avvenne soprattutto su basi religiose, con l’attribuzione, cioè, dei territori a maggioranza islamica al Pakistan e di quelli a maggioranza hindū all’India; dopo la proclamazione dell’indipendenza del Pakistan orientale col nome di Bangladesh (1971) gli hindū vi rappresentano ancora circa il 12% della popolazione, mentre nell’attuale Pakistan, fortemente islamizzato, sono quasi del tutto scomparsi. La stragrande maggioranza degli hindū vive, naturalmente, in India; tuttavia, la loro presenza è massiccia anche nel regno del Nepāl, dove gli hindū, secondo i dati ufficiali, sarebbero quasi il 90% della popolazione. Al di fuori dell’India vera e propria, la presenza hindū è significativa in Śrīlakā (15,5%), nelle isole Fiji e Mauritius (40-45%), in Guyana (34,4%), a Trinidad e Tobago (25,8%) e in Suriname (27,4%).

Pertanto, il cosiddetto «hindūismo» è oggi la cultura religiosa tradizionale dell’India. Secondo i dati dei censimenti ufficiali, gli hindū sarebbero, in India, circa l’80% dell’intera popolazione e questa percentuale sarebbe anche molto stabile, non soggetta ad apprezzabili variazioni. Si tratta, però, di dati che si debbono ritenere scarsamente attendibili: in primo luogo, perché i questionari non prevedono la possibilità di non professare alcuna religione e, inoltre, perché chiunque non dichiari apertamente di aderire a una qualunque delle religioni riconosciute come diverse da quella hindū nei formulari del censimento, viene senz’altro considerato hindū. Mentre, per esempio, i sikh e i jaina sono riusciti, seppur faticosamente, a ottenere uno status proprio come minoranze religiose contemplate nei dati ufficiali (come già accadeva per musulmani, buddhisti e cristiani), altri, come i seguaci delle arcaiche religioni tribali, non hanno avuto successo e continuano pertanto a essere considerati come degli «hindū che non sanno di esserlo». Inoltre, anche senza far ricorso a ricerche sociologiche condotte con metodo scientifico, è sufficiente analizzare i dati stessi che risultano dai censimenti, per convincersi che essi sono molto approssimativi; infatti, l’insieme delle minoranze religiose (comprendente i tribali e i seguaci di altre religioni, ma anche, a rigore, i senza casta) è pari a circa il 38% della popolazione, dal che si deduce che, quand’anche tutti gli altri fossero hindū praticanti, non potrebbero superare il 62% del totale. Di questi, gli hindū di alta casta, detti anche dvija, rappresentano solo il 5% circa dell’intera popolazione indiana, mentre la maggioranza è costituita da śūdra (Schermerhorn, 1978, pp. 17 sg.).

Si tratta comunque di una massa notevole di persone ed è sufficiente recarsi in un luogo santo in occasione di qualche festa importante per rendersene conto in modo immediato. La religiosità è ancora espressa con i gesti e le modalità giunti fino a noi da un’epoca molto antica; per questo, molti aspetti della realtà religiosa dell’India hindū di oggi sono già stati descritti nei capitoli dedicati allo hindūismo e alla prassi religiosa hindū. Infatti, quando si parla della cultura tradizionale brāhmanica, è assai arduo scindere il processo storico dalla realtà attuale; in altre parole, è praticamente impossibile tener separata l’analisi diacronica da quella sincronica. La cultura brāhmanica conserva anche nel mondo contemporaneo una sorprendente fedeltà al dharma e alle diverse osservanze (vrata), siano esse permanenti, cioè obbligatorie (nitya), oppure occasionali (naimittika), o ancora opzionali (kāmya). Tuttavia non bisogna dimenticare, come suggerisce A. Béteille (1986, p. 132), che l’eredità sanscritica è una parte – e una parte molto importante – della realtà indiana, ma non è tutto. La realtà indiana e la sua percezione sono cambiate: per comprenderla quale essa oggi è occorre coniugare l’eredità del passato con i cambiamenti determinati dal modernismo e da influenze, anche esterne, di vario tipo. Per esempio, nella realtà contemporanea la gerarchia del varṇāśrama-dharma è in declino e l’idea di gerarchia oscura oggi i reali problemi di ineguaglianza (Béteille, 1986, p. 133). Esiste infatti una profonda differenza fra gerarchia e ineguaglianza e, da un punto di vista sociologico, la gerarchia può apparire come la forma idealizzata dell’ineguaglianza.

L’intoccabilità – alla cui origine sta il concetto religioso di purezza rituale – è stata abolita dall’art. 17 della Costituzione indiana del 1950, la quale garantisce a tutti i cittadini uguali diritti davanti alla legge (art. 14) e pari opportunità d’impiego nei pubblici uffici (art. 16) e proibisce ogni forma di discriminazione sulla base della religione, della razza, della casta, del sesso, e così via (art. 15). La medesima Costituzione, però, nella sua parte XVI opera una discriminazione a favore delle cosiddette backward classes (ex scheduled castes e scheduled tribes degli inglesi), introducendo un principio che in questi anni sta suscitando non poche proteste e contrasti sociali. Di fatto, se si esaminano gli atti giuridico-politici indiani a partire dall’indipendenza, colpiscono, da un lato, le continue asserzioni di impegno per l’uguaglianza e, dall’altro, le altrettanto continue concessioni fatte a identità collettive (Béteille, 1986, p. 124). Solo il prestigio derivante da una professione «moderna» (medico, ingegnere, avvocato e simili), o anche dal denaro, come ebbe ad affermare, con lungimirante intuizione, Madeleine Biardeau (19662, pp. 98 sgg.), comincia realmente a scalfire quello della casta; se prima del 1950 l’espulsione dalla casta poteva equivalere a una sorta di morte civile, oggi la gerarchia tradizionale dei varṇa, che vede rigorosamente al primo posto i brāhmaṇa, è messa in discussione (Quigley, 1993, pp. 81 sg.) – che si accetti o meno la disgiunzione gerarchica fra status e potere proposta da Dumont (1966, ed. it. p. 169) – e gli studenti universitari delle grandi città industriali possono deridere il comportamento anacronistico dei brāhmani osservanti, anche se in qualche remota frangia delle aree rurali, oltre che in molti dei santuari (tīrtha) e delle terre sante (kṣetra) dell’India religiosa, è possibile che quegli stessi brāhmani siano ancora considerati, come vogliono i dharma-śāstra, alla stregua di divinità in terra.

Di fronte a una situazione come questa credo fermamente che non si possa che essere d’accordo con Michel Pousse, quand’egli, domandandosi quale sarà l’India del nuovo millennio, risponde che «l’invasione ariana, la venuta di Alessandro, la conquista musulmana e i vascelli della Compagnia delle Indie non l’avevano messa in pericolo nella sua stessa essenza, come rischia di farlo questa società mondiale verso la quale ci dirigiamo e alla quale l’India sembra dover aderire» (Pousse, 1993, p. 25). Il vero nemico della cultura religiosa tradizionale dell’India è infatti la secolarizzazione, e con essa il modernismo, che avanza a grandi passi col ritmo stesso del progresso economico e dello sviluppo tecnologico. Il problema principale consiste nel fatto che il modello tradizionale di sviluppo vagheggiato dal Mahātmā Gāndhī, che era stato così efficace nell’opera di boicottaggio dell’economia inglese, è stato definitivamente abbandonato fin dal primo governo del discepolo prediletto di Gāndhī, Jawaharlal Nehru, per scegliere al contrario il modello di sviluppo cosiddetto «occidentale», basato su una rapida industrializzazione; ma questo modello – che pure ha portato il tasso di crescita del prodotto interno lordo ad attestarsi su una media del 5% annuo negli ultimi 15 anni (Marcuccio, 1995, p. 91) – è un modello vecchio e ormai superato, dal momento che proprio i paesi del cosiddetto «Occidente» hanno già cominciato a constatarne i limiti e a subirne le spesso sgradevoli conseguenze. Nel 2000 l’Unione Indiana ha celebrato il cinquantenario della propria Costituzione repubblicana, con alle spalle un bilancio che, in termini statistici, appare ampiamente positivo, ma, nel medesimo tempo, è pieno di interrogativi ai quali è difficile dare una risposta, a causa di quella componente di imprevedibilità che ha caratterizzato finora gli sviluppi della storia socio-politica dell’India: si calcola che il 70% della popolazione (che conta ormai circa un miliardo di persone) è ancora rurale, ma questo non impedisce che la produzione industriale, per la quale l’India si collocava già negli anni Novanta del secolo scorso al decimo posto nel mondo, lasci prevedere un ulteriore incremento. Nonostante i progressi compiuti, il 40% degli indiani vive ancora al di sotto della soglia di povertà (passata dalle 20 rupie al mese per persona degli anni Settanta alle 100 rupie degli anni Ottanta): nel medesimo tempo l’India si trova al terzo posto nel mondo per il numero degli specialisti in informatica ed è ancor meglio collocata se si tien conto della loro qualità. Ma altri problemi ben noti come conseguenze quasi inevitabili del progresso tecnologico (primo fra tutti la disoccupazione, ma poi anche l’inquinamento delle acque e dell’atmosfera, che in alcune aree urbane ha già raggiunto limiti intollerabili) cominciano ad avere il loro peso nelle scelte della gente, inducendo molti a ripiegarsi verso le istituzioni tradizionali come la casta, la famiglia, la religione (Pousse, 1993, p. 35). Le difficoltà economiche rischiano inoltre di mettere gli indiani l’uno contro l’altro e la lotta per la sopravvivenza spesso si configura, purtroppo, con la connotazione di un’identità religiosa, che vede gli uni contro gli altri hindū e musulmani, ma anche hindū di una casta contro hindū di un’altra e hindū di casta contro quelli che ne sono privi, e che costituiscono una massa notevole di persone (dal 20 al 25% dell’intera popolazione), spesso manovrabili nei giochi per il potere politico.

A tutto questo si debbono aggiungere altri due aspetti dello sviluppo che possono interagire in modo significativo con la pratica della religione: il primo è l’emancipazione femminile, soprattutto attraverso l’istruzione (che sta registrando un incremento maggiore di quello riscontrabile per i maschi); il secondo è la diffusione dei media, in modo speciale della televisione, che, data la percentuale ancora alta di analfabeti (40% per i maschi e 63% per le femmine), sta diventando un mezzo formidabile di condizionamento della pubblica opinione. Si può dire che non esistono villaggi in cui non vi sia almeno un televisore e, se è vero che questo nuovo strumento di comunicazione ha prodotto effetti deteriori, come la diffusione della pornografia (la quale, fra l’altro, contribuisce a rafforzare certi giudizi fondamentalmente errati che l’indiano medio si è formato sulla cultura europea), è tuttavia consolante constatare come il maggiore successo televisivo degli ultimi anni del Novecento sia stato costituito dall’interminabile serie di puntate domenicali del Mahābhārata, uno sceneggiato a sfondo fortemente religioso di proporzioni davvero gigantesche. Questo significa che la sensibilità della gente nei confronti della propria tradizione religiosa è ancora molto forte, nonostante il processo altrettanto evidente di secolarizzazione che caratterizza, in modo speciale, l’India delle grandi aree urbane.

Uno degli aspetti più appariscenti della religiosità hindū contemporanea è la sopravvivenza di situazioni molto arcaiche, che colpiscono a prima vista il visitatore occidentale. È il caso degli ordini monastici e delle diverse congregazioni ascetiche, dette in hindī akhāṛā, scritto talvolta akhāḍā, un vocabolo col quale si indicano anche le loro sedi. L’idea della rinuncia al mondo ha in India un’origine molto antica, essendo contemplata sin dall’epoca vedica come ultimo e più alto stadio della vita del brāhmano, dopo l’esperienza dello studentato religioso, della vita di famiglia e del ritiro; a partire almeno dall’VIII secolo d.C., in seguito alla scelta compiuta da Śakara, si affermò poi la possibilità di entrare nel saṃnyāsa anche senza aver percorso il precedente cammino in seno alla società. Si moltiplicarono gli ordini ascetici e si arricchì sempre più anche il lessico sanscrito relativo alla rinuncia; fra i molti vocaboli usati per indicare i rinuncianti figurano, oltre a saṃnyāsin (colui che abbandona), avadhūta (colui che ha scosso via [i legami del mondo]), daṇḍin (colui che porta il bastone), muni (il silenzioso), parivrājaka (mendicante religioso errabondo), pātrin (colui che porta la tazza per le elemosine), tapasvin (colui che pratica l’ardore ascetico), tyāgin (colui che lascia), vairāgin (colui che ha realizzato il distacco [dal mondo]), yati (colui che ha controllato [le passioni]), yogin (colui che pratica la disciplina ascetica). Per quanto riguarda, in particolare, gli asceti mendicanti, il termine più comune per indicarli era, almeno fino al IV secolo a.C., bhikṣu; secondo il Mahābhārata (XIII, 141, 89) ne esistevano quattro tipi, culminanti nella figura del paramahaṃsa («suprema oca selvatica»), un titolo speciale che viene ancor oggi attribuito solo a chi ha alle spalle almeno dodici anni di pratica ascetica; anche in Europa e negli Stati Uniti molte persone hanno imparato a conoscere questo termine attraverso l’autobiografia dello yogin Paramahasa Yogānanda (1893-1952), grande divulgatore dello yoga in Occidente, il cui trapasso avvenne a Los Angeles durante uno degli incontri pubblici con i discepoli. Quando la parola bhikṣu (in pāli: bhikkhu) cominciò a essere usata per alludere quasi esclusivamente ai monaci buddhisti, in ambiente hindū finì per prevalere l’uso di altri termini, come parivrājaka, o l’ancor più generico sādhu, che significa semplicemente «persona buona, uomo virtuoso, santo». Ed è proprio quest’ultima parola che viene oggi usata in tutta l’India per indicare i monaci mendicanti hindū, in tutto forse sei milioni di individui, che conducono vita eremitica ed errabonda, senza fissa dimora, nutrendosi del poco cibo ricevuto in elemosina. La gente li considera come morti e ritiene che il loro funerale sia già avvenuto; per questo, quando sopravviene realmente la loro morte fisica, avendo essi rinunciato al fuoco sacrificale e a ogni forma di rito religioso, il loro corpo non viene bruciato secondo l’uso tradizionale, bensì sepolto. I sādhu sono venerati come guide spirituali (guru) e spesso conferiscono, con la loro presenza, particolare solennità alle feste religiose e alle cerimonie più importanti. I questuanti di tendenza śaiva vestono di solito un saio color ocra, mentre quelli vaiṣṇava preferiscono il colore bianco, e le frange più radicali di entrambe le tendenze non si vestono affatto: sono chiamati per questo nāgā-sādhu (hindī: «asceti nudi») e la loro appartenenza religiosa diventa allora desumibile solo dai segni tracciati sulla fronte (il tripuṇḍra, costituito da tre linee orizzontali, per gli śaiva e l’ūrdhvapuṇḍra, consistente in due linee verticali che possono racchiudere altri segni, per i vaiṣṇava); vivono in luoghi appartati e in anfratti montani, ma è possibile vederli sfilare per primi nelle processioni solenni che si svolgono in occasione dei grandi melā, le fiere religiose periodiche, fra le quali spicca il kumbha-melā, di cui s’è detto nella sezione dedicata alla prassi religiosa degli hindū e che comporta la partecipazione di milioni di pellegrini.

Anche l’esperienza della rinuncia come ultimo stadio della vita sopravvive, specialmente nelle campagne, dove esistono ancora persone comuni che, in età avanzata, scelgono un volontario isolamento, ritirandosi, per esempio, ai margini del villaggio, ove trascorrono in solitudine gli ultimi anni della vita.

La grande tradizione colta del Kevalādvaita-vāda, che fa capo a Śakara, continua a far sentire la propria voce (la più autorevole in assoluto nello hindūismo contemporaneo) dai quattro monasteri (maṭha) che la tradizione vuole fondati da Śakara in persona nella direzione dei quattro punti cardinali: a Badrīnāth, sullo Himālaya, nell’alta valle del Gange (Nord), a Purī, in Uṛīsā (Est), a Dvārkā, sulle coste del Kāṭhiyāvāṛ, in Gujarāt (Ovest) e a Śṛṅgeri, nel Karnāṭak meridionale (Sud), con l’aggiunta, come quinto, dello śaṅkara-maṭha di Kāñcī (Tami Nāḍu), che si propone in alternativa alla sede di Śṛṅgeri. L’insegnamento che vi si impartisce ai giovani saṃnyāsin è rigorosamente tradizionale e si fonda sullo studio della grammatica sanscrita, dei quattro Veda, della metafisica, della logica e delle fonti principali della scuola del Vedānta advaita (non-dualista): Upaniṣad, Brahma-sūtra e Bhagavad-gītā. In questi maṭha, illustrati nel nostro secolo da nobili figure di maestri venerabili – come Candraśekhara Bhāratī (1892-1954), il 34˚ maestro (śaṅkarācārya) dello Śṛṅgeri-maha, e il suo successore Abhinava Vidyātīrtha (1917-1989), Candraśekharendra Sarasvatī (scomparso l’8 gennaio 1994) dello Śāradā-maha di Kāñcī e lo svāmin Bhāratī Kṛṣṇa Tīrtha (1884-1960), del Govardhana Maha di Purī (Uṛīsā) – domina ancora un’atmosfera di rarefatta spiritualità, profondamente radicata nella più autentica tradizione brāhmanica. I maestri di questi monasteri, considerati veri e propri «pontefici», ai quali è dovuto il titolo di «Sua Santità», e comunemente chiamati jagadguru (maestro del mondo), siedono ancora, secondo il costume antico, su una pelle di leopardo, parlano in sanscrito, sono fatti oggetto di venerazione e di culto e visitano periodicamente le diverse comunità hindū durante lunghi viaggi compiuti a piedi attraverso l’India intera. Dal 1978 il cenobio di Śṛṅgeri pubblica anche un periodico, dal titolo «Tattvāloka» (La luce della verità), che ha lo scopo di diffondere i principi dell’Advaita-vedānta e di farli conoscere anche al di fuori dell’India.

I maha śakariani costituiscono la punta di diamante del sistema monastico hindū, ma esistono anche numerosissimi altri luoghi di ritiro (āśram), che traggono ispirazione dagli insegnamenti dei fondatori dei diversi sampradāya (tradizione ininterrotta), ciascuno con il suo jagadguru, o anche di recenti guru delle più svariate tendenze di pensiero. Se ne può fare esperienza in modo diretto con una visita, per esempio, a una località come Ṛṣikeś, a monte di Haridvār, sui monti Śivālik, che è tutta un susseguirsi di āśram, fra i quali spicca, per la sua intensa attività anche nel settore editoriale, quello fondato dallo svāmin Śivānanda (1887-1963), che predicò uno yoga a sfondo vedāntico; l’organizzazione da lui fondata nel 1936, denominata The Divine Life Society, ha sede in un quartiere di Ṛṣikeś che da lui ha preso il nome di Shivanand Nagar. Dei numerosi monasteri della Ramakrishna Mission, diffusi su tutto il territorio, molto attivi e impegnati anch’essi in una divulgazione attraverso l’editoria dei principi vedāntici, si è già parlato nella sezione dedicata al cosiddetto «neo-hindūismo». Fra gli altri āśram meritano di essere ricordati quelli che s’ispirano alla figura di Ānandamayī Mā (1896-1982), una santa bengalese che è stata considerata, nonostante il suo sesso, una jīvan-muktī (liberata pur essendo ancora in vita). Alcuni āśram, come per esempio quelli fondati da Ramana Maharshi (1879-1950) a Tiruvaṇṇāmalai e da Śrī Aurobindo (1872-1950) a Pondichéry, accolgono anche discepoli occidentali, dando così un significativo contributo al dialogo interreligioso monastico; da parte cristiana, un’istituzione analoga è il Saccidānanda Āśram, fondato a Śāntivanam nel 1950 da padre Jules Monchanin (1895-1957) e padre Henry Le Saux (1910-1973), conosciuto come Svāmī Abhiiktānanda, la cui opera è stata continuata, a partire dal 1967, da padre Bede Griffiths (1906-1993); i monaci, riprendendo un’abitudine già adottata dai missionari gesuiti come Roberto de Nobili (1577-1656), vestono il saio dei sanyāsin e ne adottano la regola, aprendo nuovi orizzonti al dialogo monastico interreligioso.

L’esperienza monastica, naturalmente, riguarda una minoranza di persone, che costituiscono un punto di riferimento per le grandi masse di semplici hindū, la cui religiosità si esprime soprattutto in una serie di atti esteriori di devozione, di culto e di pietà religiosa. È noto che i fedeli hindū non hanno l’obbligo di frequentare il tempio, né di partecipare a riunioni periodiche della comunità; essi sentono però l’impegno a osservare i doveri religiosi personali e domestici e, se sono praticanti, di solito non lasciano passare giorno senza fare una breve visita al tempio più vicino, specialmente per mantenere un eventuale impegno contratto in seguito a una grazia ricevuta. Quando si recano al tempio, lo fanno in silenzio, a piedi nudi e con un atteggiamento di rispetto, di devozione e di fede e, se possono, eseguono il bagno rituale e indossano abiti puliti. Sorseggiano l’acqua pura che il pūjārī versa loro sulla mano, ricevono sulla fronte il tilak impresso con un po’ di pasta di sandalo color ocra o con ceneri sacre, compiono i propri atti privati di culto (arcana) accompagnati da una piccola offerta e, avuto il darśan, cioè la possibilità di vedere, sia pure per pochi istanti, l’icona sacra (mūrti), eseguono la circumambulazione del santuario e quindi fanno ritorno a casa, oppure, se hanno tempo, si siedono in disparte a meditare.

In occasione delle grandi feste hindū folle di fedeli assistono ai diversi riti di adorazione (pūjā) officiati dai brāhmani e si accalcano per avere il darśan della mūrti «mobile» del tempio, quand’essa viene portata solennemente in processione (yātrā). Almeno nei grandi santuari del Sud, il sacerdote officiante è ancora un brāhmano, che si avvale della collaborazione di un gruppo di assistenti – di solito anch’essi di casta brāhmanica –, che si occupano di tutti gli aspetti pratici della liturgia e si prendono cura del tempio e della sua amministrazione; l’incarico di sacerdote officiante o arcaka (colui che compie il rito di adorazione) si trasmette di padre in figlio, ma si può assumere solo dopo aver contratto il matrimonio (la sposa deve essere in vita) e dopo aver ricevuto da un sacerdote più anziano una sorta di consacrazione per aspersione (abhiṣeka), durante la quale si compiono nei confronti del futuro sacerdote e della sua sposa una serie di atti di culto assimilabili a quelli riservati all’icona sacra. La coppia umana è considerata infatti come la replica dell’eterna coppia divina costituita dalla divinità suprema e dalla sua Śakti (la divina potenza sotto forma di sposa del Dio).

Soprattutto a causa delle grandi devastazioni di edifici sacri compiute dai musulmani in varie epoche, i maggiori santuari di origine antica si trovano oggi quasi esclusivamente nell’India del Sud. Al Nord, diversi templi particolarmente famosi sono stati ricostruiti, come è accaduto a Somnāth, sulle coste del Kāṭhiyāvāṛ (Gujarāt), ove il sacro liṅga, che reca il nome di «Signore della Luna» (Soma-nātha), venne installato nel 1951 dall’allora Presidente della Repubblica dell’India Rajendra Prasad; in questo modo, si diede inizio all’opera di ricostruzione del grande santuario, annunciata da Vallabhbhai Patel nel 1947 e condotta a termine nel 1965, quando si celebrò il rito di consacrazione del tempio (kalaśa-pratiṣṭhā), la cui bandiera è tornata a sventolare sulla sommità della cupola (śikhara) (Munshi, 19764, pp. xiii sg.). La maggior parte dei grandi santuari dell’India meridionale sono oggi gestiti da organizzazioni quali lo Hindu Religious and Charitable Endowments Department del Governo del Tami Nāḍu, che controlla in questo Stato ben 9876 templi e che gestisce scuole (anche femminili), ospedali, orfanotrofi e altre opere umanitarie. In base a dati degli anni ’60, nel Tami Nāḍu i pāñcarātra-āgama prevalgono in 1602 templi, i vaikhānasa-āgama in 1700 e gli śaiva-āgama in 5000 (Pathar, 1974, p. 237).

Illustri e illuminati rappresentanti della cultura hindū contemporanea, come, per fare un esempio, Gopi Nath Kaviraj, hanno compiuto uno sforzo per presentare gli atti di culto e, in particolare, la pūjā, come uno strumento di realizzazione interiore, di comprensione profonda della propria vera natura, come «segno», quindi, di un’autentica esperienza religiosa. Si possono così comprendere affermazioni che definiscono la pūjā come qualcosa che consiste nel «conquistare preminenza grazie alla prossimità di una persona o di un principio preminente» (Kaviraj, 1976, p. 16) e l’upāsana come «il fatto di essere animati dai pensieri e dai sentimenti di una persona adorabile grazie all’associazione di quest’ultima» (ibid.). In questo particolare contesto interpretativo, la pūjā finisce per essere «una sorta di auto-suggestione» e il suo scopo consiste pertanto nell’«attribuire, in un primo momento, i propri sentimenti interiori a un’immagine ideale, poi percepire in essa l’essenza divina per mezzo della contemplazione profonda e infine sviluppare in sé quel sentimento religioso» (Kaviraj, 1976, p. 19). In altre parole, «lo scopo della pūjā (adorazione) e del sādhana (disciplina spirituale) è la rimozione dell’immaginario diaframma fra l’uomo e Dio, la percezione libera di Dio come fonte di luce e la trasformazione del corpo e dei sensi in strumenti posti nelle sue mani, cosicché la sua volontà possa compiersi nelle nostre vite e noi, percependo l’espansione della sua gioia, possiamo considerare il mondo come sua gioiosa dimora e gli esseri viventi come Dio stesso sotto mentite spoglie e così, godendo tutte le operazioni dell’universo come suo mellifluo gioco, possiamo immergerci in Lui» (Kaviraj, 1976, p. 20).

Fra le pratiche religiose di tutti gli hindū, quale che sia la loro fede religiosa specifica, spiccano ancora, nella realtà contemporanea, quelle dell’elemosina (dāna) come atto capace di condurre alla salvezza nella presente corrotta era cosmica (Kali-yuga), del digiuno e del pellegrinaggio ai luoghi santi. L’elemosina è una comune pratica di pietà, specialmente nei confronti degli ammalati e dei mendicanti in generale; chi scrive ha potuto vedere molti hindū, specialmente nei luoghi santi, cambiare una certa somma di denaro in tante monetine di poco valore e distribuire le medesime molto coscienziosamente, cercando di non dimenticare nessuno dei questuanti. Il digiuno accompagna quasi sempre, o precede, la celebrazione delle grandi feste del complesso calendario liturgico hindū e viene talvolta praticato per periodi anche abbastanza lunghi, specialmente dalle donne, per ottenere grazie per la propria famiglia e benedizioni per il marito.

Ma la pratica senza dubbio più appariscente dello hindūismo contemporaneo è quella del pellegrinaggio, come attestano i dati relativi ai grandi raduni di massa che caratterizzano determinate fiere religiose nei luoghi più santi dell’India. Stime attendibili hanno valutato a venticinque milioni circa le presenze di pellegrini, nel giorno di luna nuova (amāvāsyā), in occasione del penultimo kumbha-melā celebrato a Prayāga (Allāhābād) nei primi mesi del 1989. Gli indiani hanno sempre viaggiato molto, soprattutto a piedi, e continuano a farlo, spesso con mezzi irrisori, destinando addirittura le poche rupie che costituiscono tutti i loro averi a qualche opera di misericordia invece che al proprio personale sostentamento. Nei luoghi santi, sparsi sull’intero territorio indiano, dalle altitudini dello Himālaya fino all’estrema punta meridionale della penisola, folle di devoti di ogni provenienza si mescolano con i sādhu dei diversi akhāṛā; sono uomini, donne, bambini di ogni età, che si sottopongono alla tonsura, digiunano e, attendendo pazientemente il proprio turno in lunghe, interminabili code sotto il sole, compiono le loro devozioni ed eseguono il loro atto di omaggio e di adorazione in onore del sacro liga di Śiva o della mūrti del santuario, seguendo scrupolosamente le istruzioni dei diversi manuali noti come paddhati. Il pellegrinaggio viene quasi sempre compiuto con un fine ben preciso, che è quello di ottenere una qualche grazia, e in tal caso si privilegia non tanto il santuario più vicino alla propria residenza, quanto piuttosto quello dedicato alla divinità, per così dire, specializzata nel tipo di aiuto che ci si attende da essa; e questo, quale che sia la dislocazione del suo santuario o la divinità d’elezione (iṣṭa-devatā) degli interessati.

Una grande importanza rivestono ancora, non solo nei luoghi santi, ma anche nella vita quotidiana delle persone, i vari riti di purificazione, consistenti per lo più in un bagno nella corrente di qualche fiume sacro, primo fra tutti il Gange. E siccome il Gange scorre sia in cielo, sia sulla terra, sia sottoterra, si ritiene che l’acqua che sgorga dal sottosuolo sia pari in santità a quella del fiume sacro per eccellenza. Negli altri casi, si invoca la presenza della divina Gagā nell’acqua che si ha a disposizione prima di purificarsi mediante la sua aspersione. Si ritiene ancora che l’acqua dei fiumi sacri purifichi ritualmente da ogni peccato, senza però cancellare le conseguenze degli atti peccaminosi, che si dovranno subire inevitabilmente in questa o in una futura esistenza.

I saṃskāra oggi più celebrati, specialmente in ambiente brāhmanico, sono quelli della nascita, dell’iniziazione e del matrimonio, oltre, naturalmente, ai riti funebri, il cui svolgimento non sembra mutato rispetto a quello di migliaia di anni fa. Sulle rive del sacro Gange a Vārāṇasī, per fare un esempio assai noto, dai celebri terreni di cremazione come il Maikarikā-ghāṭ continuano a levarsi, giorno e notte, i fumi acri dei roghi funebri, sebbene i forni crematori costruiti non molto lontano svolgano oggi la maggior parte di questo mesto lavoro. Delle cerimonie liete certamente la più ricca di fascino è quella del matrimonio, che, specialmente nei villaggi, si celebra ancora attorno al fuoco sacro, secondo il rito vedico, con la metodica ripetizione di gesti antichi.

Il cosiddetto «hindūismo», insomma, è ancor oggi soprattutto una questione di ortoprassi; ma ai costumi antichi se ne sono aggiunti, ahimè!, anche altri di più recente origine, come quello della dote della sposa, che è la fonte di non pochi problemi sociali. Non menzionata nelle fonti letterarie antiche, ma nata probabilmente dall’idea che il matrimonio è un rito sacrificale, per cui la dote poté forse in origine essere intesa come una sorta di dakṣiṇā, questa istituzione è spesso responsabile di gravi conseguenze sul piano personale e sociale. Non sono d’accordo con Pandey (19692, p. 166) quand’egli afferma che l’opinione pubblica è preparata ad abbandonare del tutto l’assurda istituzione della dote: conosco personalmente più di un caso in cui essa costituisce ancora un reale problema per la famiglia, combattuta fra il desiderio di garantire alla propria figlia un matrimonio sicuro con una persona perbene e le estreme difficoltà che deve affrontare per procurarsi il denaro necessario a placare la sete inestinguibile non solo dello sposo, ma anche di tutti i suoi parenti; e i dati statistici che riguardano gli «incidenti» domestici lasciano trasparire con la massima evidenza a quali rischi una donna può andare incontro se lo sposo non è rimasto soddisfatto sotto questo punto di vista.

Fortunatamente un altro grave problema, quello del matrimonio dei fanciulli, già strenuamente combattuto dai diversi samāj a partire dal secolo scorso, è in forte declino, ma il fenomeno non è del tutto scomparso, sebbene una legge in vigore fin dal 1976 fissi l’età minima per contrarre il matrimonio a 18 anni per le femmine e 21 per i maschi. L’India è ancora, anche sotto questi aspetti, un paese di forti contrasti: nel 1976 (per fare un esempio lampante) è stato introdotto, per legge, il divorzio; circa dieci anni dopo, nel 1987 e nel 1988, si sono ancora verificati, rispettivamente in Rājasthān e in Uttar Pradeś, casi di satī (immolazione della vedova sul rogo del marito), che hanno suscitato orrore da parte di alcuni, ma anche plauso da parte di altri e, quel che è peggio, senza che le autorità abbiano ritenuto opportuno, se non doveroso, intervenire. E certi altri fenomeni sociali legati alla religione potrebbero apparire solo come lontani ricordi, se nel 1985 non si fosse svolta una campagna per bandire la prostituzione sacra, che evidentemente è lungi dall’essere scomparsa.

Ancora piuttosto viva, e riconosciuta dal Mahātmā Gāndhī come un carattere distintivo del modo di essere hindū, è la ben nota venerazione della vacca, elevata a simbolo di tutti i valori tradizionali dalle frange più conservatrici della comunità hindū; specialmente nelle campagne, i cinque prodotti vaccini (pañca-gavya) elencati nei testi sacri occupano ancora un posto di primo piano nella vita di molte famiglie; essi sono il latte, la cagliata, il burro fuso (ghṛta, in hindi: ghī, che è il condimento fondamentale della cucina indiana), l’urina (usata un tempo e, sebbene raramente, ancor oggi come medicamento) e lo sterco (che, unito a paglia, confezionato in pani circolari ed essiccato, funge da combustibile per i focolari dei poveri).

Accanto a consolidati comportamenti consuetudinari, garantiti dal senso di fedeltà al proprio passato religioso e culturale che caratterizza la gran parte della popolazione hindū, nella fede semplice delle grandi masse contadine dell’India trovano ancora largo spazio culti praticati nei confronti di figure divinizzate di «eroi» rurali, dei serpenti (nāga) e di molti alberi sacri, oltre che di un gran numero di spiriti benevoli e malevoli e di fantasmi irrequieti di trapassati (preta). Al contrario, trovando speciale seguito nel ceto medio urbano, proseguono la loro attività riformistica, spesso abbinata a interventi umanitari e caritativi, le diverse organizzazioni socio-religiose nate nel secolo scorso, fra le quali spicca la Ramakrishna Mission di Calcutta, i cui monaci – di solito molto preparati – finiscono spesso per rappresentare in qualche modo il punto di vista hindū nel dialogo interreligioso.

In senso opposto, però, allo spirito riformistico dei diversi samāj, e specialmente a partire dagli anni Ottanta, si è verificata una crescita dei movimenti nazionalistici hindū, motivata anche da una comprensibile apprensione dovuta al maggiore incremento della popolazione musulmana (3,6%) – del tutto insensibile, anzi avversa per principio, alle campagne per il controllo delle nascite – rispetto a quella hindū (2,4%); ne costituiscono una prova non solo le manifestazioni promosse nel 1985 da Karan Singh (fondatore del Virat Hindu Samaj, «Società ecumenica hindū») con il sostegno di decine di altri movimenti, ma anche le iniziative di frange estreme del nazionalismo hindū, organizzatesi in associazioni come la Shiv Sena (Śiva-senā, «Esercito di Śiva»), che predica la conversione forzata o la deportazione in Pakistan di tutti i musulmani indiani; questi estremisti hindū sono soliti portare come simbolo l’arma (āyudha) tipica di Śiva, il tridente (triśūla), adatta a essere usata come arma tutt’altro che impropria durante le manifestazioni pubbliche. La tensione fra hindū e musulmani, aggravatasi negli anni Ottanta, è esplosa nei moti di Bombay del 1983-84 ed è divenuta, per così dire, endemica in località come Ayodhyā (l’antica e leggendaria capitale di Rāma descritta nel Rāmāyaṇa), non lontano da Faizābād (Uttar Pradeś), poiché gli hindū si arrogano il diritto di ricostruire l’antico tempio di Rāma, distrutto dai turchi, proprio nel sito dell’attuale moschea edificata sulle sue rovine e, di conseguenza, pretendono di abbattere la moschea stessa e organizzano a tale scopo manifestazioni che hanno recentemente provocato anche violenti scontri. Anche la tensione fra sikh e hindū ha avuto momenti tragici, come l’eccidio di Delhi, dopo l’assassinio politico di Indira Gandhi, nel 1984. Presso i gruppi fondamentalisti hindū il neologismo moderno hindutva, col quale si è voluto tradurre l’inglese hinduism con implicita allusione all’indianità come categoria ideale, vorrebbe far rivivere il sogno antico di un’India totalmente ed esclusivamente hindū, che appartiene a un passato ormai troppo lontano.

Il fondamentalismo hindū, le cui origini si possono in qualche modo far risalire alla fondazione dell’Ārya Samāj (Bombay, 1875), ricevette nuovo impulso nel 1915, con la costituzione di quello che è stato chiamato il «primo partito politico esclusivista hindū» (Madan, 1998, p. 56), la Hindu Mahasabha. I suoi più autorevoli esponenti costruirono l’ideologia dello hindutva sulla base della comunanza di nazionalità (rāṣṭra), razza (jāti) e cultura (saṃskṛti), facendo leva sul principio di una identità culturale prima ancora che «religiosa» e prescindendo, almeno apparentemente, da ogni finalità di tipo politico. Perfino una struttura come il Rashtriya Svayamsevak Sangh (RSS), ovvero «Organizzazione Nazionale dei Volontari», fondata a Nāgpur nel 1925, definì i propri obiettivi «in termini rigorosamente non politici», sottolineando il proprio carattere di organizzazione «culturale» fondata sulle cinque unità (geografica, razziale, religiosa, culturale e linguistica), mentre le dichiarazioni dei suoi esponenti avevano spesso, al contrario, «il tono inequivocabile di una rivendicazione di potere», in quanto «riconoscere la supremazia della cultura hindū» assumeva il significato di «garantire agli hindū il monopolio del potere» (Madan, 1998, pp. 58 sg.). La «cultura nazionale» o «cultura indiana» (bhāratīya saṃskṛti), d’altra parte, era definita in modo sempre più evidente come una sorta di derivazione dalla «religione hindū» (hindū-dharma), chiamata anche «religione di Stato» (rāṣṭra-dharma), mentre il carattere squisitamente «politico» degli obiettivi del Rashtriya Svayamsevak Sangh, manifestatosi più chiaramente nel 1951 con il sostegno accordato al nuovo partito del Jan Sangh e con una crescente ostilità non solo verso gli «stranieri», ma anche verso gli hindū «occidentalizzati», considerati come «nemici interni» della cultura «nazionale», ha recentemente trovato espressione in forze politiche come il Bharatiya Janata Party, che oggi governa l’Unione Indiana.

Si può notare, tuttavia, come in questi primi anni del secondo millennio, e specialmente fra gli intellettuali e nell’ambiente borghese, si stia diffondendo una sorta di hindūismo «moderno» estremamente conciliante sul piano teoretico, che, sulla scia forse della visione religiosa propria del movimento medievale dei Sant, sostiene che Dio è unico, ma può essere ed è di fatto adorato sotto le forme e nei modi più diversi; in altre parole, si sta diffondendo un nuovo sincretismo secondo il quale tutte le religioni insegnano la sola e unica verità e non ha molta importanza, in definitiva, il nome che ciascuna dà a Dio; tutte le religioni cioè sarebbero uguali nella loro essenza e, fra esse, questa moderna «religione hindū» avrebbe il pregio di fondarsi su basi «scientifiche» per quanto riguarda la visione dell’universo, di Dio e dell’uomo. Gli stessi monaci della Ramakrishna Mission, per esempio, tendono a presentare le proprie verità religiose non tanto come un oggetto di fede, quanto piuttosto come frutti di un ragionamento e di un discorso logico capaci di guidare «scientificamente» gli ascoltatori verso la verità. In modo non dissimile, sebbene con minore preparazione filologica e storico-religiosa, alcuni personaggi oggi estremamente popolari fondano la propria predicazione sull’identità finale fra le religioni. Ne costituisce un esempio la figura di Sathya Sai Baba di Puttaparthy (Āndhra Pradeś), che ha moltissimi seguaci soprattutto stranieri (compreso un folto gruppo di italiani); considerato una reincarnazione di Sai Baba di Shirdi (un santo vissuto nel secolo scorso in Mahārāṣṭra), il nuovo Sai Baba, che si è autoproclamato un avatāra ed è venerato come tale, predica ai suoi seguaci una sorta di sincretismo che considera valide tutte le religioni, invita ciascuno a seguire la propria, ma aggiunge che la divinità è presente oggi in carne e ossa nella sua persona.

A siffatta tendenza alla semplificazione teologica, propria di questa sorta di «induismo moderno», si accompagna quasi inevitabilmente il rifiuto degli aspetti cultuali e rituali della religione tradizionale, talora condannati addirittura come superstizioni, cosicché la religione tende a ridursi a mero comportamento morale, sulla base delle norme codificate dalla prassi consuetudinaria.

Manca, infatti, nella tradizione brāhmanica, l’idea stessa di un’autorità centrale, che garantisca la corretta interpretazione delle scritture, indichi i principi del comportamento etico e garantisca l’unità di tutti i credenti sia sul piano dei contenuti della fede, sia su quello del comportamento religioso e dell’assolvimento dei doveri individuali; ed è proprio nella molteplicità delle sue vie che il cosiddetto «hindūismo» rimane fedele alla propria immagine di sempre, con l’estrema frammentazione delle scuole di pensiero, ciascuna con il suo guru, e con l’idea che la salvezza sia, in ultima analisi, una questione di consapevolezza spirituale a livello personale e che ciascuno debba trovare la sua via per conquistarla.

Se l’idea di una religione comune degli indiani è probabilmente antica e se è vero che, come ha recentemente sostenuto D.N. Lorenzen (1999), le popolazioni dell’India possedevano una sorta di consapevolezza contrastiva di appartenere a una «religione hindū», definita specialmente per contrapposizione a quella islamica, a partire almeno dal XV secolo, se non addirittura dal 1200, cioè dall’inizio del dominio dei Turchi di fede islamica su quel paese, non sembra tuttavia credibile che tutti gli indiani non musulmani si siano sentiti partecipi in passato della «cultura religiosa» tramandata dalla casta brāhmanica e certamente non corrisponde a verità quella sorta di presunzione di appartenenza alla «religione hindū» che i censimenti governativi contemporanei vorrebbero applicare a tutti coloro che non dichiarino apertamente di appartenere a una religione diversa e ufficialmente riconosciuta come tale. Par farsene convinti è sufficiente leggere un saggio come quello di Kancha Ilaiah, significativamente intitolato Perché non sono uno hindū, che mostra con sufficiente chiarezza come la cultura e la religiosità hindū siano spesso sentite come «straniere» dalla maggioranza emarginata della popolazione dell’India, specialmente nel Sud, a causa della «diversità» delle culture drāviḍa. Le masse popolari chiamate dalit-bahujan, che Ilaiah definisce come «persone e caste che formano la maggioranza sfruttata e repressa» (1996, p. 9), posseggono una loro peculiare cultura tradizionale e una conseguente visione delle problematiche sociali che sono diverse da quella dominante e la religione degli hindū, ovvero delle caste alte, si è per così dire sovrapposta a tale cultura senza penetrarvi; sembra pertanto ragionevole pensare che anche questa componente della popolazione, unitamente a quella costituita dai cosiddetti hindū occidentalizzati, possa rientrare, sebbene per ragioni diverse, in quella categoria dei «nemici interni» dei quali ogni fondamentalismo sembra aver bisogno (Madan, 1998, p. 60). In presenza dell’evidente processo di secolarizzazione in atto, anche come conseguenza della rapida industrializzazione, le culture in qualche modo emergenti dei senza-casta, degli ati-śūdra (o «caste inferiori di śūdra»), delle popolazioni tribali e delle cosiddette «altre classi arretrate» (Other Backward Classes) possono costituire una seria minaccia per i centri tradizionali di potere, specialmente quando esse trovino interessanti sinergie con i principi di altre religioni, come il buddhismo e, soprattutto, il cristianesimo. Sembra pertanto di poter capire le ragioni, certamente non giustificabili su un piano oggettivo, in base alle quali il governo attuale dell’India impone restrizioni sempre maggiori all’attività missionaria cristiana, tollerando nel medesimo tempo – e con un comportamento estremamente distante dagli intenti delle dichiarazioni ufficiali – gli atti di violenza anticristiana compiuti, in nome dello hindutva, dalle stesse frange estremiste del principale partito della coalizione che detiene il potere (Piano, 2001, pp. 8 sg.).

All’alba di questo nuovo millennio la politica governativa del Bharatiya Janata Party, il cui sostegno alle istituzioni tradizionali, specialmente per quanto concerne i centri di ricerca sulla lingua e cultura sanscrita, non può non essere considerato favorevolmente dagli studiosi indiani e stranieri del settore, sembra d’altro canto aver favorito e favorire tuttora atteggiamenti di esclusivismo e di chiusura nei confronti di qualsiasi realtà culturale estranea: una parola, quest’ultima, che viene interpretata troppo approssimativamente nel senso di «non hindū».

Questi inquietanti segni di chiusura culturale, oltre che religiosa, verso il mondo esterno si sono palesati proprio verso la fine di un secolo, il ventesimo, durante il quale si è verificato, in seno allo hindūismo, un fenomeno di segno opposto, che è tuttora in essere: si tratta del tentativo, almeno in parte riuscito, di varcare i confini dell’India, per diffondere forme diverse della cultura religiosa hindū nel resto del mondo. Questa tendenza ha avuto due esiti diversi e fra loro complementari. Da un lato si sono diffuse, specialmente negli Stati Uniti d’America e in Europa, forme di spiritualità hindū, presentate da «maestri» indiani di scuole diverse, ma quasi sempre con una marcata impronta vedāntica, attorno ai quali hanno preso forma alcuni dei cosiddetti «nuovi movimenti religiosi»; tale fenomeno, che ha raggiunto il suo apice negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è ormai in declino e, in ogni caso, è stato considerato, almeno finora, con una certa diffidenza da parte dell’ambiente tradizionale brahmanico. Dall’altro lato si è verificato un fatto nuovo, soprattutto – e non a caso – nell’ambiente delle scuole tāntriche, in seno alle quali il fenomeno trova forse una più ampia giustificazione: i maestri indiani di alcune scuole hanno cominciato a conferire l’iniziazione (dīkṣā) e, in seguito, la qualifica di svāmin a discepoli stranieri, trasformandoli così in altrettanti guru che, tornati in patria, vi hanno introdotto la prassi religiosa autentica della scuola originaria e hanno a loro volta cominciato a radunare attorno a sé gruppi di discepoli, fondando āśram, scuole di yoga e di danza tradizionale indiana e costruendo edifici da adibire al culto, opportunamente forniti di immagini sacre originali e decorati all’esterno da gruppi di scultori (śilpin) appositamente invitati dall’India. Ciò che colpisce di queste nuove presenze è l’assenza quasi totale – se si escludono forse le abitudini alimentari – di forme concrete di «inculturazione»: in altre parole, questi luoghi abitati da monaci e monache hindū (di solito chiamati svāmin e svāminī) e da piccole folle di allievi e simpatizzanti più o meno interessati agli aspetti «culturali» della tradizione hindū (musica, danza, yoga, ecc.), non fanno che riprodurre nei Paesi ospitanti ambienti e abitudini squisitamente indiani, creando, per così dire, delle piccole «Indie» in miniatura, non diversamente da quanto accade attorno ai focolari domestici degli hindū che vivono all’estero. In tali luoghi si celebrano matrimoni hindū e altri saskāra e si pratica il culto secondo i dettami della scuola di appartenenza. Ne costituisce un esempio il Gītānanda Āśram di Carcare, nell’entroterra di Savona, ove ha sede l’Unione Induista Italiana o Sanātana Dharma Sagha, che ha recentemente ottenuto il riconoscimento ufficiale dello Stato italiano come confessione religiosa, con decreto firmato dal Presidente della Repubblica il 29 dicembre 2000: in questo centro, che contribuisce anche a diffondere nel nostro Paese la cultura tradizionale dell’India attraverso svariate iniziative, si pratica il culto della Dea nella sua forma di Tripurasundarī («La bella delle tre città») e si segue la dottrina e la prassi della scuola Śrī Vidyā o della «Divina Sapienza» dell’India meridionale.

Mentre all’estero cominciano a mettere le loro radici in nuovi contesti umani le scuole del tantrismo hindū, nella «terra dei Bhārata» sembra di poter constatare che la nuova atmosfera socio-politica favorisca un «induismo» sempre più vaiṣṇava: un induismo che, adorando Viṣṇu come divinità suprema e affidando un ruolo in qualche modo subordinato alle altre divinità maggiori, sottolinea da un lato il desiderio di un ritorno agli ideali del sacrificio vedico e quindi alla purezza originaria della tradizione religiosa brahmanica, mentre dall’altro sancisce ancora una volta il valore eterno del dharma hindū – del quale proprio Viṣṇu è il principale custode – in tutti i suoi aspetti, a volte discutibili, come l’organizzazione gerarchica della società delle caste e la supremazia assoluta di una esigua minoranza nei confronti dell’intera popolazione. Visitando l’India in questi primi anni del nuovo millennio, si ha l’impressione che la figura di Śiva, il grande Dio degli asceti, abitatore delle montagne e simbolo supremo di una tensione senza compromessi verso l’Assoluto, con le sue caratteristiche per così dire «trasgressive», sia posta un poco in ombra e che il suo culto tenda a retrocedere leggermente di fronte all’avanzare dell’ordine brahmanico, fatto di minutissime regole e imperiosi divieti e che trova piuttosto in Viṣṇu il suo punto di riferimento. Molto probabilmente svolgono un ruolo non secondario in questo processo, da un lato, gruppi di persone facoltose e disposte a sponsorizzare le varie iniziative – come, per esempio, l’accensione e il mantenimento dei «fuochi sacri» in appositi agni-kuṇḍa durante le feste e le fiere religiose più importanti – e, dall’altro, il sostegno finanziario di movimenti di lontana origine vaiṣṇava, nati fuori dell’India e poi cresciuti soprattutto negli Stati Uniti d’America e in Europa (si pensi specialmente all’International Society for Krishna Consciousness), i quali ora sembrano emergere sempre di più sulla scena indiana, dove solo pochi decenni or sono erano stati considerati con prudente distacco.

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