21.

Al mattino la pioggia si era intensificata. Sistemai mio padre accanto al fuoco, ordinandogli severamente di non avventurarsi in giardino né di importunare la signora Ralston. Scesi al fiume e noleggiai una barca coperta che mi portasse fino all’approdo pubblico di Whitehall.

Messer Williamson non era a Scotland Yard. Andai nella sua stanza presso gli uffici di lord Arlington nel Privy Garden. Un impiegato altezzoso mi indirizzò alla Matted Gallery. La galleria era affollata di gente che passeggiava lentamente su e giù, rivolgendo inchini ai conoscenti. Era un ritrovo assai popolare a palazzo, soprattutto quando il tempo non permetteva di uscire nel parco.

Trovai Williamson in piedi a una finestra all’estremità opposta, che guardava il giardino sottostante. Canticchiava tra sé, come faceva spesso quand’era immerso nei suoi pensieri.

«Sua signoria è nel gabinetto del duca» disse senza tanti preamboli, accortosi che lo avevo quasi raggiunto. «È quanto mai seccante. Mi ha ordinato di aspettarlo qui, ma ho mille cose da fare».

Mi prese per un braccio e mi condusse in una nicchia dove c’era un orologio dall’aria antica. Il suo sguardo saettava ovunque, tranne che sul mio viso, scrutando la folla di persone nella galleria.

«Ma è un bene che tu sia qui» proseguì. «Ho bisogno di avere la conferma di una cosa. Questo Coldridge che hai menzionato… Sei sicuro che fosse il nome scritto nella cassa del domestico e anche quello usato dal compagno di Sneyd?»

«Al di là di qualsiasi dubbio, signore. “Coldridge PW” era la scritta sul foglio che conteneva le ghinee nella cassa di Layne, anche se la grafia non era la sua». Mi domandai perché fosse tanto importante per Williamson verificare ciò che gli avevo detto il giorno prima. «E la signora Sneyd mi ha detto che il compagno di suo marito si chiamava Coldridge».

«Hai chiesto informazioni a tuo padre?»

«Sì. Non conosceva quel nome».

«Non lo conosceva?» obiettò aspro Williamson. «Oppure non voleva ammetterlo?»

«Gliel’ho chiesto in un momento di lucidità. Penso di saper riconoscere quando mi dice la verità».

Williamson sbuffò. «E non hai scoperto nient’altro su questo Coldridge?»

«Soltanto questo, signore». Decisi di rivelargli la riflessione che avevo fatto mentre ero nella cattedrale. Ieri non gliene avevo fatto parola, perché mi sembrava azzardata, ma adesso volevo distogliere l’attenzione di Williamson da mio padre. «Mi è venuto in mente che “PW” potrebbe riferirsi al Paul’s Walk. In tal caso il foglio indicava un nome e un luogo. Sarebbe possibile che fosse questa la ragione che aveva spinto Layne a St Paul la notte in cui è stata distrutta dall’Incendio?»

«Per incontrare Coldridge?»

«Oppure per spiare un incontro tra Coldridge e qualcun altro, magari Jem Brockhurst, il servitore frustato a morte».

Williamson si morse il labbro inferiore. «È possibile» riconobbe. «Ci rifletterò su». Tutt’a un tratto si riscosse e tornò quello di sempre. «Io sono bloccato qui, Marwood, ma non c’è motivo che tu te ne stia con le mani in mano. Voglio che compili l’elenco dei miei attuali informatori. Non dovresti impiegarci molto. Poi porta la bozza della Gazette a messer Newcomb. Digli…» Guardò oltre me e all’improvviso sulle sue labbra affiorò un sorriso. «Sir Denzil, al vostro servizio, signore». Fece un profondo inchino. «E anche al vostro, signore». Un altro inchino, ancora più profondo. «Che piacere rivedervi a corte».

Mi voltai. Messer Alderley e sir Denzil Croughton si avvicinavano camminando a braccetto. Si staccarono e si inchinarono a messer Williamson. Io feci lo stesso, ma il loro sguardo scivolò sopra di me e non ricambiarono la riverenza.

«Siamo venuti a trovare il duca di York» annunciò sir Denzil con la sua voce acuta e stanca. «Per suo espresso ordine. Ma ora con lui c’è lord Arlington».

Williamson fece un altro inchino, per sottolineare l’evidente importanza dell’annuncio. «Desidera la vostra assistenza, signore?» chiese a messer Alderley.

«Sì. Una questione da poco, ma urgente. Almeno per Sua eccellenza».

«Da poco?» Sir Denzil scoppiò a ridere. «Da poco?» Abbassò la voce a un sussurro. «Per Dio, signore, sono ben scarse le persone in questa galleria, e a ben vedere in tutta l’Inghilterra, per le quali duemilaquattrocento sterline sono una somma da poco. E ancora meno quelle in grado di trovarla con uno schiocco di dita».

«Mi lusingate, signore». Messer Alderley sorrise. «Dopotutto non si tratta di denaro contante, solo una questione di credito a breve scadenza. Una quisquilia».

«Ah!» esclamò sir Denzil. «Se questa è una quisquilia, signore, io sono una miserabile prostituta olandese, che io sia dannato!»

Io fissavo la stuoia infangata sul pavimento, sapendo di essere ritenuto di ben poco conto da quei gentiluomini, al punto che non reputavano necessario nemmeno tenere a freno la lingua. Che strano prestare a un uomo soldi che non avevi. La moneta con cui contrattavano certe persone non era fatta di oro o d’argento, bensì di promesse e sogni.

I tre gentiluomini si avviarono lentamente per la galleria, con Alderley al centro. In assenza di indicazioni diverse, li seguii tenendomi due passi dietro messer Williamson.

A un certo punto sir Denzil si bloccò. «Guardate».

Indicò verso una porta a una certa distanza sul lato della galleria verso il fiume. Era sorvegliata da due soldati. Uno di loro l’aveva aperta per un gentiluomo che era in procinto di entrare negli appartamenti dall’altra parte.

Il gentiluomo si fermò sulla soglia e gettò un’occhiata alla galleria. Era di mezza età, grassoccio, con dimessi abiti neri. Lo riconobbi immediatamente dalla verruca sul mento.

«Ah» osservò messer Williamson. «Finalmente il suo padrone si muove».

Sir Denzil rise tra sé. «Si muove, signore? La domanda è: quale parte di lui si sta muovendo?»

La porta si richiuse dietro il gentiluomo. Nello stesso momento un valletto con la livrea del re si fece largo tra la folla verso di noi. Sir Denzil e Alderley si girarono dalla sua parte.

Il servitore si fermò davanti a loro e fece un inchino arrogante, com’era consuetudine di quelli come lui. «Sua Altezza Reale è disposto a ricevervi ora».

«Finalmente» disse messer Alderley.

«Andiamo insieme» disse messer Williamson. «Anche lord Arlington sarà disponibile».

Fui lasciato indietro a rimuginare sul mistero dell’uomo grassoccio con la verruca sul mento.

«Scusatemi, signore» domandai a un servitore con la livrea che ciondolava tra la folla. «Sapete dirmi dove conduce quella porta?»

Il valletto sogghignò beffardo alla maniera di Whitehall, che suggeriva quanto trovasse irritante ma anche divertente la mia ignoranza. «Non lo sapete? Non andrete molto lontano in questo posto se dovete chiedere certe cose» disse. «Conduce agli appartamenti privati del re».

«Messer Marwood?»

Mi fermai di scatto sotto l’arco settentrionale che da Scotland Yard sbucava sul viale. Ero diretto da messer Newcomb, lo stampatore, con le pagine contrassegnate delle bozze per la prossima Gazette.

Al riparo sotto l’arco esterno c’era una donna. Era quasi completamente controluce, ed era ridotta a poco più di un’ombra alta e slanciata. Aveva il viso nascosto in parte dal colletto del mantello, che camuffava la sua voce.

«Sì?»

Si scostò il colletto del mantello e scoprì un viso affilato e una bocca dalle labbra sottili.

«Vi conosco, vero?» dissi. «La cameriera della signora Alderley?»

«Esatto. Mi ha pregato di recapitarvi un messaggio. Andrà in visita a un’amica nella City domani e, se dopo pranzo avete tempo, vi chiede di andare a farle visita».

«Perché? Lo sapete?»

«Dovrete chiederglielo voi, signore. La casa è accanto all’insegna delle Tre Stelle su Cradle Alley. La conoscete? Vicino a Moorgate».

«Pensavo che Cradle Alley fosse stata distrutta dal fuoco».

«Solo il lato occidentale. La mia padrona andrà a mangiare lì e ci resterà finché il padrone non manderà la carrozza a prenderla».

«Quando?»

«Dovrete presentarvi alle tre del pomeriggio».

«Molto bene. Ditele per favore…»

«È un colloquio privato» disse la cameriera. «Non dovete farne parola con nessuno».

E senza dire altro si allontanò sotto la pioggia.

Messer Newcomb, lo stampatore, era di umore affabile, come gli capitava spesso negli ultimi tempi.

Era stato fortunato. Pochi degli altri stampatori della City erano riusciti a salvare il torchio e a trovare una nuova sistemazione dopo l’Incendio, e ancor meno a continuare a lavorare con profitto. Newcomb aveva perduto gran parte delle sue scorte e un po’ di masserizie, ma era sempre in affari.

Tutto sommato il legame con la corte gli era stato utile, e non solo per quanto riguardava la nuova sistemazione. Messer Williamson lo impiegava per stampare la Gazette, seicento copie due volte la settimana. Era un lavoro fisso e affidabile; serviva a pagare l’affitto e anche una parte del vitto per Newcomb e la sua famiglia.

Quando arrivai, con il cappello gocciolante e il mio unico mantello superstite fradicio di pioggia, il tipografo era nella bottega, nella parte anteriore della sua officina. Era un uomo tarchiato di mezza età, con la faccia aperta. Sentendo lo scatto del chiavistello alzò gli occhi.

«Che piacere vedervi, signore». Newcomb fece cenno al suo garzone di farsi avanti. «Prendi il mantello di messer Marwood e appendilo accanto al focolare in cucina. E anche il suo cappello».

Tastai la tasca interna della giacca. «Ho qui le bozze».

Newcomb prese i due fogli ed esaminò le aggiunte e le correzioni evidenziate da Williamson.

«Vi fermerete a bere un bicchiere di vino, spero. Lo faremo scaldare per scacciare l’umidità».

Lasciò l’apprendista a occuparsi della bottega, diede le bozze al suo assistente e mi condusse di sopra nel salottino.

Fu la signora Newcomb in persona a servirci il vino. Quando entrò nella stanza, mi accorsi che era di nuovo incinta. Avevo perso il conto dei loro figli, vivi e morti, ma calcolai che quella fosse l’ottava gravidanza.

«Siete sempre più smunto» disse, posando il vassoio sul tavolo. «È evidente che non mangiate come si deve».

«Non preoccuparti per lui, mia cara» disse messer Newcomb. «Lasciagli bere in pace il suo vino».

Lei non diede ascolto al marito, come faceva spesso. «Venite a pranzo, signore, e vi rimpinzeremo. Portate anche vostro padre, se si sente abbastanza bene. Come sta quel pover’uomo?»

«Un po’ più vecchio e un po’ più svagato, signora. Per il resto abbastanza bene».

«Ho saputo che vivete lontano, a Chelsea» proseguì la signora Newcomb. «Deve essere scomodo».

Mi strinsi nelle spalle. «L’aria è migliore. E mi è sembrato più saggio quando… quando è venuto a vivere con me».

I Newcomb si scambiarono un’occhiata. Avevano conosciuto mio padre prima che fosse incarcerato, perché era stata una figura familiare tra i colleghi stampatori e cartai, molto conosciuto a Stationers’ Hall. Era stato sorprendentemente popolare, nonostante avesse opinioni religiose che condannavano gran parte della razza umana, eccezion fatta per se stesso e pochi altri eletti, a una vita eterna di dannazione. Ma a parte la religione, aveva goduto della fama di persona onesta e gentile, abile nel suo mestiere e felice di aiutare chiunque fosse in difficoltà.

«Gli piace vivere in campagna?» domandò la signora Newcomb.

«Per lui non ha molta importanza dove vive adesso, signora. Di rado esce di casa e dal giardino. Trascorre la maggior parte del tempo appisolato accanto al fuoco in cucina».

«Rimarrete a Chelsea?»

Esitai. «Saremo obbligati ad andarcene molto presto, i padroni di casa non ritengono più conveniente averci lì».

I Newcomb si scambiarono un’altra occhiata, in quella forma di comunicazione rapida e silenziosa tipica delle coppie sposate.

«Dovreste trovarvi una sistemazione più vicina a Whitehall» disse messer Newcomb.

Un’ulteriore occhiata.

«Si dà il caso» annunciò la signora Newcomb con un’aria pensierosa «che io e messer Newcomb avessimo valutato l’idea di trovare degli inquilini. Ci sono due camere di lato, al primo piano. Non grandi, ma adeguate. Una al momento è occupata dal garzone, ma lui potrebbe andare a dormire in cucina. E la seconda la utilizziamo come magazzino».

Un piagnisteo di voci stridule si levò da qualche parte sul retro della casa.

«Quei mocciosi pestiferi!» disse Newcomb. «Mia cara, non potresti farli tacere, almeno finché messer Marwood è qui?»

«Di solito sono buoni come agnellini» spiegò la signora Newcomb sorridendomi teneramente, mentre andava verso la porta. «Purtroppo in questo momento Mary e Henry hanno mal di denti, e quando uno si mette a piangere, comincia subito anche l’altra». Chiamò giù dalle scale un’invisibile domestica. «Margaret! Vedi che i bambini smettano di fare tanto fracasso. Subito, hai capito?»

«Il farmacista ci prepara delle gocce per loro» aggiunse il padre. «È l’unico modo, e al diavolo la spesa. Non c’è prezzo per la pace domestica».

La signora Newcomb era rimasta sulla porta, le guance arrossate. «Margaret li lascia scatenare, quella sciocca. È troppo gentile con loro. Gliel’ho ripetuto migliaia di volte, ma è inutile». Abbassò la voce e mi rivolse un altro sorriso. «Se volete, signore, potete venire a pranzo domani per vedere se le camere possono essere di vostro gradimento».

Il pianto aumentò e la signora Newcomb se ne andò in silenzio.

«Ha preparato tutto» disse messer Newcomb a bassa voce. «Lo fa sempre». Sorseggiò il vino. «Pensateci, potrebbe capitarvi di molto peggio. E sarebbe una sistemazione comoda per tutti noi. Ma non lasciatevi influenzare dalle nostre comodità».

«Grazie, signore». Ero inaspettatamente commosso. Negli ultimi anni mi era capitato di rado di ricevere gentilezze. Era una proposta generosa, sebbene alimentata dall’interesse personale.

Newcomb mi scrutò sopra il bordo del bicchiere. «E ha ragione anche sull’altra cosa, sapete. Venite a pranzo da noi. Siete tutto pelle e ossa, se posso permettermi. Come se viveste d’aria e poco altro».

Aveva smesso di piovere, mentre ero dai Newcomb. Quando feci ritorno a Whitehall trovai un messaggio di Williamson a Scotland Yard, che mi ordinava di raggiungerlo da lord Arlington.

Lui non era lì, ma lo trovai che prendeva una boccata d’aria in giardino. Stava camminando su uno dei sentieri dritti che correvano paralleli agli edifici che ospitavano la Matted Gallery. Quando trovava una pozzanghera l’attraversava, pur di non cambiare direzione nemmeno di un grado.

Alzò lo sguardo quando sentì i miei passi sulla ghiaia. «Ti sei trattenuto molto a lungo da Newcomb».

Mi inchinai. «Vi chiedo perdono, signore. Ho saputo che ha due camere da affittare sopra la tipografia».

Williamson inarcò le sopracciglia. «Ma che fortuna. Le prenderai?»

«Non le ho ancora viste. Ma sono fiducioso».

Lui riprese a camminare. Io rimasi un passo indietro, seguendolo fino all’estremità del giardino, dove un muro lo separava dal campo di bocce, e poi lungo un altro sentiero. Non aprì bocca finché non si fermò davanti alla grande meridiana del re. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno a portata d’orecchi.

«La faccenda di Barnabas Place» disse brusco. «C’è qualcosa che dovresti sapere. Forse non ha importanza, ma non posso averne la certezza».

Tirò fuori dalla tasca un foglio di carta e me lo porse. Conteneva un elenco di nomi incolonnati.

John Bradshaw – obit

Lord Grey of Groby – obit

Oliver Cromwell – obit

Edward Whalley – fugit

Sir Michael Livesey – fugit

John Okey

Mi si rizzarono i peli sulla nuca. Alzai gli occhi dopo aver letto i primi sei. «Ma questi sono…»

«Esatto, i regicidi. Gli uomini che presiedettero all’uccisione dell’ultimo sovrano e coloro che li aiutarono».

Compresi allora perché messer Williamson avesse voluto parlarmi nell’intimità del giardino. Al momento della Restaurazione del re, sei anni prima, il Parlamento aveva votato l’Indemnity and Oblivion Act, un’amnistia generale, necessaria per guarire le ferite dopo la lunga guerra civile, che garantiva il perdono a quanti avessero preso le armi contro il re e suo padre. Gli unici esclusi erano i regicidi e chi li aveva aiutati, insieme a pochi altri il cui tradimento era stato considerato troppo vile per essere condonato.

I miei occhi scorsero la lista fino in fondo. Le annotazioni a margine dei nomi indicavano il destino degli uomini: obit indicava i fortunati, quelli che erano morti. Coloro che erano scappati ed erano ancora vivi recavano la dicitura fugit; vivevano nella paura di essere uccisi per mano degli agenti del re. Altri erano stati imprigionati o persino graziati. E il resto…

«I nomi cancellati sono stati giustiziati o comunque eliminati» spiegò Williamson. «Va’ avanti».

Girai il foglio. L’elenco proseguiva anche sul retro. Il mio sguardo si bloccò su un nome quasi in fondo.

Thomas Lovett – fugit.

«Non c’è nulla contro la persona di Catherine Lovett, altrimenti sir Denzil non si sarebbe fidanzato con lei». Williamson tossì. «I beni e le terre del padre sono stati confiscati quando lui fuggì all’estero, comprese la casa e l’attività di Bow Lane. Ma sono stato informato che la giovane è un’ereditiera nel suo pieno diritto da parte della famiglia materna, perciò dispone di una fortuna personale».

«Scusate, signore» domandai, «perché mi state dicendo queste cose?»

«Perché questa faccenda non riguarda solo un servitore assassinato, o un insignificante quinto monarchico finito nel canale del Fleet. La nipote di Henry Alderley è la figlia di un regicida che finora è sfuggito alla cattura. Devi muoverti con molta cautela, Marwood. Dobbiamo farlo tutti. Mi hai capito?»

Adesso comprendevo molte cose. Una di queste era che messer Williamson aveva paura. Un’altra che forse era un uomo più gentile di quanto avessi immaginato.