2.

Ceneri e sangue. Notte dopo notte.

Pensavo a ceneri e sangue quando mi svegliai, dopo un sonno profondo, il mattino successivo a quando l’Incendio aveva raggiunto la cattedrale. A giudicare dalla luce capii che era presto, appena passata l’alba.

Non erano le ceneri ardenti della città la notte precedente. Non era il sangue della mia mano dopo che il ragazzo-ragazza mi aveva morso.

Questo sangue gocciolava da una testa. E le ceneri erano fredde. Un uomo in lacrime se le era sparse sui capelli.

La cosa mi aveva provocato incubi da bambino e per mesi mi ero svegliato urlando, notte dopo notte. Mia madre, di norma moglie quanto mai mite e devota, aveva rimproverato mio padre per aver permesso a suo figlio di assistere a certe cose.

«Lo faranno anche a me un giorno?» avevo chiesto a mia madre. Notte dopo notte.

Adesso, un mattino d’estate di molti anni dopo, sentii il cinguettio armonioso di un merlo. Il letto scricchiolò quando mio padre cambiò posizione.

«James?» chiese con la voce flebile e rauca della vecchiaia. In questi giorni dormiva male e si alzava presto, lamentandosi dei brutti sogni. «James? Sei già sveglio? Perché fa così caldo? Andiamo in giardino, staremo più freschi».

Anche qui, alla periferia di Chelsea, il cielo era grigio di cenere, il sole dell’alba ridotto a uno sbaffo arancione. L’aria era già calda. Sapeva di cenere.

Dopo essermi vestito, mi tolsi la fasciatura alla mano sinistra. Aveva smesso di sanguinare, ma la ferita pulsava dolorosamente. Riavvolsi la benda e aiutai mio padre a scendere la stretta scala, augurandomi di non svegliare i Ralston.

Ci incamminammo nel frutteto, mio padre appoggiato al mio braccio destro. Gli alberi erano carichi di frutti – in maggioranza meli, peri e susini, ma c’erano anche pruni selvatici, noccioli e un nespolo. L’erba era ancora ricoperta di rugiada.

Mio padre avanzava strascicando i piedi. «Perché è così nero?»

«È l’Incendio, signore. Tutto il fumo».

Si accigliò e girò la testa verso il cielo. «Ma sta nevicando».

Il vento si era placato durante la notte e aveva cambiato direzione da est a sud. L’aria era piena di fiocchi scuri che fluttuavano e ondeggiavano come ballerini ubriachi.

«Neve nera» disse e, sebbene facesse già piuttosto caldo, rabbrividì.

«Avete molta fantasia, signore».

«È la fine del mondo, James. Te lo avevo detto che sarebbe andata così. È stata la dissolutezza della corte ad attirare questo su di noi. È scritto, e deve accadere. Questo è il 1666. È un segno».

«Smettetela, padre». Gettai un’occhiata alle mie spalle. Anche qui era pericoloso, oltre che sciocco, parlare in questo modo, soprattutto per un uomo come mio padre la cui libertà era appesa a un filo. «Non è neve. È solo carta».

«Carta? Sciocchezze. La carta è bianca. La carta non cade dal cielo».

«È carta bruciata. Cartai e stampatori custodivano carta e molti libri nella cripta di St Paul. Ma l’Incendio ha trovato una via per arrivarci e adesso il vento soffia i frammenti fin qui».

«Neve» borbottò il vecchio. «Neve nera. Un altro segno».

«Carta, padre. Non neve». La mia voce aveva un tono esasperato e mi pentii di aver parlato. Intuii, più che vederlo, lo sconcerto sul viso di mio padre, perché le manifestazioni di rabbia o irritazione lo turbavano, a volte fino alle lacrime. Proseguii in tono più gentile: «Lasciate che ve lo mostri».

Mi chinai a raccogliere un frammento di carta bruciacchiata, l’angolo di una pagina con qualche parola stampata ancora visibile sulla superficie annerita. Glielo porsi.

«Vedete? Carta. Non neve».

Mio padre prese il pezzetto di carta e se lo avvicinò agli occhi. Mosse le labbra senza emettere un suono. Era ancora in grado di leggere persino i caratteri più minuti con pochissima luce.

«Che ti avevo detto?» osservò. «È la fine del mondo. È un altro segno. Leggi».

Mi porse il frammento. Proveniva dal fondo di una pagina, era l’angolo in basso a destra. Vi si leggevano quattro parole, che appartenevano alla fine di due righe successive:

È tempo;

è finito.

«Allora?» Protese le braccia verso i fiocchi neri che roteavano nel cielo scuro. «Non ho forse ragione, James? La fine del mondo è vicina e Cristo tornerà per regnare in maestà su tutti noi. Sei pronto ad affrontare il tuo Dio assiso sul trono del Giudizio?»

«Sì, padre» risposi.

A partire da maggio io e mio padre alloggiavamo in un cottage all’interno di un orto recintato, i cui prodotti venivano venduti al mercato. Condividevamo la casa con il contadino, sua moglie e la domestica. Quando era bel tempo il vecchio si sedeva nell’orto e gridava, agitando il bastone verso gli uccelli predatori e i bambini.

La signora Ralston, la moglie del contadino, accettava volentieri i nostri soldi e io mi assicuravo di pagare puntualmente l’affitto. Si lamentava per il lavoro extra, sebbene ricadesse per la maggior parte sulle spalle della domestica, e non le piaceva avere mio padre tra i piedi durante il giorno. Ci sopportava solo per i soldi. Ovviamente, diceva, se la salute di messer Marwood fosse peggiorata, la questione sarebbe stata diversa. Lei e messer Ralston non potevano certo badare a un malato.

Avevo scelto questa sistemazione per tre buoni motivi, quando mio padre era stato scarcerato sotto la mia responsabilità. L’aria di campagna era più salubre. Gli alloggi più economici. E, soprattutto, l’orto era abbastanza lontano da Londra da ridurre a un livello irrisorio la possibilità che qualcuno lo riconoscesse; nel contempo non era così lontano da impedirmi di fare la spola avanti e indietro tutti i giorni dalla città.

Mio padre era un uomo segnato. Quando il re era salito di nuovo sul trono, sei anni prima, il Parlamento aveva varato una Legge di Amnistia che perdonava tutti coloro che avevano combattuto contro la Corona durante l’ultima insurrezione. Gli unici soggetti esclusi da questa grazia erano i Regicidi, ovvero coloro che avevano partecipato direttamente all’esecuzione del padre del re a Whitehall.

Mio padre rientrava nella copertura della legge, perché non era stato accusato di regicidio, ma aveva rigettato la clemenza del sovrano dopo la Restaurazione, per sua scelta, e adesso ne soffrivamo le conseguenze. Gli volevo bene, ma a volte scoprivo di odiarlo.

Mia madre aveva sperato che potessi avere una vita diversa. Era stata lei a convincere mio padre a iscrivermi alla scuola di St Paul. Sognava che potessi diventare un predicatore o un avvocato, un uomo che lavorava con la testa e non con le mani. Ma era morta qualche anno dopo. Mio padre, i cui affari erano in declino, mi ritirò dalla scuola e mi legò a sé come suo apprendista. Poi compì il suo ultimo gesto di follia, dopo la Restaurazione, ed entrambi fummo definitivamente rovinati.

Dopo colazione gli dissi che sarei andato a Whitehall.

«Ah, Whitehall» disse e il suo viso si illuminò. «Dove hanno ucciso quel sanguinario. Ricordi?»

«Zitto, padre. Per amor del cielo, zitto».

Ma non mi recai a Whitehall. Non subito.

Avevo pensato di andarci a piedi, ma la strada per Westminster, Whitehall e la City era intasata di londinesi in fuga, a piedi e a cavallo, su carri e carrozze. Con loro c’erano gli anziani e i malati; alcuni di questi presentavano i segni della pestilenza che ancora aleggiava sulla città.

Altri bivaccavano nei campi e nei frutteti sul ciglio della strada, sotto tende e ricoveri di fortuna, oppure seduti semplicemente all’aperto, piangendo o fissando con sguardo assente il fumo dell’Incendio, ammutoliti per lo sgomento.

Calcolai che mi ci sarebbe voluta almeno un’ora in più per risalire la fiumana di gente verso Londra. Così scesi al fiume e noleggiai una barca a remi che mi portasse in città. Era una spesa che potevo permettermi a stento, ma necessaria.

L’Incendio aveva fatto la fortuna dei barcaioli, perché tutti erano alla ricerca di un’imbarcazione di qualsiasi genere per mettersi in salvo insieme ai loro beni, pronti a pagare le cifre più esose senza battere ciglio. Le acque erano solcate da imbarcazioni stracariche, grandi e piccole. Il Tamigi, anche nel suo corso occidentale, era affollato come a Cheapside prima che fosse raggiunta dall’Incendio.

Ma, al pari della strada, il traffico era diretto soprattutto lontano da Londra. Contrattai con il barcaiolo, convincendolo che sarebbe stato meglio avere un passeggero a bordo invece di fare un viaggio a vuoto per tornare a prendere altri esuli con i loro averi.

La navigazione fu spedita, grazie alla corrente e alla marea favorevoli. Il Tamigi era grigio come peltro e costellato di detriti bruciacchiati e oggetti abbandonati, soprattutto mobili. Vidi un bel tavolo che galleggiava a gambe all’aria, con un gabbiano appollaiato su una di esse.

Arrivati quasi all’altezza dell’approdo di Whitehall, dissi al barcaiolo di non fermarsi, ma di proseguire fino a St Paul. Ero curioso di vedere che cosa ne fosse rimasto. Inoltre una parte di me si domandava se il ragazzo-ragazza ci sarebbe tornato a sua volta. Qualcosa l’aveva attratta verso la cattedrale mentre i ratti ne fuggivano, qualcosa di così potente da indurla a ignorare l’Incendio.

Vista dal fiume, Londra offriva uno spettacolo raccapricciante. Un’enorme coltre di fumo e cenere era sospesa sulla città. Al di sotto l’aria era di un rosso intenso e torrido. Il sole non riusciva a passare e la città era immersa in un crepuscolo innaturale.

Da Ludgate alla Torre non sembrava esserci altro che ardente devastazione. Le case addossate le une alle altre, quasi tutte di legno, si erano sciolte, lasciando solo cumuli di pietre e mattoni anneriti. Anche lì sull’acqua, con la brezza tagliente che soffiava dal Tamigi, si sentiva il calore che pulsava dalle macerie.

Ogni tanto lo scoppio soffocato di un’esplosione giungeva fino a noi. Per ordine del re si stavano demolendo gli edifici lungo il tragitto delle fiamme, nella speranza di creare una fascia tagliafuoco. Ci fu una detonazione da qualche parte tra Fleet Street e il fiume.

Il barcaiolo si tappò le orecchie e imprecò.

«Non possiamo attraccare, signore» disse tossendo. «Che Dio ci assista, brucerete se scendete a riva».

Una pioggia di scintille ci colpì e qualche frammento mi rimase attaccato alla manica. Mi affrettai a spazzolarli via. «E un po’ più giù?»

«È lo stesso lungo tutto il corso del fiume. Fa sempre più caldo. Dicono che l’olio bruci nei magazzini».

Senza aspettare il mio ordine si staccò dalla riva settentrionale e si spinse di nuovo in mezzo alla corrente. Fissai St Paul. Era ancora in piedi, ma il tetto non c’era più e i muri e la torre avevano contorni incerti, come sagome viste sott’acqua. Colonne di fumo si alzavano dai focolai ancora accesi all’interno del guscio annerito. Non era più una chiesa. Somigliava piuttosto a un enorme tizzone in una stufa.

Impossibile che il ragazzo-ragazza fosse a meno di venti iarde da lì. Nessuna creatura vivente poteva sopportare quel calore.

«Whitehall» dissi.