2.

Le prime ore

Le prime ore sono cruciali.

Se qualcuno avesse visto qualcosa, la polizia lo scoprirebbe. Prima di tutto le ricerche si concentrano nelle immediate vicinanze e lungo la strada di casa, nell’eventualità che la bambina abbia deciso di incamminarsi da sola. Poi la polizia contatta i genitori degli altri alunni e i dipendenti della scuola che erano ai cancelli alle tre, per appurare se ricordano qualcosa. A quel punto di solito interroga i familiari, a cominciare dai parenti più stretti. Faranno tutto questo. E sarà tutto inutile.

Naturalmente, controlleranno anche i filmati delle telecamere a circuito chiuso, ma tu sai che non ti hanno ripreso. I video mostreranno la bambina che si allontana e scompare.

Certo, non puoi escludere che da qualche parte ci fosse una videocamera di cui ignori l’esistenza. Hai perlustrato scrupolosamente la zona, ma nessuno è infallibile.

Se una videocamera ti ha ripreso o qualcuno ti ha visto e riconosciuto, la polizia verrà a bussare alla tua porta.

Nessun problema, hai pensato anche a questa eventualità. Infatti nelle prime ore la bambina era altrove, nascosta nel garage dei tuoi vicini, che sono ad Alicante per quindici giorni e ti hanno lasciato le chiavi perché, nella malaugurata ipotesi che succeda qualcosa, lei è l’unica persona di cui ci fidiamo.

Qualcosa è successo, ma ben diverso da quello che immaginavano loro.

Hai fatto retromarcia fin dentro il garage, hai scaricato la bambina e hai portato via la macchina. Nessuno ti ha visto. Non c’era nessuno che potesse vedere. Niente occhi indiscreti. Niente spioni. È utile riuscire a rendersi invisibili al mondo, potersi fare gli affari propri senza essere osservati. Non soltanto adesso, con la bambina, ma anche nelle altre occasioni.

La bambina è distesa lì, dorme sul pavimento della grande casa delle bambole che il tuo vicino ha costruito per i figli, quei mocciosi turbolenti che ormai sono cresciuti e non ci giocano più. È grande abbastanza per contenerla tutta, dai piedi alla testa, posata su un sacchetto di sabbia destinato alla sabbiera in cui quei marmocchi viziati si sollazzavano chiassosi disturbando la tua quiete pomeridiana.

Starà lì fino a mezzanotte, poi la porterai in quella che diventerà la sua nuova casa.

Per un po’, almeno.

Non intendi tenerla a lungo.

Julia uscì di corsa dalla scuola. I cancelli erano ancora aperti, benché il regolamento stabilisse che dovevano restare sempre chiusi. Il regolamento... Il problema era che si facevano troppe eccezioni alle regole. Lei, per esempio, di regola sarebbe dovuta arrivare puntuale a prendere la figlia.

Immaginò la scuola alla fine della giornata, i bambini che sfociano come un fiume dal portone verde, i più piccoli che raggiungono direttamente i genitori, i più grandicelli che corrono per il giardino e giocano ancora un po’ prima di tornare a casa, cenare e andare a nanna, le maestre che si fermano a controllare che non succeda nulla di strano. E non succede mai nulla di strano: i bambini sono consegnati a genitori e baby-sitter o trattenuti entro i confini della scuola finché non arriva qualcuno a prenderli. Nessuno sfugge dalle maglie di quella piccola scuola privata. I genitori sono tutti persone affidabili, che si prendono cura dei loro figli e non li lasciano soli, in balia di malintenzionati. Le probabilità che qualcosa vada storto sono infinitesimali.

Ma esistono.

Julia visualizzò una bambina minuta, capelli scuri, zainetto di Dora l’esploratrice e scarpette nuove, di pelle, nere, che varcava i cancelli con i compagnetti e si guardava intorno in cerca della sua mamma. Non vedendola da nessuna parte, si adombrava. Forse si allontanava di qualche passo lungo la strada, sperando di scorgere la Volkswagen Golf della mamma. Poi una mano le si posava sulla spalla, una mano grande, di uomo, dita grosse e peli scuri che spuntavano dal polsino. Julia sbatté gli occhi per scacciare quell’immagine. Doveva restare calma, o perlomeno tentare di non agitarsi troppo. Doveva cercare sua figlia.

Non è successo niente, si disse. Anna sta bene. È da qualche parte che mi aspetta.

Ma l’ansia non si attenuò. Fra lo stomaco e la gola sentiva un macigno, il panico le togliava il respiro, le faceva girare la testa.

Doveva fare qualcosa, muoversi. Non c’era tempo da perdere. Corse verso i cancelli. Voleva cercarla fuori: se Anna era rimasta all’interno, o nel giardino della scuola, correva meno rischi. Se invece si era allontanata... be’, in quel caso sarebbe stato meglio intervenire il prima possibile. I pericoli erano moltissimi: automobili, cani, autobus, malintenzionati...

«Anna!» gridò. «Anna! Dove sei?»

Sentì che la stavano chiamando anche dentro la scuola: Karen aveva dato l’allarme.

«Anna?» continuò a gridare. «Sono la mamma! Dove sei, tesoro?»

Oltre i cancelli si trovò a dover prendere la prima decisione: sinistra o destra? Sinistra, verso il centro del paese, o destra, verso il nuovo quartiere residenziale e le villette dal prezzo esorbitante che parevano fatte con lo stampino in mezzo a prati spelacchiati? Villette piene di porte chiuse, di casotti per gli attrezzi e di nascondigli, villette in gran parte disabitate che di giorno, quando tutti erano a scuola o al lavoro, nessuno controllava. Era un luogo in cui sarebbe stato facile nascondere una bambina. Allora: sinistra o destra? Di solito è una decisione di poco conto, se sbagli puoi sempre tornare indietro. In quel momento, invece, era una scelta fondamentale: non solo fra sinistra e destra, ma verso Anna o lontano da Anna.

Deciditi! si disse. Stare lì a pensarci è peggio.

Andò a sinistra, verso il paese. Era più probabile che Anna fosse andata da quella parte, verso la folla, l’edicola e il nuovo negozio di caramelle finto antico che esponeva i dolciumi in vasi di vetro e li vendeva a peso. Village Sweete Shoppe si chiamava, e ad Anna piaceva tantissimo.

Il viale stretto che portava al villaggio curvava a sinistra e poi scendeva. Le case lungo la strada erano vecchie e grandi, nascoste dietro ad alti muri di cinta e a un fitto fogliame. Era un bene, ma anche un male: era improbabile che Anna fosse riuscita a entrare in uno di quei giardini ma, se per qualche motivo si fosse infilata lì, Julia non l’avrebbe vista.

Erano quelli i pensieri fissi nella sua mente, ormai: giardini che fino a poco prima erano luoghi idilliaci adesso le apparivano pericolosi. Il mondo aveva assunto nuove sembianze spaventose. Le dava il capogiro.

«Anna!» Julia si sorprese di quanto forte riusciva a gridare. Non raggiungeva quel volume da anni. Neanche quando litigava con Brian alzava la voce così. «Anna! Sono la mamma! Se mi senti, di’ qualcosa! Sono venuta a prenderti, tesoro!»

Nessuna risposta. Solo l’abbaiare distante di un cane (starà abbaiando a mia figlia? si chiese Julia), il rombo di un motore (dove sta andando quella macchina? Chi c’è dentro?) e, incongrua, una canzone pop a tutto volume.

Julia fece la discesa di corsa, le scarpe da ufficio che ticchettavano sull’asfalto. «Anna!» gridava. «Anna!»

Sentì un fruscio dietro una grossa azalea alla sua sinistra, si fermò e sbirciò fra i rami. L’aria lì era più fresca e profumava di terra bagnata.

«Anna?» disse. «Sei tu?»

Altro fruscio, più distante. Julia si chinò a guardare, il cuore che batteva forte.

«Anna?» chiamò. «Anna!»

Udì frusciare ancora e questa volta dall’altra parte del cespuglio spuntò un corvo, che occhieggiò Julia e poi sparì sui rami di un acero.

Julia si tirò su. Alla sua sinistra c’era un vialetto che conduceva a una casa. Davanti al portone un uomo sui settant’anni, capelli grigi e bastone da passeggio. La guardava.

«Tutto bene, signora?» le domandò. «L’ho sentita gridare».

«Non trovo più mia figlia» rispose Julia.

L’uomo si rabbuiò. «Ossignore» disse. «Com’è fatta?»

«Ha cinque anni, i capelli scuri, la divisa della scuola e uno zainetto rosa».

«Va alla Westwood?»

Julia annuì. «L’ha vista, per caso?»

«No, ma posso darle una mano a cercarla». Alzò il bastone. «Cammino poco, ma se vuole prendo la macchina e faccio un giro per vedere se la trovo».

Julia gli lanciò un’occhiata sospettosa. E se fosse stato lui a rapire Anna? Magari stava bluffando. Si disse di non esagerare: quell’uomo voleva soltanto aiutarla e in quel momento lei non era in condizione di rifiutare l’aiuto di nessuno. Le probabilità che fosse un maniaco erano molto basse. Ma alla polizia lo avrebbe segnalato comunque.

«Gliene sarei grata» disse. «Forse dovrei prendere la macchina anch’io».

«A piedi controlla meglio. Io vado con la macchina, però. E chiedo a mia moglie di prendere la sua. Come si chiama sua figlia, nel caso la trovassimo?»

«Anna. Se la trovate, restate con lei e chiamate la polizia».

«Va bene» replicò l’uomo. «In bocca al lupo».

«Crepi» disse Julia. Uscì dall’intrico di rami, facendo una smorfia perché uno le graffiò un polpaccio, e proseguì verso il paese.

Correndo, osservava ogni particolare – siepi, staccionate, automobili – senza vedere nulla. Non si fidava dei propri occhi, temeva che Anna fosse lì dove aveva appena guardato e così controllava di nuovo, due, tre volte, prima di decidersi ad andare avanti. Una parte di lei sapeva che era inutile, irrazionale, ma non riusciva a trattenersi: la posta in gioco era troppo alta, le conseguenze troppo spaventose. Non poteva commettere errori, lasciarsi sfuggire l’opportunità di trovare la figlia quando magari era lì sotto il suo naso.

Aveva sentito dire che quando la polizia organizzava le ricerche di una persona scomparsa, con file di volontari a perlustrare campi e brughiere, non lasciava mai partecipare i diretti interessati, ovvero le persone più vicine allo scomparso: il desiderio di ritrovare la persona cara è tale che non riescono a mantenere la calma e il distacco necessari.

Che ciò fosse vero o meno, Julia si sentiva tutt’altro che calma e distaccata. Anzi, era in preda a un panico che rischiava di travolgerla da un momento all’altro e farla crollare. L’impulso di coprirsi la faccia con le mani, buttarsi in ginocchio e mettersi a pregare era a tratti irresistibile.

«Oh, Dio, Dio» mormorava. «Oh, mio Dio, mio Dio». A un certo punto l’angoscia la costrinse a fermarsi. Allungò il collo, guardò a sinistra e a destra.

«Anna!» urlò. «ANNA

Riprese a cercare. Aveva nella testa l’immagine di sua figlia nel Village Sweete Shoppe, seduta su uno sgabello vicino alla vetrina con un bastoncino di liquirizia nella mano impiastricciata e le labbra nere. Anna era lì, Julia ne era certa. Era il primo posto in cui sarebbe andata, l’unico possibile: non conosceva altri negozi. Aveva cinque anni e il suo mondo era limitato a casa, giardino, scuola, le abitazioni delle sue amichette e i posti in cui andava con i genitori. Uno di questi era il negozio di caramelle.

Ci andavano ogni tanto dopo la scuola. Julia non le lasciava mangiare cioccolatini, patatine, gelati e altre schifezze, ma le caramelle del Village Sweete Shoppe sembravano più sane, genuine. Probabilmente era dovuto all’atmosfera che si respirava nel negozio, la gentilezza della proprietaria che pesava le gelatine di frutta, le mentine, le gomme alla Coca-Cola e calcolava il prezzo a mente. A Julia ricordava i sabato mattina di quando era piccola e il papà la accompagnava in drogheria a comprare caramelle e cioccolatini con la sua paghetta. Le piaceva che la sua infanzia e quella di Anna avessero qualcosa in comune.

E così andavano al Village Sweete Shoppe una o due volte al mese. Lasciavano la macchina davanti alla scuola e scendevano a piedi a comprare le caramelle. Era l’unica cosa che facevano all’uscita da scuola, l’unico posto che Anna conosceva. E adorava.

Perciò era sicuramente andata lì. Julia ne era convinta e correndo pensava che appena l’avesse raggiunto la figlia le sarebbe volata fra le braccia e lei l’avrebbe stretta a sé e non l’avrebbe lasciata mai più.

Il campanello sulla porta trillò, Julia entrò nel Village Sweete Shoppe e si guardò intorno.

«Buongiorno» la salutò la proprietaria, Celia, che aveva lavorato alle poste per tutta la vita e adesso era in pensione. «In che cosa posso servirla?»

«Mia figlia è passata di qui, per caso?» chiese Julia.

La donna rifletté un momento, facendo mente locale. «Anna, dico bene? Mora? Le piacciono i topini di cioccolato?»

«Esatto. L’ha vista?»

La donna scosse la testa. «No» rispose. «Non è un po’ piccolina per venire a fare compere da sola?»

«È sicura di non averla vista?»

«Non mi sono mossa da qui tutto il pomeriggio e i clienti sono stati assai pochi. Me la ricorderei, specie se fosse entrata da sola». Celia si protese in avanti. «È successo qualcosa?»

Julia guardò oltre i lecca-lecca e i coniglietti di cioccolato, verso la strada di là della vetrina. Anna dunque non era lì. Chissà dov’era.

Dove poteva essere andata?

Il panico adesso era totale. Si voltò verso Celia con le gambe che tremavano.

«L’ho persa» disse. «Ho perso mia figlia».

Prima o poi, capita a tutti i genitori. In un supermercato, in biblioteca, nel giardino di casa...

Ti giri e tuo figlio non c’è più.

«Billy!» gridi. Poi a voce più alta: «Billy!»

E Billy risponde, riappare malfermo sulle gambe, in mano un sacchetto di farina, un libro, un lombrico. Oppure non risponde, e allora ti prende la paura, ti si contraggono i muscoli della schiena, ti si annoda lo stomaco, ti guardi freneticamente intorno e poi ti precipiti in fondo alla corsia del supermercato, verso la sezione dei libri per bambini, verso il cancello in fondo al giardino, e Billy è lì. Sano e salvo.

Tu giuri che lo terrai sempre sott’occhio, che non ti lascerai distrarre mai più, nemmeno per un secondo. Perché a volte basta un secondo.

Sì, un secondo. In un secondo un bambino può correre in mezzo alla strada, venire preso e caricato su un furgone oppure girare l’angolo e allontanarsi abbastanza da farti passare dieci minuti d’inferno. Ma per fortuna lo ritrovi seduto su una panchina a parlare con uno sconosciuto gentile, a giocare con bambini appena incontrati o a gironzolare tutto preso da qualcosa che ha appena scoperto.

E allora giuri e spergiuri che non lo perderai d’occhio mai più, perché in quei dieci minuti d’inferno la tua testa ha preso in considerazione le più tragiche conclusioni possibili e immaginabili: è caduto nel canale, è finito sotto una macchina, lo hanno rapito.

È questa l’ipotesi che ti turba maggiormente: che lo abbiano rapito, che qualcuno te lo abbia portato via appena hai girato l’occhio. Che sia perduto per sempre. Vivo o morto poco importa: non lo rivedrai più e non smetterai mai di cercarlo. Vivrai rimpiangendo quell’attimo di distrazione.

Naturalmente, quando prendi in esame questa eventualità crudele e spaventosa, una vocina dentro di te ti dice di non preoccuparti, che va tutto bene, che fra poco lo ritroverai, perché i bambini si ritrovano sempre.

Invece no. Non sempre.

Ne sei perfettamente consapevole. E ciò ti terrorizza.

Julia corse fuori del Village Sweete Shoppe e guardò a sinistra e a destra, di nuovo di fronte a un bivio: a sinistra verso il paese o a destra verso la scuola? Andò a sinistra, in discesa. Se ci fossero state novità, dalla scuola l’avrebbero chiamata. Almeno adesso la batteria dello smartphone era carica.

Sul marciapiede c’era una donna della sua età, capelli corti e borsetta firmata, che veniva verso di lei. Senza pensare, Julia cercò il suo sguardo.

Come molte sue coetanee inglesi della medesima classe sociale, nutriva un’avversione per le sceneggiate che sfiorava il patologico e avrebbe preferito morire piuttosto che chiedere aiuto a uno sconosciuto. Mai avrebbe domandato a qualcuno di prestarle pochi spiccioli o il cellulare, o di darle una mano a cambiare una gomma. Nella sua visione del mondo, sarebbe stato un po’ come entrargli in cucina, aprirgli il frigo e prepararsi un’insalata.

In quel momento, però, era diverso. In quel momento non era proprio il caso di fare complimenti.

«Mi scusi» disse. «Sto cercando mia figlia. Ha cinque anni, è mora, ha uno zainetto rosa e la divisa della Westwood. L’ha mica vista?»

«No» rispose la donna. E assunse un’espressione strana, un misto di preoccupazione ed empatia che lasciò Julia sconcertata. «È tanto che la cerca?»

«No. Una ventina di minuti. Forse un po’ di più».

L’espressione della donna si fece ancora più intensa. «Accidenti. Un bel po’».

«Lo so» replicò Julia. «Se la incontra, la ferma, per favore?»

«Ma certo! E le do una mano a cercarla». Indicò il parcheggio. «Vado a vedere se è lì o in biblioteca. O nel parco giochi sul retro».

«La ringrazio» disse Julia. «Si chiama Anna» aggiunse. Proseguì lungo la discesa. Sulla destra c’era un pub, sulla sinistra l’ufficio postale. Sembravano diversissimi dall’ultima volta che li aveva visti. Li ricordava normali edifici che offrivano luce e calore, che facevano parte del paese, luoghi frequentati da tante persone. In quel momento, invece, le apparvero minacciosi, posti in cui Anna poteva essere prigioniera.

Sbirciò dentro l’ufficio postale. C’erano quattro persone in coda davanti all’unico sportello aperto.

«Scusate» disse, e si rese conto di avere il fiatone. «Sto cercando mia figlia, Anna. L’avete vista, per caso?»

«Com’è fatta?» domandò un uomo con la tuta sporca di pittura.

Julia gliela descrisse. Ormai stava diventando una formula orribilmente rodata: mora, zainetto, divisa della scuola. Era una descrizione che si adattava a molte bambine di cinque anni, ma non era un problema: Anna aveva un elemento distintivo che la differenziava da tutte le altre bambine di cinque anni.

«È da sola» specificò.

Occhiate di comprensione. Julia cominciava a detestare quegli sguardi impietositi. Cenni di diniego, no pronunciati a mezza voce. Lì non era entrata, per strada non l’avevano vista.

Attraversò ed entrò nel Black Bear. Il pub era immerso nella penombra, i vetri sporchi, puzza di sigaretta nonostante il divieto di fumare. C’erano solo tre avventori: una coppia di adolescenti immusoniti in un angolo e un uomo al bancone.

Julia si avvicinò alla barista.

«Mi scusi, sto cercando mia figlia» disse. «Ha cinque anni».

«Un po’ piccina per venire al pub» rispose la donna. Doveva avere una cinquantina d’anni, ma ne dimostrava di più. Aveva gli avambracci coperti di tatuaggi, un reggiseno push-up e le zampe di gallina attorno agli occhi.

«L’ho persa» spiegò Julia. «Pensavo che magari fosse entrata qui».

L’uomo al bancone alzò gli occhi dal quotidiano. Aveva le guance rosse del bevitore incallito.

«Io non l’ho vista» disse. Batté la mano sullo sgabello accanto al proprio. «Le offro da bere, però, se le fa piacere».

La barista scosse la testa con aria di disapprovazione, ma tacque. Probabilmente non voleva offendere un cliente abituale, non se lo poteva permettere. Il locale era modesto, non sembrava fare grandi affari.

«Mi dispiace, ma non la posso aiutare» disse.

Julia annuì e se ne andò. Le fece piacere tornare alla luce del sole. Vicino al pub c’era una panetteria che vendeva anche latte e formaggi e aveva un angolo bar.

«Mi scusi, sto cercando mia figlia» disse. «Ha cinque anni».

L’uomo dietro il banco inarcò un sopracciglio. Aveva i capelli ricci, scuri, gli occhi castani e le mani grandi, bianche di farina.

«Me la descrive?» domandò. Aveva l’accento scozzese.

Mentre Julia gli rispondeva cominciò a fare no con la testa. Poi si chinò a guardare dalla parte del bar.

«Scusate» disse. «La signora sta cercando la figlia. Qualcuno ha notato per caso una bambina in giro da sola?»

Nessuno aveva visto Anna, ma una signora si alzò.

«La aiuto a cercare» disse.

Altri si unirono e si sparpagliarono lungo la strada principale, organizzandosi per perlustrare zone diverse.

Julia si guardò intorno per vedere se ci fossero altri posti in cui chiedere. In fondo al paese, sul lungofiume, c’era uno spiazzo in cui il Comune aveva fatto mettere delle panchine. Non si capiva bene perché, visto che era un posto ombroso e molto umido. Di giorno non c’era quasi mai nessuno, ma lattine di birra e mozziconi di sigaretta indicavano che la sera fosse più frequentato. Era un posto che attirava gli adolescenti, essendo appartato, non di passaggio. Inoltre, con il fiume che correva impetuoso lì vicino, aveva un che di selvaggio, di pericoloso.

Julia attraversò la strada e si diresse da quella parte. Non pensava che Anna fosse andata lì, e difatti non c’era. Si sporse comunque dalla ringhiera a guardare l’acqua. Un restringimento artificiale dell’alveo faceva sì che in quel punto la corrente fosse forte. Poco oltre, il fiume scompariva sotto la strada principale del paese. Vicino al piede destro Julia aveva un sacchetto di patatine accartocciato. Gli diede un calcio, facendolo volare nell’acqua. La corrente lo trascinò via.

Se fosse stato Anna... Bloccò subito quel pensiero. Anna non sarebbe scesa quaggiù. Ne sono certa. Non si sarebbe allontanata così tanto da sola. Avrebbe avuto paura. È sicuramente più vicino alla scuola.

Tornò verso la strada principale. Era appena arrivata all’acciottolato, quando sentì partire la suoneria del cellulare. Era Brian.

«Dove sei?» le chiese. «L’hai trovata?»

«Sono in paese e no, non l’ho trovata. Tu dove sei?»

«Sono quasi alla scuola. La polizia è già arrivata, mi pare».

«Con Anna? La vedi?»

«No. Anna non c’è».

«Cosa faccio, Brian? Continuo a cercarla in paese?»

Lungo silenzio. «Non lo so. Dobbiamo parlare, Julia. Ti vengo a prendere».

Julia rimase lì ad aspettare. Sentiva il rilievo dei ciottoli sotto le suole sottili. La strada era l’unica cosa che le pareva solida: negozi, veicoli e persone le apparivano sfuggenti, inafferrabili, irreali.

«Anna!» gridò. «Anna!» Era un urlo disperato, più che un richiamo. Si rese conto di essersi messa a piangere dal sapore delle lacrime sulle labbra.

Squillò di nuovo il telefono. Non riconobbe il numero.

«Signora Crowne?» disse una voce. «Sono Jo Scott. Mi chiedevo se avesse ancora intenzione di venire o avesse cambiato idea».

Per un attimo Julia non capì, poi le tornò in mente il cane. Bella, il cucciolo che Anna desiderava tanto.

«Mi scuso» disse. «Ho avuto un imprevisto. La posso richiamare in un altro momento?»

Silenzio. Silenzio irritato, pensò Julia.

«Okay» replicò la donna. «Mi richiami quando vuole. Io però adesso devo andare a lavorare. Verrete un altro giorno».

Julia chiuse la chiamata e vide la macchina che accostava. Brian.

«Ciao» le disse. «Sali. La polizia è alla scuola e ti vuole parlare».

Posteggiarono vicino alla Westwood School e scesero dall’auto. Mentre andavano verso il portone, Julia cercò la mano di Brian. Era un pezzo che neanche si sfioravano e la sorprese il senso di sicurezza che le dava tenere per mano il marito, il bisogno estremo di contatto che provava.

Gli strinse le dita.

Brian la guardò, si incupì e ritirò la mano.

«Ti prego, Brian».

«Non è il momento» ribatté lui. «La polizia ti vuole parlare».

La direttrice, la signora Jacobsen, andò loro incontro insieme con un agente in divisa, che fece un cenno di saluto a Julia. Aveva modi pratici, efficienti. In fondo al corridoio un suo collega parlava con una donna in jeans e felpa.

«Signora Crowne» disse. «Sono l’agente Davis. Siamo stati informati che sua figlia non si trova più. È vero?»

«Sì» rispose Julia. La presenza di quel poliziotto era inquietante, oltre che rassicurante. Se era intervenuta la polizia, voleva dire che la situazione era grave. Sentì che le stavano cedendo le ginocchia. «Non ho idea di dove possa essere. Mi aiutate a cercarla, per piacere?»

Davis annuì. «Siamo qui apposta, signora Crowne. Sono certo che la bambina è nei paraggi. In genere è così. Il personale della scuola si è già mobilitato» spiegò. «Lei è stata in paese?»

«Sì» rispose Julia. «Sono andata a vedere nel negozio di caramelle, che le piace molto. Ce la porto ogni tanto dopo la scuola. Pensavo fosse andata lì».

«C’è un motivo per cui ha pensato questo?» domandò Davis. «È già successo che la bambina uscisse da sola, da casa o da scuola?»

«No» rispose Julia. «Assolutamente. Anna sa benissimo che non deve allontanarsi da noi».

Davis annuì. «Avete ripercorso la strada di casa?» chiese. «Potrebbe essersi incamminata da sola. Succede spesso».

«Lo escludo» rispose Julia. «Abitiamo a cinque chilometri di distanza. Credo che non sappia nemmeno la strada».

«Capisco, ma a volte i bambini decidono di fare le cose più impensate. La strada di casa va controllata».

«Non penso proprio che...» mormorò Julia. Conosceva Anna ed era sicura che non si fosse avviata da sola. «Mi sembra una perdita di tempo».

«Signora Crowne, dobbiamo capire se Anna è uscita da scuola da sola o con qualcuno» disse l’agente Davis. «Capisco la sua angoscia, ma occorre che procediamo in maniera sistematica. Mi dice l’indirizzo?»

«Certo» intervenne Brian. E glielo disse.

«Grazie» rispose l’agente Davis. «Mando subito una volante».

«E a parte questo?» chiese Julia. «Anna potrebbe essersi fatta male, essere in pericolo...»

«Faremo tutto il necessario, signora Crowne» replicò Davis. «Procederemo per fasi».

Julia lo guardò. Quell’uomo corpulento che affrontava il problema in termini procedurali, suddividendolo in fasi successive, non le piaceva per niente. Si trattava di sua figlia, la sua unica figlia, che aveva cinque anni e non si trovava da quasi quaranta minuti.

Quaranta minuti. Sì, Anna poteva essere sulla strada di casa, o ai giardini. Ma se invece non c’era? Se l’avevano rapita? A quell’ora poteva essere a cinquanta chilometri di distanza.

«Noi cosa possiamo fare?» chiese Julia. «Possiamo dare una mano?»

«Fate un giro di telefonate» consigliò Davis. «Chiamate tutti quelli che vi vengono in mente. Le altre mamme, i vostri parenti, chiunque potrebbe essere venuto a prenderla. Cercate di ricostruire dove potrebbe essere andata. Chi ha il permesso di venirla a prendere? I nonni?»

«La nonna. Viene il lunedì e il mercoledì» rispose Julia.

«Potrebbe essere venuta anche oggi? Magari ha sbagliato giorno».

«No» rispose Brian. «Le ho parlato verso le due. Era a casa e ci sarebbe rimasta: aveva la cucina allagata».

«Qualcun altro?» insistette Davis.

«No» rispose Julia. «La veniamo a prendere solo io, mio marito e mia suocera. Anna sa che non deve dare retta agli sconosciuti».

«Potrebbe averla presa la madre di un’amichetta? Magari ha provato a chiamarvi...»

«Non credo». Julia controllò il cellulare. «Io non ho chiamate senza risposta».

«Non possiamo escludere questa ipotesi, però» disse l’agente Davis. «Vi viene in mente qualcuno?»

Julia abbassò lo sguardo. Scendendo al fiume, si era sporcata le scarpe. «La mamma di Dawn Swift, forse, Gemma. Oppure Sheila Parks».

«Vuole provare a chiamarle?»

Julia annuì. Cercò il numero di Gemma Swift nella rubrica. Le rispose al secondo squillo.

«Ciao, Julia, come va?»

Julia ebbe un attimo di esitazione. Si augurava che Gemma riempisse il silenzio dicendole che Anna era con lei e sperava che Julia non si fosse preoccupata: l’aveva vista da sola all’uscita da scuola e l’aveva presa con sé; aveva intenzione di avvertirla, ma le bambine avevano voluto fare merenda, poi avevano dato da mangiare al cane e le era passato di mente.

«Ci sei ancora, Julia?» chiese Gemma.

«Sì. Hai visto Anna all’uscita da scuola, oggi pomeriggio?»

«No. Perché?»

«Ho fatto tardi e quando sono arrivata non c’era più».

«Come sarebbe “non c’era più”?»

«Non era più a scuola. Non sappiamo dove sia».

«Ossignore». L’orrore nella voce di Gemma fu un pugno nello stomaco che riassumeva la gravità della situazione e lasciò Julia senza fiato.

È tutto vero, pensò. È successo veramente.

«Oh, Julia» disse Gemma. «Posso fare qualcosa?»

«Non credo. C’è qui la polizia».

«Chiamo le altre mamme» propose Gemma. «Più siamo a cercarla, meglio è».

A Julia venne di colpo la nausea. Non ne poteva più di quella conversazione, di quello che significava.

«Ora devo andare» disse. «Grazie, Gemma».

«Telefoni anche all’altra signora» la esortò Davis. «E, se le viene in mente qualcun altro... Nel frattempo, io chiamo rinforzi».

Julia annuì. La signora Jacobsen le indicò il proprio ufficio.

«Si accomodi pure in presidenza» disse. «Almeno avrà un po’ di privacy».

Un quarto d’ora dopo la porta della presidenza si aprì ed entrò Davis con il sorriso fasullo di chi ha brutte notizie ma vuole essere rassicurante.

«Non abbiamo incontrato Anna sulla strada di casa» comunicò. Stette un istante zitto, poi aggiunse: «Dobbiamo prendere in considerazione l’eventualità che sia più lontana».

Julia prese Brian per mano. Questa volta lui non si ritrasse.

«In che senso?» domandò Julia. «Dove potrebbe essere? Dov’è?»

L’agente Davis spostò il peso da un piede all’altro, a disagio.

«Sta arrivando una mia collega che ne sa più di me» disse.

Venti minuti dopo entrò in presidenza una donna con un tailleur scuro. Aveva meno di quarant’anni e i modi risoluti di chi è abituato ad assumere il controllo della situazione. Non vi preoccupate, sembrava dire, adesso aggiusto tutto io.

«Signora Crowne?» disse. «Sono l’ispettore Wynne, della squadra investigativa».

Capelli biondi tagliati corti, occhi azzurri, non sorrideva e aveva lo sguardo intenso e fermo, ma la faccia stanca e un po’ gonfia di chi ha dormito poco o ha bevuto troppo la sera prima.

Aveva un modo di fare calmo e professionale, ma Julia ebbe l’impressione che prendesse eccessivamente a cuore le situazioni che si trovava ad affrontare per lavoro. Meglio così, pensò: le faceva piacere che l’ispettore Wynne considerasse il ritrovare Anna una delle priorità della sua vita.

L’ispettore Wynne guardò Julia, poi guardò Brian, poi di nuovo Julia. Si ammorbidì. «Signori Crowne, capisco la vostra ansia, sono madre anch’io, ma vi raccomando di mantenere la calma. La stragrande maggioranza dei bambini che si perdono vengono ritrovati sani e salvi. Faremo il possibile per trovare Anna, ve lo assicuro».

«Grazie» disse Julia, che era in ansia quanto prima. «Quindi?»

«Potreste cominciare con il raccontarmi come sono andate le cose. Passo per passo, se potete, senza omettere dettagli».

«Non c’è molto da raccontare» replicò Julia. «Sono arrivata verso le tre e mezzo...»

«In ritardo» precisò Brian. «I bambini escono alle tre».

«Sì, ho fatto tardi» ammise Julia. «Ma credevo di trovarla ancora!»

«Non si agiti, signora Crowne. Limitiamoci ai fatti, per cortesia. Ha avvertito le maestre del ritardo?»

«No. Ero in riunione e quando abbiamo finito mi sono resa conto di avere il cellulare scarico».

«In riunione?» chiese l’ispettore Wynne.

«Sono avvocato. Mi occupo di separazioni e divorzi».

«Capisco. Be’, immagino abbia parecchio lavoro. Quindi, quando è arrivata, Anna non era più a scuola».

Julia spiegò quello che aveva fatto: aveva pensato che Anna fosse andata al negozio di caramelle e si era recata lì; poi aveva chiesto a diverse persone in paese e controllato in un certo numero di posti, finché Brian non l’aveva chiamata. Quando terminò il racconto, l’ispettore Wynne annuì e si morse il labbro pensosa.

Poi si voltò verso la direttrice. «Signora Jacobsen, mi servirebbe l’elenco di tutti i bambini presenti e relativi genitori, nonché di tutto il personale della scuola, in servizio oggi o meno».

La signora Jacobsen annuì. «Non vengono soltanto i genitori a prendere i bambini» chiarì. «Ma abbiamo un registro con tutte le persone autorizzate. Glielo vado a prendere?»

«L’istituto è dotato di un impianto di videosorveglianza?»

La direttrice strinse le labbra. «Sì» rispose. «Preferirei insegnare ai ragazzi che devono comportarsi come si deve perché è eticamente corretto e non perché ci sono le videocamere che registrano le loro malefatte. Vorrei educarli a diventare cittadini responsabili. Tuttavia, a seguito delle pressioni generali, abbiamo fatto installare un impianto di videosorveglianza».

«Sarà contenta di averlo fatto, adesso» replicò l’ispettore Wynne. «Visioneremo anche le riprese delle altre videocamere della zona. Può mettere a disposizione dei miei colleghi le registrazioni, signora Jacobsen?»

«Certamente» rispose la direttrice. «Vado».

«Un momento» la fermò Brian. «Avrei una domanda da farle». Era paonazzo. «Com’è potuta succedere una cosa del genere? Le maestre hanno l’obbligo di impedire agli alunni di uscire da scuola se non accompagnati da un adulto».

È vero, pensò Julia. Il regolamento della scuola prevedeva che i bambini venissero consegnati ai genitori o alle persone autorizzate. Costoro dovevano rimanere fuori e i bambini venivano accompagnati ai cancelli dalle maestre. In caso di ritardo, le mamme dovevano avvertire e gli alunni venivano trattenuti a scuola. Anche se non avvertivano, come nel caso di Julia, il bambino doveva comunque rimanere sotto la custodia della maestra che, non vedendo nessuno, lo riaccompagnava in classe.

Quel giorno, però, non era andata così.

«Ho parlato con le insegnanti» spiegò la signora Jacobsen. «Credevano di averla vista, signora Crowne. Erano convinte che lei ci fosse, dato che non aveva avvertito che tardava».

«Però non c’era» ribatté Brian. «E quindi voi avreste dovuto riportare Anna in classe e aspettare che arrivasse. Per cosa paghiamo rette da capogiro, se non siete nemmeno capaci di far questo?»

«Abbiamo seguito il regolamento, signor Crowne» replicò la direttrice. «Sono certa che le riprese delle videocamere lo confermeranno. È per noi prioritario garantire che i bambini...»

«Non è vero!» la interruppe Brian.

«Il nostro regolamento è conforme a quanto previsto dalla legge ed è stato approvato da una commissione indipendente» mise in chiaro la signora Jacobsen. «Sono disponibile a rispondere alle vostre domande, ma non credo che questo sia il momento più adatto».

«Va bene» disse Julia. «Ne riparleremo». Guardò l’ispettore Wynne. «Adesso concentriamoci sulle ricerche».

«Sono d’accordo» dichiarò lei. «Mi faccia avere i filmati e l’elenco che le dicevo, per cominciare». Si voltò verso Julia e Brian. «Potreste darmi una foto recente di vostra figlia da diffondere presso commissariati e posti di frontiera?»

«Addirittura?» si stupì Brian. «Pensa che potrebbero cercare di portarla fuori dal Paese?»

«Non lo penso, no» rispose l’ispettore Wynne. «Ma preferisco non correre rischi».

«Oddio!» esclamò Brian, coprendosi gli occhi con una mano. «Non ci posso credere. Non può essere successo di nuovo. Un’altra volta...»

L’ispettore Wynne fissava Brian.

«A che cosa si riferisce?» gli chiese. Di colpo, aveva lo sguardo interessato. «Non è la prima volta che le scompare un figlio?»

Brian scosse la testa. «Non un figlio» rispose. «Mio padre. Avevo poco più di vent’anni. Scomparve nel nulla. Non lasciò scritto niente, se ne andò e basta».

«Non si fece più sentire?» domandò l’ispettore Wynne.

«No». Brian si guardò le mani e si strappò una pellicina sull’indice sinistro. «Mai. Nemmeno gli auguri a Natale».

«E lei non sa dove sia? È sparito dalla circolazione?» insistette la Wynne.

«Precisamente». Brian fece spallucce. «Fu durante le vacanze estive. Lui era preside, ormai prossimo alla pensione. Sparì dalla sera alla mattina».

«E lei non sa perché. Né dove andò».

«Non ne ho la più pallida idea».

Julia sapeva che Brian non stava dicendo tutta la verità. Che ignorava dove fosse il padre era vero, ma sul motivo della fuga qualche sospetto lo nutriva. Glielo aveva confidato una volta, facendole giurare di non dire a Edna che gliene aveva parlato. Brian riteneva che il padre avesse una storia con un’insegnante molto più giovane e che fosse scappato con lei. Non ne era certo al cento per cento, sua madre non gli aveva mai detto niente, ma nel corso degli anni aveva ricostruito approssimativamente l’accaduto.

Ignorava però dove fosse andato e i motivi per cui non si era mai più fatto vivo con lui.

Julia aveva una sua teoria. Non su dove fosse Jim Crowne, ma sul motivo per cui aveva interrotto i contatti con i figli. Secondo lei, era il prezzo che aveva dovuto pagare. Edna gli aveva dato un ultimatum: se te ne vai con quella sgualdrina dall’altra parte del mondo, io taccio e ti risparmio lo scandalo solo se tu stai lontano da noi.

Se il marito non avesse accettato, gli avrebbe rovinato la vita. Edna ne era capacissima.

E così Jim aveva preferito andarsene in qualche località balneare della Spagna o in un paesino sulle Alpi svizzere, dove passava il tempo facendo lunghe passeggiate, leggendo e sciando mentre la mogliettina insegnava in una scuola internazionale e ogni tanto gli faceva le corna.

Era una sua supposizione, ovviamente. Julia non ne aveva la certezza. In ogni caso per Brian era stato un trauma. E adesso l’incubo si riproponeva.

«Dobbiamo metterci in contatto con lui» dichiarò l’ispettore. «Qualsiasi informazione lei abbia sul conto di suo padre ci sarà utile».

«Non ho nessuna informazione» mise in chiaro Brian. «Posso chiedere a mia madre».

«Grazie» replicò la Wynne. «Gliene sarei grata».

Brian non avrebbe ottenuto molto da Edna, pensò Julia, ma era giusto provarci.

«Va bene» disse Brian. «Adesso basta star qui con le mani in mano. Esco a cercare mia figlia».

Julia lo guardò andare via, poi si rivolse all’ispettore Wynne.

«Vado anch’io».

La donna annuì. «Certo. Resto qui io». Scrisse su un foglietto di carta il proprio numero di cellulare. «Se la trovate, avvertitemi subito».

Appena Julia prese in mano le chiavi della macchina, sentì partire la suoneria del cellulare.

Era Edna. Avvicinò il telefonino all’orecchio e la voce della suocera la investì senza lasciarle neppure il tempo di dire “Pronto”.

«Cosa succede, Julia? Brian mi ha lasciato un messaggio riguardo ad Anna. Ho provato a richiamarlo, ma non risponde».

Julia deglutì.

«Non la troviamo più» disse. «L’abbiamo persa».

Pausa. «Come sarebbe “l’avete persa”? Quando?»

«All’uscita da scuola. Quando sono venuta a prenderla, non c’era più».

«Com’è possibile? L’hanno lasciata uscire senza accertarsi che...?»

Julia la interruppe. Avrebbe dovuto ammetterlo, prima o poi: tanto valeva togliersi il peso subito.

«Ero in ritardo» disse. «Sono rimasta bloccata in...»

«Se la mamma è in ritardo, l’alunno va riportato in classe».

«Non sono riuscita ad avvertire» spiegò Julia. «Avevo la batteria scarica e...»

«Non hai avvertito le maestre?» si indignò Edna. «Come hai potuto?»

«Come dicevo, avevo la batteria...»

«Lasciamo stare» tagliò corto Edna. «Non è il momento di perdere tempo in chiacchiere. Qui bisogna fare qualcosa. Sono a casa, ma appena posso vi raggiungo. Venti minuti al massimo».

L’ispettore Wynne incrociò lo sguardo di Julia.

«Chi è?»

«Mia suocera» rispose Julia. «Ci vuole raggiungere».

L’ispettore Wynne annuì. «Posso parlarle un momento?»

Julia le passò il telefono.

«Signora Crowne, sono l’ispettore Wynne della squadra investigativa» si presentò.

Julia sentiva la voce di Edna, fievole ma riconoscibile. Soprattutto dal tono, che era risoluto e autoritario.

«Grazie per il consiglio, signora Crowne» disse dopo un po’ la Wynne. «La situazione è sotto controllo. La cosa migliore sarebbe che lei andasse a casa di suo figlio e aspettasse là. Nel caso Anna avesse deciso di tornare a casa da sola. Al suo arrivo, sarebbe meglio che trovasse qualcuno di conosciuto».

Edna parve accettare. L’ispettore restituì il telefono a Julia.

«Io resto qui, allora» le disse. «In bocca al lupo».

Un’ora e mezzo dopo – novanta minuti che le parvero novecento, o novemila – Julia tornò.

Aveva percorso in macchina strade e stradine ed era scesa a guardare fra le siepi e nei fossi. Di Anna neanche l’ombra.

Prese il cellulare e chiamò Brian. Le rispose la segreteria telefonica.

«Ciao» lasciò detto. «Sono tornata alla scuola. Chiamami, se... appena sai qualcosa».

Chiuse la chiamata e guardò fuori dalla finestra.

Da qualche parte dev’essere, pensò. Da qualche parte è per forza. La devo trovare.

Non si era mai soffermata a riflettere sui limiti di tempo e di spazio. Certo, aveva desiderato spesso che le giornate durassero più di ventiquattr’ore e le era capitato di dover decidere fra due feste perché non poteva andare a entrambe contemporaneamente, ma non ne aveva mai fatto una malattia. Era una scocciatura, questo sì, ma siccome non ci si poteva fare niente, non aveva senso lamentarsi.

Nelle ultime due ore, invece, non poter essere in più posti nello stesso momento era stato un dolore immenso. Se avesse avuto il dono dell’ubiquità, trovare Anna sarebbe stato molto più facile.

Purtroppo non lo aveva. Nessuno lo ha. Si può occupare un solo spazio per volta, un unico volume d’aria. E, nel caso specifico, quello di Julia non coincideva con quello di Anna.

Chissà se sarebbero mai tornate a occupare di nuovo lo stesso spazio.

Julia non riusciva a tenere a bada quel pensiero. Le si insinuava nella coscienza, lasciando una scia di isteria.

E se non la ritroviamo più? Se è morta? Se è finita nella tratta delle schiave? Se l’ha presa un maniaco che se l’è nascosta in cantina? La rivedrò mai?

Quando questi pensieri la assalivano, prima di riuscire a rimettere le cose in prospettiva, Julia veniva travolta da un’emozione così devastante che doveva piantare lì quello che stava facendo. Se stava bevendo un sorso d’acqua, le cadeva di mano il bicchiere. Se camminava, doveva lasciarsi crollare sulla prima sedia che trovava, oppure appoggiarsi a un muro; se stava parlando con qualcuno, si bloccava a metà frase e si portava le mani allo stomaco.

La cosa peggiore era che era stata colpa sua.

Su questo non c’erano dubbi. Sì, poteva accampare qualche giustificazione – la riunione si era protratta, il telefono si era scaricato – ma nella sostanza la sua responsabilità era schiacciante. Se si fosse presentata davanti alla scuola alle tre meno cinque, Anna adesso sarebbe stata con lei. Sarebbero state a casa a leggere Gli sporcelli, subito prima di andare a nanna.

Julia non sarebbe stata lì, a scuola, seduta in presidenza con l’ispettore Wynne e un caffè, mentre fuori il sole calava lentamente oltre l’orizzonte. E Anna... Anna non sarebbe stata dov’era in quel momento.

La porta si aprì ed entrarono due poliziotti. Tutti e due ragazzi di vent’anni o poco più.

«L’avete trovata?» chiese Julia, pur intuendo dalle loro facce che non era così.

«No, signora Crowne» rispose quello a sinistra. «Non ancora».

L’ispettore Wynne stava parlando al telefono. «Okay» diceva. «Se ci sono novità, ti avverto». Chiuse la chiamata e guardò i due ragazzi. «Niente?»

Quello a destra scosse la testa. «Niente. Abbiamo perlustrato la zona per il raggio che la bambina avrebbe potuto coprire a piedi. Abbiamo controllato tutte le strade e i giardini pubblici e interrogato un congruo numero di persone, adulti e bambini. Nessuno l’ha vista».

L’ispettore Wynne si strinse il mento fra pollice e indice.

«Gli altri genitori all’uscita di scuola?»

«Ne abbiamo interrogato alcuni e contiamo di parlare con i restanti entro stasera. La maggior parte è disponibile».

Intervenne il collega. «Siamo andati di casa in casa a chiedere se qualcuno aveva visto o sentito qualcosa e a cercare volontari per le ricerche. Faremo anche un appello via radio».

Non è la prima volta che gestiscono questo tipo di situazioni, pensò Julia. Oddio, ci sono abituati. Vuol dire che non succede solo nei film. E stavolta è successo a me.

«Posso venire anch’io?» domandò all’improvviso. «Posso venire con voi?»

«A bussare alle porte?» chiese il poliziotto.

«Sì. Per vedere se c’è Anna. Lo capirò, se è in una di quelle case. Se la chiamo, mi risponde».

Il ragazzo era imbarazzato. Lanciò un’occhiata alla Wynne.

«Penso sia meglio lasciare che l’agente Joyce e l’agente Bell facciano il loro lavoro» disse lei. «Le cose andranno più lisce».

«Perché, scusi?» insistette Julia. «Posso aiutarli».

«Signora Crowne, è meglio che lei stia qui. Se Anna ritorna, sarà spaventata e avrà bisogno della sua mamma».

«Preferirei andare con loro».

«Io invece preferisco che lei resti qui».

Perché mi mette i bastoni fra le ruote? pensò Julia. Perché non mi lascia andare a cercare mia figlia?

«Sono sua madre!» sbottò. Le emozioni delle ultime ore si stavano condensando in una rabbia esplosiva. «Ho tutti i diritti di andare a cercarla! E se fosse prigioniera in una di quelle case? Ci devo essere anch’io!»

«Signora Crowne, non stiamo andando nelle case del circondario a cercare la bambina. Ci andiamo per chiedere informazioni».

«Potrebbe essere rinchiusa in una cantina! Dovete perquisirle! Tutte quante!»

«Non possiamo introdurci in casa della gente senza un mandato».

«Perché no? Neanche se potrebbe esserci prigioniera mia figlia?»

«Comprendo il suo stato d’animo, signora, ma per entrare in casa della gente occorre un mandato di perquisizione. È la legge a stabilirlo, non noi».

«Me ne fotto della legge! Se non lo fate voi, lo faccio io!» Julia si alzò in piedi così in fretta che prese una ginocchiata contro la scrivania. La tazzina tremò nel piatto e un po’ di caffè si rovesciò sul tavolo. Julia marciò verso la porta, passando in mezzo ai due poliziotti, e uscì nel corridoio. Non sapeva neanche lei dove andare, ma qualcosa doveva fare: non poteva stare lì ad attendere, con Anna chissà dove che aveva bisogno di lei. Sarebbe stato come accettare la propria impotenza e Julia non riusciva ad ammettere di essere impotente.

Sentì alle proprie spalle i passi dell’ispettore Wynne.

«Signora Crowne? Dove sta andando, signora Crowne?»

«Esco!» rispose Julia gridando. «Vado fuori a cercare mia figlia!»

«Non sia impulsiva, signora Crowne. Inimicarsi gli abitanti della zona può essere deleterio».

Julia sapeva che la poliziotta aveva ragione, ma non intendeva darle retta. Era in preda a un istinto irresistibile, quello che tra gli animali impone alle madri di proteggere i loro piccoli nella foresta, che spinge l’antilope a cercare di difendere il suo cucciolo da un leone, il cervo a mettersi contro il lupo per salvare il cerbiatto, a costo di perdere la vita.

Era davanti alla porta, quando questa si aprì ed entrò Brian, pallido e con gli occhi rossi. Era evidente che non aveva trovato Anna. Guardò Julia, poi l’ispettore Wynne.

«Che succede?» domandò. Guardò di nuovo la moglie. «Perché gridate?»

«Non vuole che vada a cercare Anna» rispose Julia. «E invece io voglio andare di casa in casa per chiedere a tutti se l’hanno vista e guardarli negli occhi mentre mi rispondono, per capire se sono stati loro a prenderla».

«Vengo con te» disse Brian.

«Signori Crowne» disse l’ispettore Wynne. «Possiamo parlarne un minuto, prima?»

Julia si voltò. «Un minuto».

«Ci vogliamo accomodare in presidenza?»

Julia fece no con la testa. «Parliamone qui».

«Abbiamo già nostri agenti che indagano porta a porta» disse l’ispettore Wynne. «Sono esperti, sanno che cosa chiedere. Se qualcuno ha visto qualcosa lo scopriranno. Seguiremo ogni pista. In questa fase è indispensabile procedere in modo sistematico».

«Ma sono in grado di capire se il colpevole è proprio il tipo con cui stanno parlando?» chiese Julia. «Se ne accorgono, se Anna è prigioniera nella sua cantina?»

«Dubito sia andata così». L’ispettore Wynne spostò il peso da un piede all’altro. «Voglio essere franca: al momento le possibilità che vedo sono due. O Anna si è allontanata da sola, nel qual caso non è andata lontano, qualcuno l’ha vista di sicuro ed è in qualche angolo in cui non abbiamo ancora guardato...» Si interruppe e distolse lo sguardo per un istante. Poi tornò a fissare Julia e Brian. «Oppure qualcuno l’ha portata via».

«Dove?» chiese Brian, con voce roca.

«Non lo sappiamo, signor Crowne» rispose la poliziotta. «In ogni caso, prima di tutto la dobbiamo cercare nelle immediate vicinanze. Potrebbe essersi fatta male. Potrebbe essere infreddolita e spaventata. Dobbiamo essere metodici per avere la certezza di non lasciarci sfuggire nulla».

«È qui, me lo sento» affermò Brian. «Non mi capacito che l’abbia presa qualcuno».

«Proseguiremo le ricerche tutta la notte. Dovessimo mai trovare un’impronta, uno dei suoi effetti personali...»

«Voglio accompagnarvi» dichiarò Brian. «Possiamo coinvolgere i nostri amici».

«Benissimo» disse l’ispettore. «Faremo base nella sede della circoscrizione. Mobilitate più gente che potete».

Brian chiudeva e riapriva i pugni sulle cosce, scoprendo i calzettoni con un motivo cachemire. Glieli aveva regalati Anna per Natale. Li aveva scelti personalmente, insieme a un altro paio con Homer Simpson. Brian aveva aperto il pacchetto e aveva indossato una calza di un tipo e una dell’altro, Homer Simpson a sinistra, cachemire a destra, dicendo ad Anna che gli piacevano talmente tutt’e due che non sapeva decidere. Anna aveva voluto che restasse così fino alla sera.

Il ricordo di Anna che controllava che il suo papà tenesse le calze spaiate il giorno di Natale fece venire a Julia le lacrime agli occhi. Le tremavano le mani. Non singhiozzava così da quando, a diciassette anni, era stata mollata da Vince, il suo primo amore. Da brava adolescente, era convinta che Vince fosse l’unico uomo della sua vita e quando lui le aveva detto che era finita – tu non c’entri, avrebbe voluto dirle, sono io, ma poi si era confuso e le aveva detto la verità: io non c’entro, sei tu – Julia aveva pianto per giorni. Le pareva la fine del mondo, era sicura che nulla sarebbe più tornato come prima. Dopo un po’, invece, la disperazione era passata e Julia aveva capito che forse la vita sarebbe andata avanti anche senza Vince.

In quel momento si sentì esattamente come allora, ebbe la stessa identica sensazione, solo che invece di diciassette anni adesso ne aveva trentotto ed era grande abbastanza per sapere che era vero, che la disperazione non sarebbe passata.

Spinse la sedia all’indietro, improvvisamente spossata. «Forza» disse, guardando il marito negli occhi inespressivi. «Andiamo a casa a prepararci».

Le ricerche vennero organizzate con rapidità ed efficienza. La polizia sapeva come muoversi e agiva con la massima sicurezza.

Hanno esperienza di queste cose, pensò Julia, si sono già trovati in questa situazione. Sono cose che succedono veramente.

La sede della circoscrizione – una struttura di legno e vetro costruita qualche anno prima con il ricavato di una lotteria – era la base operativa da cui partivano le direttive. Appesa al muro c’era una mappa dettagliata della zona, con righe tracciate a pennarello a segnare le strade assegnate alle varie squadre.

I volontari erano numerosissimi: amici di Julia e Brian, genitori di alunni della scuola, abitanti del quartiere. Julia aveva chiamato praticamente tutti i numeri sulla rubrica e molte persone avevano telefonato spontaneamente alla polizia dichiarandosi disponibili a dare una mano. I volontari erano stati convocati alla sede della circoscrizione e quindi inseriti nelle varie squadre.

Erano affiancati da agenti che puntavano la torcia nei vicoli bui, bussavano alle porte, interrogavano i senzatetto. Unità cinofile scandagliavano parchi, giardini, campi e boschi. Se non avessero trovato nulla, la mattina dopo sarebbero intervenuti i sommozzatori.

Furono ricerche accuratissime. Controllarono anche luoghi in cui Julia sapeva che Anna non si sarebbe mai avventurata da sola.

Questo significava che l’avesse presa qualcuno, qualcuno che non voleva che la ritrovassero.

Brian partecipò alle ricerche, Julia rimase nella sede della circoscrizione con l’ispettore Wynne, in attesa di vederle sul volto un sorriso trionfante nell’apprendere telefonicamente che Anna era stata ritrovata sana e salva. Ma le ore passarono e i volontari arrivarono a mani vuote e tornarono a casa a dormire, crucciati per quei poveri genitori in ansia per la figlia. Julia li ringraziò dell’aiuto, accettò i loro auguri e in bocca al lupo, le loro frasi di circostanza, non vi preoccupate, la troverete presto.

Ma come faceva Julia a non preoccuparsi? Era la sventurata che non trovava più la propria figlia, la mamma oggetto della pietà e della commiserazione dei vicini. Come poteva non essere rosa dall’ansia?

A mezzanotte la porta si aprì e arrivò Brian. Rivolse un’occhiata all’ispettore Wynne.

«Niente?» le domandò.

«Ancora no, signor Crowne» rispose lei. «Sarebbe meglio che tornaste a casa, adesso. Dovreste cercare di riposare».

«Preferisco restare» replicò Julia. «Potrei uscire io, adesso».

«Se scopriamo qualcosa, vi avverto subito» promise l’ispettore Wynne. «Dovete cercare di risparmiare le forze. Domani sarà una giornata stancante».

«A meno che non la troviamo adesso» ribatté Brian.

Seguì un lungo silenzio imbarazzante, poi l’ispettore Wynne annuì. «Già» disse. «Ora andate a riposare».

Julia era sicura che non sarebbe riuscita a chiudere occhio, ma annuì e prese dalla tasca le chiavi della macchina. Poi guardò Brian. «Guido io» dichiarò. «Andiamo».

Salirono in auto senza parlare. Non c’era nulla da dire. Per la prima volta da molto tempo provavano tutti e due i medesimi sentimenti. Paura, ansia, angoscia, panico. Uno assieme all’altro, in una spirale orrenda e spaventosa.

Julia girò la chiave dell’accensione e per un attimo temette che l’auto non partisse: stava andando tutto a catafascio, perché non anche questo? Invece il motore rombò. La strada da lì a casa era breve, poco più di un chilometro, ma a Julia parve il viaggio più importante della sua vita, come se stesse varcando un confine invisibile che l’avrebbe condotta in un’altra dimensione in cui tutto era diverso da prima.