1.

La vita è complicata

Era in ritardo. Di nuovo.

Julia Crowne guardò l’orologio appeso alla parete della sala riunioni. Era quello disegnato da Hans Hilfiker per le ferrovie svizzere, con le lancette spesse, e non era un’imitazione, ma uno degli originali. Stava molto bene con il tavolo ovale di legno lucidissimo e le comode poltrone in pelle. La sala riunioni era curata in ogni dettaglio. I clienti dello studio si sentivano rassicurati dall’eleganza degli ambienti.

Erano le tre meno venti. Il colloquio sull’affidamento del figlio minorenne sarebbe dovuto essere già finito, ma era stato più complicato del previsto. La sua cliente, Carol Prowse, consigliera comunale, aveva pretese irragionevoli. Era comprensibile, visto che aveva sorpreso il marito Jordi, poeta e insegnante di inglese part-time, a letto con un’ex studentessa. Ma rendeva tutto più difficile.

Julia batteva nervosamente un piede sotto al tavolo. Alle tre doveva andare a prendere a scuola la figlia Anna, di cinque anni, e non poteva arrivare in ritardo perché alle tre e mezzo avevano appuntamento a casa di una signora per ritirare un cucciolo di cocker. La signora in questione si era svegliata una mattina e aveva sentito uggiolare la sua cagnetta, che da una settimana si comportava in modo strano. Era scesa al pianterreno e l’aveva vista partorire cuccioli a un ritmo impressionante.

Faceva l’infermiera e aveva il turno di notte: le aveva promesso di aspettare fino alle tre e mezzo, ma le aveva raccomandato di non fare tardi. Julia e Anna avevano già predisposto ogni cosa: avevano acquistato la cuccia, avevano deciso dove sistemarla, scelto il nome (Anna voleva chiamarla Bella e Julia aveva approvato) e fatto scorta di crocchette. Avevano persino programmato dove accompagnarla a passeggio. Insomma, Julia non voleva deludere la figlia perdendo la possibilità di portare a casa il cane quella sera.

E poi il cucciolo doveva essere una distrazione per Anna, una fonte di gioia e di affetto, perché Julia si accingeva a combattere la propria battaglia per l’affidamento della figlia e, se si fosse rivelata aspra come quella di Carol Prowse, Anna avrebbe avuto bisogno di tutte le distrazioni possibili.

Julia non aveva sorpreso Brian a letto con una studentessa. E meno male, visto che era maestro elementare. Ma, anche se fosse successo, non ne avrebbe fatto una malattia. Era proprio questo il problema. Voleva bene a Brian, lo considerava un brav’uomo, buon padre e buon marito – non eccelso, intendiamoci – ma non provava più niente per lui, non il minimo interesse. Era come un collega con cui condivideva poco e di cui non le importava nulla, i cui problemi personali la toccavano fino a un certo punto: Hai saputo che Brian si è separato? Ah, sì? Mi dispiace per lui. Era così che si sentiva nei confronti del marito. Non faceva più parte della sua vita.

Un tempo non era così. Per un certo periodo Julia aveva tenuto sulla scrivania dello studio una foto di loro due il primo giorno del viaggio di nozze, su una spiaggia bianchissima di Milos, in Grecia, con uno splendido tramonto alle spalle. Avevano appena finito di mangiare una grigliata di pesce e avevano chiesto al proprietario del ristorante, che di giorno faceva il pescatore, di scattare loro una foto ricordo.

Poi erano rimasti in piedi a guardare il mare, abbracciati.

Mi sento in paradiso, aveva detto Julia. È straordinario. Il mondo è pieno di magia.

Brian era scoppiato a ridere. Parli come se avessi appena fumato erba. Come quando ci facevamo le canne e poi guardavamo le stelle.

Però è vero, aveva ribattuto lei. Questo è un paradiso sul serio. Siamo qui, con i piedi nell’acqua, senza nulla di cui preoccuparci per due settimane. E senza niente da fare a parte tornare in camera... Gli aveva dato un bacio sulla guancia, ammirando le sue braccia muscolose, il suo ventre piatto, e gli aveva passato le dita fra i capelli ancora un po’ impiastricciati di sale. Dove spero trascorreremo buona parte della luna di miele.

Stavano così bene assieme, allora. Erano uniti, vicini. Ma le cose erano cambiate, purtroppo. A un certo punto avevano preso strade diverse, avevano cominciato a rincorrere sogni diversi. Non se n’erano accorti subito e, quando si erano resi conto della distanza che li separava, era troppo tardi. Con il senno di poi, Julia pensava che fosse iniziato tutto con la nascita di Anna. Era l’unica figlia che avevano e con ogni probabilità tale sarebbe rimasta, vista la fatica che aveva fatto Julia a rimanere incinta. E Anna meritava un padre che si inventasse storie da raccontarle, le preparasse piccole cacce al tesoro e dipingesse e creasse con lei. Un padre capace di infondere energia, stupore e meraviglia nella sua vita.

Brian le voleva molto bene, certo. La adorava. Ma non suggeriva mai di provare qualcosa di nuovo, di andare in campeggio su un isolotto in mezzo al lago, al mare, a vedere uno spettacolo. Non costruiva percorsi a ostacoli in giardino, non improvvisava recite nel teatrino delle marionette, non saltava sul tappeto elastico, non organizzava olimpiadi per lei e i suoi amichetti. Le regalava sempre gli stessi Lego rosa o le bambole della Disney che andavano per la maggiore fra le bambine della sua età. Non sentiva mai il bisogno di portare Anna oltre i confini del loro quartiere nei sobborghi della città. La vita che le proponeva era troppo normale. Anche per Julia. Julia anelava a qualcosa di più, per se stessa e per Anna, e Brian non era in grado di darglielo.

Era un uomo palloso, insomma, anche se Julia non voleva usare quell’aggettivo.

Non avrebbe voluto, perlomeno. Ma quando il mese prima gli aveva detto che stava riflettendo se fosse il caso di continuare a stare insieme, Brian l’aveva presa male e avevano finito per litigare furiosamente. E Julia si era lasciata sfuggire parole che ora rimpiangeva di aver detto. Tuttavia, una volta che si dà voce a certi pensieri, non si torna indietro.

Sei un po’... come dire... un po’... Non volendo dire palloso, aveva usato un eufemismo: una palla al piede.

Aveva sperato di attutire il colpo, ma non era stato così. Brian si era offeso.

Una palla al piede? aveva ripetuto. O palloso?

Stupidamente – ma era arrabbiata e aveva bevuto due bicchieri di vino bianco – Julia aveva annuito.

Aveva espresso altri due o tre pensieri che avrebbe fatto meglio a tenere per sé, tipo che non voleva lasciare che la sua vita andasse alla deriva e non si sentiva pronta a rinunciare a passioni e sentimenti. E che era stufa di fare sempre le stesse cose tutti i weekend, di andare in vacanza sempre negli stessi posti, di cenare sempre negli stessi ristoranti. Voleva di più. Voleva un’esistenza più avventurosa, romantica e variopinta.

È la crisi di mezz’età, aveva decretato Brian. Pensavo che sarei stato io a farmi prendere dal panico nel sentirmi scorrere via la vita dalle mani, a comprare una spider e trovarmi una giovane amante.

E lì Julia aveva trasceso.

Magari! aveva esclamato. Proverei interesse per un uomo ancora così vitale e combattivo. Tu invece sei già pronto per pipa e pantofole.

Che cosa? Brian era diventato paonazzo. Cosa hai detto?

Julia glielo aveva ripetuto. Ho detto che sei già pronto per pipa e pantofole. Si era stupita che, fra tutte le accuse che gli aveva mosso, Brian si fosse risentito soprattutto per questa. Quando glielo aveva fatto notare, la sua risposta era stata illuminante.

Non mi sono offeso per la pipa e le pantofole, ma per il “proverei interesse”. Vuol dire che non provi più nessun interesse per me?

Non era esattamente il concetto che Julia aveva intenzione di esprimere, ma quello aveva detto. E, in fondo, quello pensava. Perciò aveva annuito.

Posso anche accettare che tu mi trovi palloso, poco romantico, privo delle qualità che le tue amiche su Facebook ritengono indispensabili per l’uomo ideale. Ci può stare. Ma considero inaccettabile che tu non mi ritenga degno di interesse. Non di amore o di rispetto, bada: di interesse! Se non c’è neanche questo, allora vuol dire che è finita.

Julia si era dichiarata d’accordo. Aveva risposto che era proprio così, Brian non avrebbe potuto esprimerla meglio.

Da allora non si parlavano più. Brian dormiva nella camera degli ospiti. Nelle poche occasioni in cui si erano rivolti la parola, avevano evitato di discutere del futuro. Fino a dieci giorni prima, quando lei gli aveva detto di aver preso la decisione: voleva il divorzio.

Anche Carol Prowse voleva il divorzio, e l’avrebbe ottenuto. Il problema era che Carol Prowse voleva anche che il marito vedesse la figlia di nove anni esclusivamente sotto supervisione. Era una richiesta stupida e dettata dall’astio, che non sarebbe mai stata accolta. Jordi Prowse scosse il capo, quando Julia gliela comunicò. Poi scoppiò a ridere.

«Scordatevelo» rispose. Aveva qualche filo grigio sulle tempie, era rilassato, disinvolto. «È una richiesta totalmente priva di fondamento. Non sta né in cielo né in terra».

Lungo silenzio. Carol Prowse guardò Julia. «Il mio avvocato la pensa diversamente».

Non era vero, ma questo voleva da lei la signora Prowse, consigliera comunale. Julia guardò l’ora: le tre meno dieci. Doveva concludere.

«L’età della sua attuale compagna induce a riflettere sull’opportunità che la bambina frequenti la sua casa» disse. «È una questione morale».

L’avvocato di Jordi Prowse, una vecchia amica di Julia che si chiamava Marcie Lyon, scosse la testa. «È un’argomentazione pretestuosa» disse. «Lo sapete benissimo».

Jordi sorrise alla ex moglie. «Ti senti umiliata e ti vuoi vendicare».

Carol Prowse si irrigidì. Julia aveva una certa esperienza di conflitti coniugali, sapeva che la situazione rischiava di precipitare. Accordarsi sull’affidamento e i diritti di visita è sempre difficile, anche quando le parti sembrano animate dalle migliori intenzioni. Litigando sui figli i genitori che si separano finiscono spesso per distruggere il tenue legame che resta fra loro. In quel momento, però, Julia non aveva tempo. Guardò di nuovo l’ora. «Penso che per oggi ci siamo detti abbastanza. Suggerisco che l’avvocato Lyon e io ci rivediamo per parlarne fra qualche giorno».

Jordi Prowse si strinse nelle spalle. «Va bene» disse. «Rivedetevi, parlate pure delle sue pretese assurde». E indicò la moglie con un cenno del capo.

Julia sorrise. «Prenderemo in esame le varie richieste, sì» replicò. «Ci salutiamo?»

Doveva uscire da quella stanza il più presto possibile. Ormai era chiaro che lei e Anna non sarebbero più riuscite ad andare a prendere il cucciolo, visto che da lì alla scuola c’erano venticinque minuti di macchina e dalla scuola alla casa della padrona dei cani altri trenta, ma il problema più urgente a quel punto era un altro: doveva chiamare le maestre e avvertirle di trattenere Anna perché lei avrebbe ritardato. Si alzò, conscia di mettere fretta alle altre tre persone nella sala. Marcie Lyon prima di uscire le lanciò un’occhiata strana, Jordi non degnò di uno sguardo né lei né la ex moglie.

Carol Prowse scosse la testa. «Incredibile...» disse. «Che arroganza».

Julia capì che la sua assistita avrebbe voluto parlare un po’ e in condizioni normali le avrebbe offerto il sostegno di cui aveva bisogno, ma in quel momento non poteva. Annuì e disse: «Mi dispiace, ma devo salutarti. Oggi tocca a me andare a prendere la bambina a scuola».

Era poco professionale, lo sapeva. Il problema era che il mondo si aspettava che lei fosse una brava professionista attenta alle esigenze dei clienti e contemporaneamente una brava madre attenta alle esigenze di sua figlia. Spesso non era possibile essere tutte e due, ma il mondo continuava ad aspettarselo.

Uscendo, prese il cellulare dalla borsa e premette il pulsante per accenderlo.

Lo schermo rimase nero. La batteria era scarica.

Julia imprecò fra sé. Frugò nella borsetta alla ricerca del caricatore, ma non lo aveva: era rimasto in macchina. Meditò se tornare in ufficio e chiamare dal fisso, poi decise che la cosa migliore era correre alla macchina e caricare il telefono lì.

Allungò il passo. Non era la fine del mondo, lo sapeva, ma le scocciava lo stesso arrivare in ritardo a prendere la bambina a scuola.

Mentre guidava, Julia premette più volte il dito sul logo al centro dello schermo del telefono, pur sapendo che non sarebbe servito ad accelerare il processo di accensione. Lo faceva anche quando aspettava l’ascensore: se tardava ad arrivare, pigiava di nuovo il pulsante. Due, tre volte.

Non è che così arriva prima, le segnalava ogni tanto qualche buontempone. E lei ribatteva con un sorrisetto: Non si sa mai.

E sbrigati! pensò.

Era già successo, ed era finita che la maestra Jameson, quella che teneva compagnia ai bambini finché non arrivavano i genitori ritardatari, si era lamentata. Immaginava già lo sguardo severo e seccato con cui le avrebbe ricordato il regolamento della scuola.

Capisco che è molto impegnata, signora Crowne, ma la scuola non è attrezzata per tenere i bambini oltre l’orario e lo fa solo in casi eccezionali e previo accordo. È indispensabile che lei avverta per tempo, in maniera che la scuola si possa organizzare.

Mi scusi tanto, avrebbe mormorato Julia, sentendosi di nuovo come quando da ragazzina veniva mandata in presidenza perché sorpresa a fumare una sigaretta o con una gonna troppo corta, ma avevo una riunione che si è protratta più del previsto e non sono riuscita a telefonare perché avevo il cellulare scarico. La ringrazio della sua flessibilità, signora Jameson. Grazie di cuore.

Si sarebbe sentita una pessima madre e si sarebbe domandata perché, visto che Anna stava bene e chiacchierava amabilmente dal seggiolino sul sedile posteriore della macchina, le chiedeva che cosa aveva preparato per cena e se potevano leggere ancora Gli sporcelli. Julia avrebbe scosso la testa e si sarebbe tranquillizzata: Non sono una pessima madre, sono solo una madre oberata di impegni.

Peraltro, lo sarebbe stata sempre di più. Dopo la separazione, sarebbe dovuta andare a prendere Anna a scuola tutti i giorni o quasi, e non aveva idea di come riuscirci. Adesso almeno aveva Edna, la madre di Brian, che andava a prendere la bambina il lunedì e il mercoledì. E Brian il venerdì solitamente finiva di lavorare in tempo per andarci lui. A Julia toccavano solo due pomeriggi, nei quali cercava di non fissare appuntamenti e rispondeva alle e-mail da casa. Se si accorgeva di non fare in tempo, dava un colpo di telefono a Edna. Aveva provato a chiamarla anche quella mattina, ma era fuori; le aveva lasciato un messaggio in segreteria e lei non l’aveva richiamata. Stupidamente, poi, si era dimenticata di rimettere in carica il cellulare. Prese mentalmente nota di fare più attenzione alla batteria dello smartphone il martedì e il giovedì.

Anche gli altri giorni, se possibile. Dubitava di poter contare sulla suocera dopo il divorzio. Dietro i modi cortesi, Edna era una matriarca tradizionalista e Julia aveva la sensazione di esserle antipatica.

Pazienza. Sarà quel che sarà, pensò. Avrebbe escogitato una soluzione. Era il prezzo da pagare.

Finalmente il cellulare emise un trillo. Julia cercò il numero della scuola. Chiamò. Le rispose la segreteria telefonica.

«Sono Julia Crowne» lasciò detto. «Sono in ritardo, ma dovrei essere lì per le...» Guardò l’orologio sul cruscotto. «Per le tre e venti al massimo. A fra poco».

Arrivò alla scuola dieci minuti dopo. Stava posteggiando vicino ai cancelli quando le squillò il cellulare. Lo staccò dal caricatore e aprì la portiera.

«Pronto?»

«Signora Crowne?» disse una voce. «Sono Karen, la chiamo dalla Westwood School».

«Non si preoccupi, sono qui» disse Julia. «Ho appena parcheggiato».

«Signora Crowne» ripeté Karen con voce incerta, «Anna è con lei?»

«No» rispose Julia. «Sono venuta a prenderla adesso. Appena ho visto che tardavo vi ho lasciato un messaggio».

«Allora avevo capito bene» mormorò Karen. «Signora Crowne, ho paura che ci sia stato un malinteso».

Un malinteso? È un termine che fa paura, quando è associato a una figlia di cinque anni.

Julia si fermò di colpo e guardò i cancelli di ferro battuto con lo stemma della scuola: un gufo con una pergamena e le iniziali WS.

«In che senso?» chiese, la voce stretta da un principio di ansia. «Quale malinteso?»

«Anna non è qui» spiegò Karen, trincerandosi dietro un tono ufficiale, sulla difensiva. «Speravamo fosse con lei».

Julia chiuse la comunicazione e varcò di corsa i cancelli e il portone verde della scuola per poi imboccare il corridoio della presidenza. Karen, la segretaria, alta, magra, gran testa di ricci neri, era fuori della porta e aveva l’aria angustiata.

«Vedrà che non è successo niente, signora Crowne» disse. «Sarà venuto a prenderla il papà».

Aveva una luce allarmata negli occhi, che tradiva angoscia, nonostante il tono pacato. A Julia si stava chiudendo lo stomaco. Per un attimo, temette di vomitare.

«Controllo subito» disse. E fece il numero di Brian.

«Pronto». Il tono era duro, deliberatamente antipatico. «Cosa vuoi?»

Julia aveva le labbra secche. «Brian, Anna è con te?»

«No. Perché dovrebbe? Sono a scuola. Oggi tocca a te andare a prenderla».

«Lo so» replicò lei. «Sono qui, ma Anna non c’è».

Lungo silenzio.

«Come sarebbe a dire “non c’è”?» Da duro il tono si era fatto turbato. «E dov’è?»

«Non lo so» rispose Julia, tentata, nonostante la situazione, di aggiungere un sarcastico: ovviamente. «Sai se è venuta a prenderla tua madre?» Fu un pensiero confortante. Era la cosa più probabile: Edna aveva sbagliato giorno. Julia tirò un sospiro di sollievo, pervasa da un improvviso senso di rilassatezza come dopo un bicchierino di liquore.

«Lo escludo» rispose Brian. «Mia madre è a casa. Mi ha telefonato un’ora fa per chiedermi dov’è il rubinetto centrale dell’acqua. Ha una perdita in cucina».

La rilassatezza svanì in un attimo. Julia deglutì. Aveva la bocca secchissima. «Allora non so proprio dove sia».

Parole che un genitore non vorrebbe mai trovarsi a dire al coniuge o a chicchessia parlando della figlia di cinque anni. Un genitore dovrebbe sapere sempre dov’è un figlio di cinque anni: con la mamma, con il papà, a scuola, a casa di un amichetto o con alcuni parenti selezionati, che nel caso di Anna erano la nonna Edna e, molto raramente, quando venivano da Portland, nell’Oregon, il fratello di Brian, Simon, e sua moglie Laura. La famiglia era tutta lì.

«Non sai dov’è Anna?» La voce di Brian esprimeva un misto di rabbia e di spavento. «Cercala!»

«Sì, ora vado».

«Sono quasi le tre e mezzo! Come mai chiami solo adesso?»

«Sono arrivata ora» rispose Julia. «Ero in ritardo. Pensavo che la maestra... Pensavo di trovarla ancora a scuola».

«Hai avvertito che tardavi?»

«No. Avevo il telefono scarico. Davo per scontato che...» Non finì la frase.

«Gesù!» esclamò Brian. «Chissà dov’è finita! In mezz’ora potrebbe essere andata ovunque. Magari si è allontanata e...» Si interruppe. «Mollo tutto e arrivo. Tu incomincia a cercarla. Controllate tutto intorno alla scuola e nelle strade vicine».

«Okay». Julia era raggelata, non riusciva a pensare. «Andiamo a vedere». Lanciò un’occhiata a Karen, che annuì.

«La faccio aiutare dai bidelli» propose Karen. «Senta, Julia, non si preoccupi. La troveremo. Sarà entrata in un giardino, o in un negozio. Di sicuro è da qualche parte».

Julia annuì, ma non era per niente rassicurata dalle parole di Karen, che le parevano suoni privi di significato.

«Ora vado, Brian» disse. «Comincio a cercare».

«Ancora una cosa» aggiunse Brian. «Chiama la polizia». Ebbe un attimo di esitazione. «No, la chiamo io. Tu va’ a cercarla».

E chiuse la comunicazione. Julia lasciò cadere la mano sul fianco e il cellulare le scivolò per terra.

«Oddio!» esclamò. «Oddio».