25.

Dalle prime ore del giovedì mattina, fino al calare del sole il pomeriggio successivo, continuai a vomitare senza sosta. Era un processo implacabile, sul quale non avevo alcun controllo. Mi sembrava di essere una pezza bagnata che una mano gigantesca strizzasse metodicamente fino all’ultima goccia.

Ero febbricitante, perché sognai di camminare tra braci ardenti che si estendevano a perdita d’occhio sotto un cielo plumbeo. Per qualche misterioso motivo era fondamentale che raggiungessi la meta, senza che sapessi cosa o dove fosse, solo che era tanto lontana da rendere quasi impossibile l’impresa. Era una sensazione così vivida che mi sembrava non fosse un sogno, bensì la vita reale, e che pertanto fosse tutto il resto a essere un sogno; mi ero sbagliato fin dal principio sulla natura dell’esistenza terrena.

La gente andava e veniva. Cameriere, il locandiere, un prete e messer Howgego. A volte cercavano di darmi dell’acqua. Messer Howgego era in uno stato di profonda agitazione per qualcosa e il suono della sua voce amplificava il mio mal di testa, già forte.

Un uomo con un camice sporco mi applicò delle sanguisughe. Quella appesa al cespuglio non era una sottoveste, pensai con improvvisa certezza. Era una camicia.

Le sanguisughe erano adagiate sulla mia pelle come lumache e i loro morsi mi risultavano stranamente rilassanti. Poi mi addormentai.

Poco più tardi, un uomo corpulento che puzzava di porcile mi trasportò di sotto e mi depose in una cassa buia. La cassa si mise in movimento e io con essa, sballottato su e giù. Udii il rumore di zoccoli di cavalli e pensai che forse mi stavano portando alla tomba. La cosa non suscitò grande interesse in me, sebbene desiderassi che il movimento cessasse. Poi fui distratto da un doloroso accesso di vomito che mi fece sputare solo un fiotto di saliva acida. Qualcuno imprecò.

Più tardi ancora mi ritrovai in una camera. Le fiamme lambivano il soffitto intonacato, divorando gli animali e le piante che lo riempivano. «Aiuto!» gridai. «Al fuoco! Al fuoco!»

Qualcuno mi diede da bere un liquido amaro. Pochi secondi più tardi lo vomitai quasi del tutto. Mi sdraiai esausto, fissando il soffitto in fiamme. Vidi tra gli animali e le piante un’impronta umana che mi parve importante.

Forse, pensai, quello sopra di me è il giardino dell’Eden, e quella è l’impronta di Adamo nel bosco di mamma Grimes, che fa parte del paradiso. Forse Adamo ha appiccato il fuoco per ridurlo in cenere. È stato questo il peccato originale.

Persino i bambini portano su di sé il fardello del peccato originale. Siamo tutti peccatori. Ricordavo mio padre che me lo diceva, tantissimi anni prima.

«Non è un palcoscenico, James» aveva detto mio padre. «È il patibolo per un peccatore. Siamo tutti peccatori, ma qualcuno è peggio di altri».

Mi issò sulle proprie spalle. Solo gli uomini a cavallo erano più alti di me, pensai, anche se ovviamente Dio era più alto di tutti. Dio aveva il viso di mio padre e le sue mani forti e ruvide, ma viveva sopra di noi in cielo.

Un altro soldato entrò dalla porta sulla pedana. Portava una grande scure con la lama luccicante come l’argento. La posò accanto a un cavalletto nell’angolo posteriore del patibolo.

Un sospiro agitò la folla.

La pedana si riempì di persone. Altri soldati. Un prete. Diversi ricchi gentiluomini. Due uomini corpulenti vestiti tutti di nero, con cappucci neri sulla testa che ricadevano sulle spalle. Avevano il viso completamente coperto.

Chinai la testa e mormorai all’orecchio di mio padre: «Sono morti, gli uomini senza faccia?»

«No, sono vivi come te e me».

Un altro nobiluomo salì sul patibolo. Era più basso degli altri, ma stava tutto impettito. Aveva la barba e il viso era pallido e molto triste. Per un istante guardò verso la folla, girando la testa da una parte all’altra.

In seguito, mi parve che avesse guardato per un istante proprio me, come a dire: «Ti riconoscerò».

Ma forse non era un vero ricordo, bensì soltanto il ricordo di un sogno.

Sprofondai in un sonno pesante come la morte.

Quando mi svegliai la luce del giorno filtrava dalla fessura tra le tende alla finestra. Intorno al letto però non c’erano né tende né baldacchino, solo la vista del soffitto decorato. Gli animali e le piante erano intatti.

Non sentivo più la febbre, avevo soltanto sete ed ero sfinito. La mano destra era posata sulla coperta e le ordinai di muoversi. Con mia sorpresa, ubbidì. Si sollevò davanti ai miei occhi, pur sembrando meno concreta del solito. La lasciai ricadere.

Ci furono dei passi. Girai la testa in quella direzione. Un domestico era chino su di me.

«Acqua» gracchiai.

Il servitore sembrò non capire. «Vado a chiamare Sua signoria» disse, uscendo quasi di corsa dalla camera.

Dopo un attimo arrivò messer Howgego, senza parrucca, la testa avvolta in un fazzoletto. Indossava una pesante vestaglia trapuntata. «Bene, siete sveglio. Come vi sentite, signore?»

Feci del mio meglio per rispondere, anche se la mia voce aveva un suono strano. Cigolava come un cardine che non è stato usato da tempo. Howgego ordinò al servitore di sostenermi e mi diede da bere personalmente, a piccoli sorsi.

«Sempre meglio» disse pochi minuti più tardi. «Non avete rigettato l’acqua. È più di quanto abbiate fatto ieri».

«Che giorno è, signore?» gracchiai.

«Venerdì».

«Ma a quest’ora dovrei essere a Londra».

«Ci tornerete, ma non oggi». Mi scrutò, aggrottando la fronte. «All’inizio ho pensato che fosse colpa di qualcosa che avevate mangiato da me. Ma io ho mangiato le vostre stesse cose e non ho avuto proprio niente. Forse avete preso qualcosa alla locanda?»

Frugai nella memoria. «Un pollo per pranzo. Era molto duro. Ma era ben cotto e non emanava cattivo odore».

«Nient’altro?»

«Un bicchiere di vino caldo al mio ritorno». Mentre parlavo, ricordai che la cameriera aveva impiegato molto tempo a portarmelo e che il vino aveva un sapore stranamente acido.

«Un po’ di vino non farebbe male a una mosca». Howgego si strofinò il naso. «Però chissà».

Ci scambiammo un’occhiata. Mamma Grimes non aveva gradito le mie domande. Probabilmente si era accorta che avevo visto la camicia e magari anche l’impronta. Una strega sapeva come avvelenare un uomo di nascosto. Mi aveva maledetto. Era possibile che mi avesse fatto un incantesimo. Oppure, in maniera più prosaica e probabile, aveva comprato la cameriera terrorizzata convincendola a versarmi qualcosa nel vino.

«Con la pioggia la cloaca della locanda si riversa nel pozzo» si affrettò a dire Howgego. «Forse i miasmi dell’aria vi hanno fatto sentire male mentre dormivate. Dev’essere stato così». Sembrava sollevato. «Comunque, ora dobbiamo guardare al futuro e farvi tornare in salute».

«Vi ho causato molto disturbo, signore». Mi tornò in mente la cassa sballottata e il rumore di zoccoli. «Avete fatto venire la vostra carrozza a prendermi l’altra notte».

«Roba da poco».

Messer Howgego rimase nella camera mentre i domestici attizzavano il fuoco e mi fece bere qualche cucchiaiata di brodo. «Dovete scusarmi per la mia inospitalità» disse. «Come vedete, avete dormito in un letto senza tende – non c’è stato il tempo di appenderle. In realtà temo che tutta la camera sia un po’ malmessa. La sistemeremo quando vi sentirete meglio».

Mi appisolai per un paio d’ore e, quando mi svegliai, mi resi conto che riuscivo ad alzarmi e a camminare, su gambe malferme, fino alla finestra. Mi misi a sedere sul davanzale e guardai il giardino sottostante e ciò che restava del labirinto, il parco, la distesa grigia del lago e la chiazza verde scuro di Baynam’s Wood più oltre.

Ero ancora debole. Mi preoccupava la durata della mia assenza da Londra. Mio padre non poteva essere lasciato solo e i Newcomb non lo conoscevano come lo conoscevo io.

Per cena trattenni nello stomaco una ciotola di brodo. La notte dormii bene. Il mattino successivo presi accordi per raggiungere Harwich, pernottare lì e l’indomani ripartire per Londra senza fretta, trascorrendo un’altra notte fuori. Se mi fossi sentito abbastanza bene, sarei partito da Coldridge il giorno successivo, domenica. La mia guida se n’era già andata, ma messer Howgego promise di farmi accompagnare al traghetto da uno dei suoi domestici. Credo che mi avrebbe prestato la sua giacca, se solo glielo avessi chiesto.

Pranzai con lui. Mangiammo presto, com’era usanza tra la gente di campagna, e poi il suo castaldo lo convocò per discutere il caso di un fittavolo molesto in una delle fattorie più lontane. Il tempo era bello, così li lasciai insieme e uscii.

Sorreggendomi a un bastone passeggiai lentamente per i giardini, controllando i tentativi del giardiniere di distruggere il labirinto, che si stava dimostrando stranamente restio a farsi sradicare. Lui mi disse qualcosa, ma aveva un accento così strano che avrebbe potuto parlare in greco per quello che riuscii a comprendere.

Proseguii, con l’andatura più celere che mi era possibile, perché l’aria era tagliente. Sull’altra sponda del lago c’era la distesa fitta e verde scuro del bosco di Baynam. Un esile filo di fumo saliva in cielo dalle sue profondità. Sabato notte avevo sognato che il bosco e mamma Grimes fossero in qualche modo intrecciati al giardino dell’Eden e al peccato originale.

Attraversai il ruscello che alimentava il lago usando il ponticello pedonale e mi addentrai nel bosco. Il silenzio mi avvolse. Cominciavo a sentirmi stanco, ma mi costrinsi ad andare avanti. La porta della casetta nella radura era chiusa. Mi avvicinai al ruscello. Non c’era nulla disteso ad asciugare.

L’impronta che avevo visto era accanto alla catasta di legna. Era sparita anche quella, al suo posto c’era un ciocco.

Mi voltai, deciso ad andarmene senza farmi notare, ma vidi mamma Grimes a meno di sei passi da me. Mi fissava.

Colto di sorpresa, indietreggiai di scatto, inciampai sul ciocco e rischiai di cadere.

«Bene» disse. «Ora state meglio e ben presto ve ne andrete dalla casa di messer Howgego».

Il suo sguardo mi innervosiva. Per mascherare la confusione, tirai fuori dal borsellino tre penny e glieli mostrai sul palmo della mano. Una zampa sudicia spuntò da sotto il mantello, come un animaletto notturno attirato alla luce del giorno dalla prospettiva di una preda. Sentii le sue dita sulla pelle, lievi come ali. Poi la zampa scomparve. I penny erano ancora nel mio palmo.

«Torna da dove sei venuto, giovanotto» disse, la voce bassa e ruvida. «Qui non c’è niente per te. Se ritorni, potresti non andartene più».

Sostenni il suo sguardo per un istante. Prima di distogliere gli occhi, mi convinsi senza ombra di dubbio che fosse stata lei ad avvelenarmi, in un modo o nell’altro. Probabilmente non era sua intenzione uccidermi, non questa volta, ma aveva voluto farmi stare a letto per qualche giorno. Se aveva dato ospitalità al proprietario della camicia, costui aveva avuto tutto il tempo di andarsene da Coldridge.

Mi inumidii le labbra, sforzandomi di parlare. «Sto cercando una persona, signora».

«Lo so. Ma stai perdendo il tuo tempo».

«Perché? Lui o lei non era qui?»

«Perdi il tuo tempo perché dovresti cercare Gesù nel tuo cuore».

«Sì, ma in questo momento…»

Mamma Grimes emise un suono spezzato e sibilante, come la risata di un serpente. «Per quanto riguarda tutto il resto che vuoi, lo troverai – o li troverai – quando meno te l’aspetti, che tu cerchi o meno».

Entrò in casa e sprangò la porta.

Rimasi un attimo in attesa. C’era un grande silenzio nella radura, come se il bosco tutt’intorno e le creature viventi che conteneva trattenessero il respiro per vedere che cosa sarebbe successo.

Mi chinai a sistemare i tre penny in fila sulla soglia. Li vidi brillare al pallido sole autunnale.