Il rumore era la cosa peggiore. Non il crepitio delle fiamme, né le esplosioni e il fragore degli edifici che crollavano, neppure le grida e l’incessante rullare dei tamburi, o i gemiti e le urla della folla: era l’ululato dell’incendio. Ruggiva la sua collera. Era la voce stessa della Grande Bestia.
Una parte del tetto della navata collassò all’interno. Il rombo fece ammutolire la folla per un breve istante.
Altrimenti non avrei sentito il piagnucolio accanto a me. Proveniva da un ragazzetto con una camicia lacera che si era appena fatto largo tra la calca. Barcollava, sull’orlo del collasso.
Gli toccai il braccio. «Ehi. Tu».
Il ragazzo alzò di scatto la testa. Aveva gli occhi sgranati e smarriti. Fece un movimento come se volesse scappare, ma era bloccato da tutte le parti. Mezza Londra, dal re e dal duca di York in giù, era uscita per assistere all’agonia della cattedrale.
«Stai bene?»
Vidi che era ancora instabile e gli presi il braccio per sorreggerlo. Lui si sottrasse bruscamente. Curvò le spalle e cercò di confondersi tra la gente davanti.
«Per amor del cielo!» esclamai. «Non andare così vicino. Rischi di finire abbrustolito».
Si dimenò dalla parte della donna che gli stava vicina. Eravamo in fila tutti e tre e sbirciavamo tra le spalle e i gomiti delle persone davanti a noi.
La folla più numerosa, compreso il gruppo reale, era nel cimitero a nord-est della cattedrale. Io e il ragazzino invece eravamo su Ludgate Street, a ovest del colonnato. Ero diretto a Whitehall, anzi, avrei dovuto esserci già da un’ora, perché ero stato convocato da messer Williamson, che non era una persona da cui farsi aspettare.
Ma come era possibile staccarsi da un simile spettacolo? Andava oltre ogni immaginazione, era incredibile.
Eravamo abbastanza al sicuro per il momento, a patto di tenerci a debita distanza. Alcuni degli edifici tra noi e St Paul erano stati demoliti, nella speranza di bloccare l’incendio, e questo ci offriva una vista sulla collina fino alla cattedrale. Ma non sapevo per quanto tempo saremmo potuti rimanere lì. Il calore e il fumo mi stavano già bruciando nei polmoni e rendevano difficile la respirazione.
Sebbene le fiamme ora avessero raggiunto il corso del Fleet a nord e a sud, Fleet Street era ancora intatta, almeno temporaneamente, e questo ci lasciava una via di fuga. Le fiamme viaggiavano a una velocità di trenta iarde l’ora, grosso modo la stessa di quando l’incendio era scoppiato nelle prime ore del mattino di domenica. Ma non si poteva mai dire. Il vento sarebbe potuto cambiare di nuovo. Le scintille, trasportate per centinaia di iarde e più, avrebbero potuto attecchire da qualche altra parte. Il fuoco seguiva la propria logica, non quella degli uomini.
Rivoli di metallo fuso si aprivano la strada tra le colonne e lungo i gradini della cattedrale. Era un liquido denso e argenteo, con striature dorate e arancioni e di tutti i colori dell’inferno: proveniva dal piombo fuso che precipitava dal tetto in fiamme sul pavimento della navata.
Persino i ratti erano in fuga. Scorrazzavano per le strade in ondate di pelo ardente, perché alcuni avevano già preso fuoco. Altri erano troppo vecchi o troppo deboli o troppo giovani per scappare ed erano inceneriti dal calore. Ne osservai tre intrappolati nella pioggia d’argento, dove si dibatterono squittendo prima di accartocciarsi e morire.
Nonostante l’ora tarda, nonostante la nube di fumo che ammantava la città, c’era luce come a mezzogiorno. Ormai – dovevano essere le otto o le nove di martedì sera –, la cattedrale ardeva dall’interno come una gigantesca lanterna. Dominava la scena anche mentre si compiva la sua distruzione.
Guardai a sinistra, oltre la donna accanto a me, il ragazzo che teneva la faccia rivolta in alto. Il chiarore delle fiamme lo faceva sembrare meno umano, lo privava della vita e lo riduceva a una sagoma nitida ma appiattita, come un busto inciso su una moneta.
Un incendio ha in sé sempre qualcosa di affascinante, ma questo li superava tutti. Avevo osservato la città bruciare fin dalla mattina di domenica. Conoscevo Londra da più tempo di qualsiasi altra cosa. In un certo senso era come vedere la mia stessa storia svanire nel fumo.
Mi sorpresi a pensare che era stranamente entusiasmante. Una parte di me era euforica per lo spettacolo. Un’altra pensava: adesso tutto cambierà.
Nessuno aveva creduto sul serio che le fiamme potessero raggiungere la cattedrale. St Paul era considerata inattaccabile. Adagiata sulla collina, svettava sulla City e sui sobborghi come aveva fatto per secoli. Era immensa: quasi seicento piedi di lunghezza. La cuspide era crollata all’epoca della vecchia regina e non era mai stata sostituita. Restava però la torre, e lo stesso corpo della chiesa, dal nuovo colonnato a ovest fino al coro con le sue guglie a est, si innalzava per più di cento piedi dal terreno. I muri erano così massicci che niente poteva trapassarli.
Inoltre tutti sostenevano che la Mano Divina proteggesse St Paul, perché l’incendio aveva avuto numerose occasioni di attaccarla. La scuola, sul lato orientale, era già stata distrutta, insieme alle sue grandi biblioteche; avevo trascorso lì gran parte della mia giovinezza e non piangevo per la sua perdita. Ma fino a stasera le fiamme avevano girato intorno alla chiesa vera e propria, lasciandola intatta. St Paul, si diceva, era sempre stata più di una chiesa, più di una cattedrale: era il simbolo stesso di Londra. Era l’anima della città. Era invulnerabile.
Indossavo il mio mantello meno pregiato, che per precauzione avevo bagnato nel Tamigi prima di venire qui. Avevo imparato sulla mia pelle che una protezione qualsiasi dal calore e dai fumi era meglio che non averne alcuna, e un mantello difficilmente mi avrebbe fatto sentire più accaldato di quanto già non fossi.
Un imponente rombo si levò dall’interno dell’edificio. Una lingua di fuoco si levò sopra il coro. Le fiamme si riversarono fuori dalle finestre. L’aria calda investì gli spettatori. La folla indietreggiò.
«Iddio santissimo!» esclamò il ragazzo con una voce stridula e tormentata. «La cripta è andata».
Uno degli uomini davanti gettò a terra il cappello e lo calpestò, allargò le braccia e lanciò un gemito. Gli amici cercarono di trattenerlo. Era Maycock, lo stampatore.
Tira una brutta aria, pensai. Se non altro messer Williamson ne sarà contento.
Maycock e molti suoi colleghi avevano depositato i libri, i documenti e le casse di caratteri più preziose nella cripta della cattedrale, St Faith, che fungeva da chiesa parrocchiale. Non avevano lasciato nulla al caso: avevano sbarrato le porte con lucchetti e catenacci; avevano tappato qualunque apertura potesse lasciar entrare una scintilla o una corrente d’aria. Anche se la chiesa fosse crollata sopra le loro teste, pensavano, i loro libri a St Faith sarebbero stati al sicuro sottoterra per l’eternità.
Ma loro, come tutti gli altri, non avevano fatto i conti con il vento forte e capriccioso, che aveva appiccato il fuoco ad alcune merci sul sagrato. Da lì e dagli edifici circostanti aveva poi spinto le scintille sul tetto del coro. Il tetto era in restauro da mesi, perciò c’erano travi di legno scoperte nei punti dove il piombo si era danneggiato, ed erano già cotte dal sole estivo. Le scintille vi si erano adagiate danzando e nell’aria rovente le prime fiamme non avevano tardato a manifestarsi.
Il vento alimentò le fiamme, che incendiarono le capriate del tetto. La quercia stagionata bruciava quasi più del carbone. Il calore aveva incrinato la volta sottostante e le grandi pietre erano crollate sul coro e sulla navata. L’interno dell’edificio era pieno di impalcature di legno che avevano agito da innesco. Nel giro di pochi minuti ogni cosa aveva preso fuoco.
L’incendio aveva poi raggiunto la cripta. Le pietre cadute dalla volta dovevano aver sfondato il pavimento del coro. I libri e i documenti custoditi a St Faith erano esplosi in una violenta fiammata.
La temperatura nel punto in cui ci trovavamo stava già salendo.
La donna accanto a me si mosse. «Dio non voglia che ci sia ancora qualcuno là dentro». La sua voce era così vicina al mio orecchio che sentii il suo respiro sulla pelle.
Era impossibile sopravvivere al calore all’interno della cattedrale. Era quasi insopportabile persino lì fuori, e aumentava di continuo. Chiunque all’interno doveva essere già morto o moribondo, come i ratti.
Maycock stramazzò a terra. I suoi amici lo sorressero e lo portarono via. Il loro allontanamento lasciò il ragazzino, la donna e me in prima fila.
«Guardate! Guardate, il tetto!»
Lei protese il braccio e indicò. Aveva il viso acceso, come se avesse avuto una visione dell’eternità. Seguii la direzione del suo dito. Da dove eravamo vedevamo l’angolo sud-occidentale della cattedrale, dove la cappella di St Gregory si addossava alla navata.
Il tetto crollò con un rombo che superò il crepitio delle fiamme. Si levò un grido stridulo, senza parole.
Il ragazzino si staccò dalla folla e corse verso St Paul.
Gli gridai di fermarsi. Il fuoco inghiottì la mia voce. Imprecai e lo rincorsi. Il calore si abbatté su di me. Sentivo odore di peli strinati e carne bruciata. Avevo i polmoni in fiamme.
Il ragazzo teneva le braccia protese. Verso la cattedrale? Verso qualcosa o qualcuno all’interno?
Le mie gambe erano più lunghe delle sue. Dopo venti o trenta iarde lo afferrai per la spalla e lo feci voltare, e il cappello gli volò via dalla testa. Lo cinsi con il braccio destro e lo trascinai indietro.
Si divincolò. Io strinsi la presa. Lui mi prese a calci negli stinchi. Gli assestai un colpo in testa e questo lo acquietò per qualche istante.
Una pioggia di scintille ci colpì, sospinte dal vento feroce che guidava l’incendio. Tossimmo entrambi. Una lingua di fuoco danzava sul davanti della camicia del ragazzo. La spensi con la mano, ma un’altra gli spuntò sulla manica. Alla fine lui si ridestò e si mise a urlare, comprendendo il pericolo che correva. Mi tolsi il mantello e lo avvolsi intorno al suo corpo esile per soffocare le fiamme.
La folla si allargò quando lo trascinai lontano dal calore. Lo adagiai nel precario riparo di uno scalino fuori da una locanda sprangata sul lato della via dalla parte della City. Lo schiaffeggiai in viso, prima su una guancia e poi sull’altra.
Lui aprì gli occhi, si tolse di dosso il mantello e digrignò i denti come un gatto furioso.
«Sangue di Giuda» dissi. «Sei un piccolo idiota. Avresti potuto uccidere entrambi».
Il ragazzo si alzò e sbirciò verso St Paul.
«Non c’è più niente da fare!» gridai, per farmi sentire oltre il ruggito dell’incendio e i crolli dell’edificio. «Per nessuno di noi».
Ricadde contro lo scalino. Aveva chiuso gli occhi. Forse era svenuto di nuovo. Gli scostai il mantello e lo misi a sedere sul gradino. La camicia non ardeva più, ma il colletto era strappato.
Continuava a tossire, ma con meno violenza di prima. Anche lì, a una certa distanza dall’incendio, tutto era illuminato a giorno, ma l’abbagliante chiarore arancione e tremolante era quello che ci si aspetterebbe nell’Armageddon, alla fine del mondo.
Lo guardai attentamente per la prima volta. Notai una striscia nera di fuliggine o di sporco intorno al collo esile. Vidi la camicia aperta e l’incavo sotto le clavicole. Vidi il velo di sudore sul petto, scintillante alla luce del fuoco.
E vidi due seni perfettamente tondi.
Sbattei le palpebre. St Paul bruciava, la folla spintonava e l’aria vibrava per le esplosioni, il ruggito delle fiamme e i crolli degli edifici. Ma in quel momento tutto ciò che vidi era il ragazzo.
Il ragazzo?
Scostai il colletto della camicia.
No, non era un ragazzo. Non era nemmeno una bambina. Almeno dalla vita in su era una giovane donna.
Lei aveva aperto gli occhi e fissava i miei. Lasciai cadere la stoffa della camicia. Si alzò. La sua testa mi arrivava sotto la spalla. Afferrò di scatto il mantello per proteggere la propria pudicizia. Nonostante la folla avremmo potuto essere soli, perché tutti guardavano verso St Paul.
«Che cosa stai facendo?» disse.
Non sembrava una mendicante o una donna di strada. Parlava come una dama che si rivolga alla sua cameriera. Una dama che non era affatto di buon umore e una cameriera che aveva commesso un grossolano errore.
«Tu che dici?» ribattei. «Ti sto salvando la vita».
Come a conferma della mia affermazione si udì un altro schianto dalla cattedrale e una porzione del frontone del colonnato crollò con un impeto che fece tremare il terreno. I blocchi di pietra si ridussero a una nuvola di detriti e polvere.
«Di dove sei?» chiesi. «Chi sei? E perché…»
Fece per allontanarsi.
«Ferma. È il mio mantello».
Le afferrai la mano e la tirai indietro. Lei si portò le mie dita alle labbra. Per un folle secondo pensai che volesse baciarle. Un gesto di gratitudine per averle salvato la vita.
Notai il bianco dei suoi denti. Mi morse il dorso della mano, giusto all’attaccatura dell’indice. I denti affondarono con forza fino all’osso, lacerando il tendine.
Lanciai un grido e la mollai.
Lei scappò in mezzo alla folla su Ludgate Hill con il mio mantello che le svolazzava sulle spalle. Rimasi lì a guardarla, tenendomi la mano ferita. Avevo una sete atroce e mi doleva la testa.
Durante l’Incendio fui testimone di molte cose contrarie alle consuetudini e alla natura, contrarie alla ragione e all’ordine divino, che sembravano preannunciare disastri futuri ancora più gravi. Monstra, era la parola latina con cui gli eruditi denominavano certe cose, per indicare meraviglie o prodigi o cattivi presagi. La distruzione di St Paul fu uno di questi.
Ma quando mi addormentai, quella notte, non sognai fiamme o edifici crollati. Sognai il viso del ragazzo-ragazza con gli occhi sgranati e assenti.