CAPITOLO 30

Eccomi di nuovo nel mio studio nel centro di Bologna, la mia città. L’ambiente è tutto nuovo, non sembra più lo stesso, un vago odore di vernice aleggia ancora nell’aria. Spalanco la finestra sul cortile interno, un angolo di verde con alberi secolari che svettano oltre i tetti.

Questo caso si è chiuso, ho risolto il mistero e per una volta tanto sono riuscita a farmi riconoscere il merito del buon esito, se di merito si può parlare. Devo ammettere che il mio cambiamento ha degli ha aspetti positivi, agire secondo la legge paga, e allora perché non sono soddisfatta? Perché ho un peso sullo stomaco che non se ne vuole andare?

— Forse saranno i quattro piatti di tortelloni e le tre porzioni di arrosto con le patate che hai ingurgitato ieri sera a Badi prima di tornare a Bologna. — Anche se l’ufficio è stato completamente rinnovato i vecchi fantasmi non se ne andranno mai.

— Silvia, io stavo facendo pensieri profondi e tu riduci tutto a difficoltà digestive.

— Per non parlare delle tre tazze di tiramisù.

— Io stavo riflettendo sull’assurdità nell’avere trovato la colpevolezza in due bambine di dieci anni, una tale efferatezza e mancanza di empatia per gli altri esseri viventi in due vite così giovani mi ha veramente turbata. Però stavo anche riflettendo sulla mia grande forza d’animo, sul fatto che sono riuscita ad agire rimanendo nella legalità. Mi piacerebbe ricevere un complimento per questo, almeno da te.

Silvia si fa una bella risata, di quelle che non mancano di turbarmi.

— Certo, perché gettare un uomo in un buco in modo che venga trascinato dalla corrente di un flusso d’acqua sotterraneo sbattendo sui sassi fino ad annegare secondo te è agire nella legalità? E sentiamo un po’, secondo quale legge pensi di avere agito?

— Ammetto che non sono perfetta, però ci sto lavorando e sono a buon punto.

È inutile, anche questa volta non riceverò parole di lode da Silvia. La porta si apre e una ventata di esuberanza giovanile entra nello studio nella persona di Giacomo. È di buon umore questa mattina e sprizza energia da tutti i pori.

— Stella, stavi parlando con qualcuno?

— No, e con chi? A cosa devo tutta questa incontenibile gioia?

— Abbiamo risolto un caso, siamo stati bravi. Inoltre abbiamo rischiato la vita uscendone quasi illesi, la nostra è una squadra eccezionale, ci meritiamo dei complimenti.

Ecco quello che mi ci voleva. Mi metto a ridere.

— Ma che c’è?

— Niente, niente. Hai ragione Giacomo. E per festeggiare ti pago un caffè e pure una pasta, mi voglio rovinare. — E qui mi metto a ridere proprio di gusto, Giacomo un po’ meno.

Al bar come sempre incontriamo Raimondo che viene verso di noi sorridente.

— Stella carissima, spero che ti siano state utili le mie carte. — Cerco di mandargli messaggi negativi con lo sguardo ma lui non coglie.

— Non so di che cosa stai parlando.

— Ma come, con tutte telefonate che mi hai… — Un calcio nella caviglia gli fa emettere un verso strano, poi si piega a massaggiarsi la parte dolorante.

— Scusaci Raimondo, noi dobbiamo proprio andare, abbiamo un impegno urgente.

Afferro Giacomo sotto braccio e lo trascino fuori dal bar, anche se non aveva ancora finito il suo caffè.

— Cosa abbiamo da fare di così importante da non farmi nemmeno finire la colazione?

— Abbiamo ancora da sistemare una vicenda di nani, mi sembra.

Si stupisce per la fretta ma non obietta.

— Tu avviati, io ho una cosa da sbrigare poi ti raggiungo. Ci vediamo davanti all’Arena Orfeonica. — Osservo Giacomo che sparisce dietro l’angolo poi vado alla macchina e prendo un pacco rimasto nel bagagliaio. Poi torno sui miei passi fino al bar Da Benito. Raimondo è ancora lì, seduto sul tavolino con davanti un cappuccino.

— Ciao Raimondo! — gli dico sorridendo apertamente.

— Senti Stella io sono preoccupato per il tuo equilibrio mentale, dovresti farti vedere da un bravo medico. Questi cambi repentini di umore non sono normali.

— Ma quanto sei spiritoso. Senti io vorrei ringraziarti per i consigli che mi hai dato. E anche, diciamo così, vorrei scusarmi per il mio umore un tantino altalenante.

— Un tantino?

— Oh, insomma, non essere pignolo. Comunque per farmi perdonare ti ho portato un regalo. Tieni!

Gli allungo un pacco avvolto malamente in carta da giornale dal quale spunta un rosso cappello a punta: è l’ultimo dei nani che non è stato smaltito nel bosco. Per un riflesso condizionato Raimondo allunga le mani e afferra lo strano involucro.

— Oh, grazie, un regalo per me. Ma non dovevi.

— È solo una sciocchezza. — Raimondo guarda il nano disgustato.

— No, proprio non dovevi.

Esco dal bar felice per il mio bel gesto. Anche questo fa parte del cambiamento.

 

L’Arena Orfeonica ci apre le sue porte sul vicolo per farci entrare in un ampio spazio magicamente inserito tra le fitte case del centro. Si passa solo da un ambiente a un altro attraverso un varco ma sembra di essere stati catapultati in un altro luogo, e pure in un altro tempo. Il responsabile ci accoglie con la solita cortesia.

— Ma guarda chi c’è, la nostra investigatrice preferita. E pure con un pacco voluminoso sotto il braccio, non mi dire che avete ritrovato Orfeo. Dovevi avvertirmi prima, avrei preparato una festa, tutto il quartiere sarà contento di rivederlo tra di noi.

Mi abbraccia con calore prima che io abbia avuto modo di replicare.

— Aspetta un attimo Luigi, frena. Mi dispiace deluderti, in un certo senso l’abbiamo trovato, e in un altro senso no. — Il suo sorriso si rabbuia.

— In che senso?

— Nel senso che probabilmente è dello stesso lotto, con gli stessi colori e forma, ma non credo sia lui.

— Ma questa è una tragedia.

— E non è tutto. Questo è uno, ora Giacomo va in macchina e porta qui anche gli altri. — Giacomo si allontana verso l’uscita.

— Gli altri?

— Sì. Ce ne sono altri sei, tutti esattamente identici a Orfeo.

— Sette nani? Giannaaaa, Andreaaaa, venite qui! Ci hanno portato sette nani! Ma dove caspita li dobbiamo mettere?

— Non lo so, comunque non potete lasciarli in mezzo alla strada, sono pur sempre parenti stretti di Orfeo. Lui sarebbe contento che voi ve ne prendiate cura.

Ma che cosa sto dicendo? Devo essere impazzita completamente, parlo come se questi pezzi di gesso fossero esseri viventi. I ragazzi dell’Arena Orfeonica mi guardano senza più sorridere, così come guardano Giacomo che uno alla volta mette in fila i sette nani di gesso vicino all’aiuola che prima ne ospitava uno solo. Li osservano da ogni lato, si consultano.

— Ma noi abbiamo un solo fungo, ora dovremo procurarcene degli altri.

Basta che non li facciano cercare a me.

— Tecnicamente però Orfeo non l’hai trovato. Il saldo noi non te lo dobbiamo dare.

Era quello che temevo, speravo proprio che questo dettaglio venisse trascurato.

— Solo tecnicamente…

Luigi si mette a ridere, di me suppongo.

— Ma lo sai che sei proprio simpatica? — Mi mette una mano attorno alle spalle e mi indirizza verso le panchine.

— Venite, dobbiamo comunque festeggiare. Andrea, tira fuori una bottiglia di vino che facciamo un brindisi! Sto pensando che dobbiamo organizzare una festa, una bella serata aperta a tutto il quartiere per inaugurare l’aiuola dei sette nani, magari possiamo indire un concorso per attribuire i nomi a tutti. Voi due dovete partecipare naturalmente, sarete gli ospiti d’onore.

Festa? Odio queste cose. Non mi trovo bene in mezzo alla gente, non so cosa dire, non mi piace fare conversazione parlando di niente, mi sento sempre un pesce fuor d’acqua. Non voglio offendere il mio interlocutore ma devo assolutamente declinare l’invito.

— Non credo di poter venire alla festa. Sono secoli che non vado a feste, non so nemmeno come mi devo vestire.

Mi fermo un attimo e mi guardo intorno, sono finita proprio in mezzo ai sette nani. Luigi si allontana di qualche passo, si gira e mi guarda con aria ironica e un sorriso canzonatorio, inclinando un po’ la testa.

— Io un’idea su come dovresti vestirti ce l’avrei.