La bambina è sveglia.
E grida come un’aquila.
Non va bene né una cosa né l’altra.
Non doveva succedere. Non puoi permetterti di commettere errori. Come hai potuto? Avevi calcolato correttamente il dosaggio, tenendo conto del peso della bambina, dell’età, delle quantità già assunte. La somministrazione è avvenuta all’ora giusta. Non hai dubbi in proposito. Impossibile che tu abbia sbagliato.
Eppure... Adesso la bambina urla.
Il problema non sono le urla: nessuno la sentirà. Non c’è nessuno a portata d’orecchio. No, il problema è che si è svegliata e quindi si è resa conto della situazione. Se strilla, vuol dire che è consapevole del fatto che non dovrebbe essere qui.
E ciò significa che avrà ricordi che non le devi permettere di avere. C’è un farmaco per toglierle la memoria, però è pericoloso per i bambini e glielo hai già somministrato una volta, il giorno in cui l’hai presa. Preferiresti non darglielo di nuovo. Non vuoi farle del male.
Non puoi farle del male. Presto arriverà il momento e allora dovrà essere perfetta, impeccabile, incolume. È l’unica possibilità. Solo così potrà funzionare.
E tuttavia la bambina non può conservare memoria di nulla. Non ci sono alternative, deve assumere quel farmaco. Non hai scelta, lo sai. Non ti piace, ma lo farai lo stesso. È uno dei tuoi punti di forza: ti sai adattare e hai il dono del pragmatismo. Te la cavi sempre. Trovi una soluzione. Il mondo andrebbe meglio, se ci fosse più gente come te.
Dunque le darai il farmaco. Hai deciso.
È la vita, no? Nella vita occorre prendere decisioni. Non hai problemi a farlo, tu. Hai già preso la più importante: rapire la bambina. Hai corso un grosso rischio, hai avuto coraggio. Queste sono quisquilie, al confronto.
Fallo il prima possibile. Fallo adesso.
Sei consapevole del fatto che è indispensabile; perciò vai verso il nascondiglio – un nascondiglio che nessuno troverà mai, neanche cercandolo – e riempi la siringa.
Poi vai verso l’altro nascondiglio. La casa è piena di nascondigli, conserva segreti da secoli. Per questo ti ci trovi bene. Questo sarà l’ultimo segreto di una lunga serie, cerca di ricordartelo. Ti fa sentire meglio rispetto a ciò che hai fatto e a ciò che stai per fare.
Apri il nascondiglio. Dentro è buio.
Shh, dici, e afferri il braccio della bambina. Senza lasciarle il tempo di protestare, lo blocchi fra le ginocchia e cerchi la vena in cui iniettare il farmaco.
Scusa, sussurri. Ti dispiace veramente, ma non puoi fare altrimenti.
La bambina non deve ricordare nulla.
Mezzanotte, forse l’una. Oppure le due. Julia non sapeva che ore fossero. Era seduta sul lettino di Anna e si teneva le ginocchia strette al petto.
Anna non c’era più, doveva metterselo in testa. Non c’era più. Guardò la cameretta, i libri, l’elefante di peluche che abbracciava quando andava a nanna, il comò con i vestiti, il cassetto in alto a sinistra socchiuso, un lembo della tutina rossa che spuntava.
Julia aveva sempre considerato morbosi coloro che conservavano le stanze dei propri cari come mausolei, ma in quel momento li capì. Non poteva neppure prendere in considerazione di spostare un solo oggetto in quella stanza. Tutto – i libri, i giocattoli, il lieve disordine, l’odore – era espressione della personalità di Anna, dei suoi interessi, del suo carattere.
Le coperte erano ammucchiate in fondo al letto, esattamente come Anna le aveva lasciate tre giorni prima, quando si era alzata per andare nella camera dei genitori. Sembrava fosse passato un secolo. Quella mattina Anna aveva trovato solo la mamma nel lettone, perché il papà era andato a dormire nella stanza degli ospiti.
Dov’è papà? aveva chiesto.
Mi sembra sia già sceso, aveva risposto Julia, rendendosi conto di quanto sarebbe stato difficile far comprendere alla figlia che voleva divorziare. Aveva abbracciato Anna rimandando le spiegazioni, godendosi quel momento di intimità.
Era l’ultimo ricordo che aveva di Anna. Dopo pochi minuti si erano alzate ed erano scese al pianterreno; Julia aveva un appuntamento molto presto e aveva dovuto prepararsi e uscire. A preparare la colazione e a vestire Anna aveva pensato Brian.
Julia aveva salutato la figlia dandole un bacio sulla testa.
Ciao, tesoro, le aveva detto. Ti auguro una splendida giornata.
Ciao, mamma. Ti voglio bene.
Anch’io.
Julia guardava in silenzio il letto vuoto, chiedendosi se quella fosse stata l’ultima volta che avrebbe visto la figlia, se quel saluto si sarebbe rivelato l’ultimo, un addio per sempre.
Succedeva continuamente, rifletté. In ogni parte del mondo, ogni giorno, qualcuno salutava allegramente una persona cara – goodbye, au revoir, auf wiedersehen – senza immaginare che non l’avrebbe più rivista. Meglio così, forse: se presentissimo la tragedia, se ogni volta che ci separiamo pensassimo che potrebbe essere per sempre, non muoveremmo un passo, saremmo paralizzati dalla paura.
Julia non ricordava chi fosse stato – Orwell, forse? – a dire che ogni anno c’è un anniversario che non celebriamo perché non lo conosciamo, e cioè l’anniversario della nostra morte. Non era l’unico anniversario ignoto, a quanto pareva: Julia non si aspettava che un certo giorno sarebbe diventato l’anniversario della scomparsa di sua figlia.
Della fine della sua maternità. Come si sarebbe definita da lì in poi? Un’ex mamma? Anna era già morta? Julia non era più madre? Davvero le sarebbero stati preclusi i crucci e le frustrazioni, ma soprattutto le gioie della maternità, quell’emozione purissima e travolgente che coglie i genitori quando guardano i figli che dormono? No, era impensabile che fosse davvero finita. Si torse le mani, si conficcò le unghie nei palmi, cercò di concentrarsi sul dolore per scacciare quel pensiero angosciante.
Invano. Davanti a lei si parava un futuro senza Anna. Un futuro tetro, incolore, privo di qualsiasi attrattiva.
Distesa sul lettino della figlia, aspettò che il malessere passasse. Ci volle tanto, tantissimo tempo.
Julia scese di sotto a preparare il caffè. Nel frigo non c’era latte. Prese la borsetta e le chiavi della macchina. Uscire l’avrebbe distratta, le avrebbe permesso di non pensare sempre ad Anna. Guardò l’orologio sul forno: erano le cinque del mattino. Il negozio della stazione di servizio vicino all’autostrada a quell’ora era aperto. Strinse le chiavi.
Guidare la rilassò un pochino. Sì, scrutava fra siepi e giardini in cerca di Anna, ma era costretta a concentrarsi sul percorso, i semafori, le altre auto. Le fece bene.
Si fermò alla stazione di servizio e decise di fare il pieno, già che c’era. Riempì il serbatoio ed entrò nel negozio. Prese una confezione di latte dal frigo e si avvicinò alla cassa.
Le cadde l’occhio sull’espositore di sigarette. Erano anni che non fumava, ma di punto in bianco sentì un desiderio irrefrenabile di nicotina. La attirava anche il gesto di tenere la sigaretta in mano.
«Pompa numero tre» disse. Ebbe un attimo di esitazione, poi aggiunse: «E un pacchetto di Marlboro Light».
La cassiera aveva poco più di vent’anni. Rivolse a Julia uno sguardo insonnolito e, nel riconoscerla, cambiò espressione. Nei suoi occhi Julia lesse dapprima curiosità, poi disapprovazione. Se ne stupì.
La cassiera si rabbuiò e posò lo sguardo sulla pila di quotidiani sul bancone. Quando riportò gli occhi su Julia, aveva la faccia colpevole, come se fosse appena stata sorpresa ad arraffare banconote dalla cassa e infilarsele nel portafoglio. Si riscosse, prese le sigarette e digitò il prezzo.
«Cinquantacinque sterline e diciannove pence» dichiarò.
Julia aveva capito. Guardò i quotidiani: erano copie di un tabloid appena consegnate, tenute insieme da due fascette di plastica azzurre che formavano una croce al centro della prima pagina.
Proprio lì, dove le due fascette si incrociavano, riconobbe la propria faccia.
La foto era stata scattata dopo la conferenza stampa, mentre si allontanava con Brian. Lei era in primo piano, Brian una presenza sfuocata sullo sfondo, appena riconoscibile. Come nella vita, pensò Julia. Non era questo ad aver suscitato la reazione negativa della cassiera, però.
Julia lesse il titolo con un senso di crescente incredulità. Arrivata in fondo, si dovette aggrappare al bancone perché le girava la testa.
Rilesse.
Un paese allo sfascio: la madre accusata di negligenza
Afferrò la prima copia della pila e tirò. Non riuscendo a liberarla dalle fascette, strappò a metà la prima pagina e avvicinò le due parti sul bancone per ricomporre l’articolo.
È emerso ieri che la madre di Anna Crowne, la bambina scomparsa, non si era presentata a prendere la figlia all’uscita da scuola e non aveva avvertito le maestre del ritardo. Quando la piccola Anna è uscita da scuola, perciò, si è ritrovata sola e abbandonata.
Contro la mamma di Anna si sono espressi numerosi genitori. Uno di essi, che preferisce mantenere l’anonimato, ha rivelato che Julia Crowne, avvocatessa di professione, arrivava spesso in ritardo a prendere la bimba.
«Se tiri troppo la corda, alla fine si spezza» ha commentato. «Mi dispiace per lei, ma forse avrebbe potuto evitarlo. Una madre deve scegliere se è più importante il lavoro o la figlia».
Julia Crowne si è presentata alla Westwood School trenta minuti dopo l’orario di uscita degli alunni e Anna non c’era più. Le ricerche finora si sono rivelate infruttuose e si teme che la piccola sia finita nelle mani dei trafficanti di minori o di un maniaco.
Henry Collins, ex maggiore dell’esercito specializzato in sequestri, ha dichiarato che in questi casi trenta minuti sono un’eternità.
«Trenta minuti equivalgono a trenta miglia e perlustrare un raggio di trenta miglia non è un’impresa da poco» ha spiegato. «A un criminale esperto bastano cinque minuti. Spesso dopo una breve distanza il minore viene trasferito a bordo di un altro veicolo e può essere fatto espatriare clandestinamente nel giro di due ore».
«Oddio!» esclamò. «Non è andata così...» Guardò la cassiera. «Quello che è scritto qui non è vero. Glielo giuro!»
La ragazza tacque e si limitò a guardare Julia. Sul display della cassa era visualizzato il prezzo di benzina e sigarette.
55.19
Julia le porse la carta di credito con mano tremante.
La ragazza lanciò un’occhiata al giornale.
«Quello glielo regalo» disse. «Lo prenda pure».
Era solo l’inizio.
Julia arrivò a casa sconvolta e non si accorse dell’uomo in piedi in mezzo alla strada. Non ci fece caso. Fu solo quando già aveva la chiave nella serratura che lo vide avvicinarsi.
«Signora Crowne?» la chiamò. «Sono del Daily World, signora Crowne!»
Julia lo guardò stupita: non si capacitava che quell’uomo fosse lì, davanti a casa sua, e la stesse aspettando. Era alto, fra i cinquanta e i sessant’anni, una strana capigliatura che forse era un toupet, il naso aquilino e l’accento londinese. Aveva l’aria stanca, come se avesse viaggiato tutta la notte. Le sorrise, mostrandole denti giallastri e sporgenti, da castoro.
«Signora Crowne» insistette, «è vero che non è andata a prendere la bambina a scuola il giorno in cui è scomparsa? Vuole commentare?»
«Se ne vada!» replicò Julia. «Vada via».
«Solo un paio di domande, signora Crowne. È arrivata davvero in ritardo? Si sente colpevole?»
«Le ho detto di andar via!» ripeté Julia. «Mi lasci in pace, farabutto».
L’uomo non fece una piega. «Si sente responsabile, signora Crowne? Pensa sia colpa sua? Vorrebbe poter tornare indietro e rimediare?»
Come poteva essere tanto crudele? Se Julia avesse risposto sì, quel mentecatto avrebbe scritto che la madre della piccola Anna si sente in colpa per quanto è accaduto e rimpiange di non poter tornare indietro e rimediare e gli inglesi, leggendo il giornale a colazione, avrebbero annuito: Lo credo! Un attimo dopo si sarebbero dimenticati di tutto, presi dalla propria vita.
E non avrebbero mai saputo che dietro quelle frasi c’era un giornalista senza scrupoli che molestava una madre disperata davanti a casa sua, tempestandola di domande volte solo a farle del male. È così che lavorano i giornalisti? È questo il prezzo di certi articoli? Non potevano cercare di essere un po’ più corretti e rispettosi?
«Signora Crowne, risponda!» continuava imperterrito l’uomo. «Basta che dica sì o no».
«T’ho detto di lasciarmi in pace, stronzo!» sbottò Julia. «Togliti dai piedi!» Aprì la porta, entrò e si voltò verso il reporter. «Fate schifo!» esclamò. «Dovreste vergognarvi!»
L’uomo sorrise. «Parla quella che si dimentica la figlia a scuola».
Julia gli sbatté la porta in faccia con tanta violenza che il lunotto di vetro rischiò di rompersi.
Si appoggiò alla parete e vi premette contro la fronte.
«Merda» imprecò. «Merda, merda, merda».
In quel momento, scherzo di un destino crudele, si accorse di aver dimenticato il latte in macchina.
«Che cosa succede?» domandò Brian.
Era sulla porta della cucina e aveva l’aria stravolta. Normalmente era un bell’uomo, i grandi occhi scuri e gli zigomi alti della madre, e benché ultimamente fosse leggermente ingrassato – arrotondandosi un po’ dappertutto come molti suoi amici, mettendo su chili difficili da perdere – era ancora un uomo attraente.
All’inizio Julia era uscita con lui proprio perché era un bel ragazzo. Era indice di superficialità, lo sapeva, ma alla Leeds Metropolitan University era uno degli studenti che piaceva di più alle ragazze e Julia era abbastanza competitiva da decidere di conquistarlo. C’era riuscita con relativa facilità. Lo aveva avvicinato al bar degli studenti, avevano preso un caffè assieme e al secondo appuntamento avevano fatto sesso. Julia si era resa conto quasi subito che Brian non era un tipo ambizioso, ma l’ambizione non era ai primi posti nell’elenco delle caratteristiche che ricercava in un uomo. Anzi, il contrario: la riteneva un difetto, segno di un eccessivo attaccamento ai soldi e allo status sociale. Non era fra le sue priorità, in un’età della vita in cui l’importante era impegnarsi per migliorare la società e il mondo, far del bene e divertirsi, non rincorrere titoli e ricchezze.
Quindi Brian era l’uomo ideale per lei, anche se un tantino passivo. Di mentalità liberale, non aspirava a entrare in qualche grande azienda o in politica, ed era bello (e bravo a letto, molto più attento e premuroso dei suoi ex). I suoi principi e le sue idee politiche erano simili a quelli di Julia e della cerchia che Julia frequentava, ma dopo un po’ Brian era rimasto l’unico a continuare a crederci. Julia e gli altri avevano lentamente ma inesorabilmente spostato il tiro e, invece che a fare del bene, aspiravano sempre di più a far soldi. Si erano induriti e avevano fatto carriera. Brian no. (Che cosa stava dicendo? Che se a vent’anni non sei socialista sei senza cuore, ma se a trenta lo sei ancora sei stupido? Julia e i suoi compagni di università ne erano la dimostrazione vivente...) L’ambizione non aveva trovato terreno fertile in lui, non aveva messo radici: Brian era rimasto idealista come a vent’anni. E quasi altrettanto bello.
Quel giorno, però, Julia lo trovò brutto. Incarnato grigiastro, faccia tirata, occhi spenti, barba lunga, un principio di doppio mento. Sembrava invecchiato di colpo.
«C’è un reporter qui fuori» gli rispose Julia.
«Un reporter? E cosa vuole? Che vadano alla polizia, se vogliono informazioni».
«Be’, questo è venuto qui».
«Ma perché? Ci devono lasciare in pace. Non siamo noi i cattivi. Noi siamo le vittime!»
«Loro non la pensano così» ribatté Julia.
Gettò sul tavolo il tabloid strappato e incrociò le braccia perché non voleva che Brian vedesse che le tremavano le mani. Brian prese il giornale e cominciò a leggere.
«Oh, cazzo!» esclamò. E lo ripeté con più enfasi: «Oh, cazzo!»
«Incredibile, vero?» disse Julia. «Che carognata».
Brian continuò a leggere. «È la verità, però» osservò. «Non si può negare».
«Lo so. Non c’è bisogno che me lo dici, lo so da me. Ne sono perfettamente consapevole».
«Purtroppo ormai è tardi. Il guaio è fatto».
«Perché ti comporti così, Brian?» gli chiese. «Vuoi farmi stare peggio di quanto già non stia? Oltretutto è inutile, sai: peggio di così è impossibile. Non sappiamo dove sia nostra figlia, c’è il rischio che sia stata rapita, che sia nelle mani di una banda di pedofili, oppure venduta come schiava. Mi resterà il dubbio finché campo, Brian. E la consapevolezza che è stata colpa mia non mi lascerà vivere. Credi che ci sia qualcosa in grado di farmi stare peggio di così?»
Brian non replicò. Dopo un momento, alzò gli occhi verso di lei. «Me ne frego» disse. «Non me ne importa niente di come stai. Te la sei voluta. Sei stata tu a lasciarmi, e ad abbandonare Anna al suo destino... Io ho perso tutto per colpa tua. Non riesco a vederla in maniera diversa, mi dispiace. E siccome una settimana prima che Anna scomparisse mi hai annunciato che vuoi il divorzio, non possiamo neppure sostenerci a vicenda». La guardò negli occhi. «Hai rovinato tutto, Julia». Scosse la testa con aria di rimprovero. «Hai distrutto tutto».
Julia non era irascibile. Si seccava, si infastidiva, ma non dava mai in escandescenze. Le era capitato poche volte di provare una collera vera, profonda, di perdere l’autocontrollo. E solo da adolescente, quando aveva l’impressione che sua madre le impedisse di fare qualcosa che lei riteneva ragionevolissimo, tipo rasarsi i capelli a zero, andare in discoteca o fermarsi a dormire a casa del suo ragazzo. All’epoca la rabbia era alimentata dagli ormoni, ma non era nulla in confronto all’ira che la colse in quel momento.
Chi cazzo si credeva di essere Brian? Non c’era nessun bisogno di rimproverarla: Julia sapeva benissimo di avere sbagliato, era oppressa dai sensi di colpa. Lo faceva per sadismo, allora? Godeva a farla soffrire? Che le addossasse delle responsabilità era un conto, che provasse piacere a farlo un altro. O forse voleva approfittare della scomparsa di Anna per metterla in posizione di svantaggio e ottenere condizioni migliori in fase di divorzio? Era disgustoso, inaccettabile: dietro la collera di Julia c’era una sacra indignazione. Finché Brian era stato dalla parte della ragione, non era riuscita ad arrabbiarsi, ma non appena si era messo dalla parte del torto le si erano aperte le cateratte.
«Ho sicuramente sbagliato ad arrivare tardi a scuola. Non ho bisogno che tu me lo ricordi» disse Julia. «Ma in una cosa non ho sbagliato, nel volere la separazione. Lasciarti è la cosa più giusta che potessi fare. Sei un debole, Brian, più di quanto pensassi. Lo dimostra il fatto che usi Anna per farmi soffrire e ci godi».
Lo shock che gli lesse in faccia la spinse a continuare con ancor più furia e malanimo.
«Mi sono accorta da un pezzo che sposarti è stato uno sbaglio. Me ne sarei dovuta rendere conto quando mi sono messa con Chris, perché se ti avessi amato veramente non mi sarebbe nemmeno venuto in mente di uscire con qualcun altro. Invece non ho voluto vedere». Julia era cosciente di esagerare. I motivi per cui era stata con Chris erano complicati e Brian c’entrava solo fino a un certo punto, ma in quel momento non le importava. Voleva ferirlo, e ci stava riuscendo. «Peccato, perché ho commesso lo sbaglio peggiore della mia vita. L’unica cosa buona che ne è uscita è Anna, e adesso Anna non c’è più».
Brian si leccò le labbra, poi deglutì. «Lo sbaglio peggiore della tua vita non è stato sposarmi» ribatté. «È stato dimenticarti Anna a scuola tre giorni fa. Ecco qual è stato lo sbaglio peggiore della tua vita, Julia. Perdere nostra figlia. Farla morire».
Ci sono dissidi che si compongono con relativa facilità, altri un po’ meno. In alcuni casi si rende necessaria una terapia familiare. E poi ci sono gli strappi irrimediabili. Brian e Julia erano arrivati a quel punto, e lo sapevano entrambi. In parte era per la gravità delle parole che si erano detti, ma soprattutto per il fatto che le pensavano veramente. Julia non poteva negarlo: aveva già dichiarato di volere il divorzio e, quando si giunge a quel punto, affermare che sposarsi è stato un errore è quasi consequenziale. Quanto a Brian... Be’, se Anna non fosse mai più ricomparsa, non era del tutto campato in aria asserire che era stata lei a farla morire.
Julia non sapeva che cosa fare: puntualizzare o lasciar correre? Gridare a Brian che lo odiava o voltargli le spalle e non rivolgergli più la parola?
A salvarla fu la suoneria del cellulare.
Era l’ispettore Wynne.
«Signora Crowne?» disse. «Ha letto i giornali?»
«Sì» rispose Julia. Guardò Brian. Non voleva che sentisse la telefonata. Non voleva più condividere niente con lui. «Un momento solo, mi scusi». Andò in sala da pranzo e chiuse la porta.
«Sono andata a far benzina e ho visto il Daily World» disse Julia, abbassando la voce. Le parve di sentire uno scricchiolio e immaginò Brian dietro alla porta a origliare.
«Mi dispiace. Ci mancava solo questo».
«Resisterò».
«Volevo chiarire che non siamo stati noi a parlare con la stampa» disse l’ispettore. «Ho parlato con tutti i membri del mio team e me l’hanno confermato. Non ci comportiamo in questo modo».
Julia si rese conto che l’ispettore non l’aveva chiamata per consolarla – esulava dal suo ruolo – ma per mettere in chiaro che lei e il suo gruppo non c’entravano niente con la fuga di notizie. A Julia quell’ipotesi non era passata neanche per l’anticamera del cervello. Il dubbio forse le sarebbe venuto se si fosse chiesta come avevano fatto i giornalisti a sapere del ritardo ma, fino a quel momento, non se lo era ancora domandato. Era troppo scioccata da quell’articolo e poi dal reporter in agguato sulla porta di casa. Non si capacitava di essere finita al centro dell’attenzione mediatica, che dalla bambina scomparsa – forse rapita, forse uccisa – si era spostata verso la madre degenere. Succedeva di frequente che i toni dei giornalisti da comprensivi diventassero accusatori: avrebbero potuto impedire che succedesse.
Il motivo era che molti avevano bisogno di convincersi che era stata colpa dei genitori – della madre, nel caso specifico – per tranquillizzarsi sul fatto che a loro non sarebbe mai capitato nulla di simile, che la loro prole era immune da certi pericoli, perché loro erano più bravi e più attenti. Se Anna era sparita perché la madre lo aveva in qualche modo permesso, perché era una cattiva madre, voleva dire che i loro figli erano al sicuro, visto che loro invece erano bravi genitori. Meglio puntare il dito contro una madre snaturata, in una società che non era più come una volta, che accettare di non avere alcun controllo sulla casualità del mondo. Sentirsi impotenti è terribile e se c’era chi aveva bisogno di proteggersi illudendosi di poter impedire che ai propri figli succedessero brutte cose, buon per lui.
«Da chi potrebbero aver avuto l’informazione? Si è fatta un’idea?» domandò l’ispettore Wynne.
«No» rispose Julia. «Ma lo sapevano in tanti: il personale della scuola, gli altri genitori... Potrebbe essere stato uno di loro».
«Cercheremo di appurarlo. Non che a questo punto si possa rimediare».
«Può influire negativamente sulle indagini?» si informò Julia. «Può renderle più difficoltose?»
«Non direi» rispose la Wynne. «Anzi, una maggiore pubblicità potrebbe facilitarle. Per lei dev’essere stato un brutto colpo, però. Se posso fare qualcosa...»
«C’era un giornalista davanti a casa nostra, poco fa» le spiegò Julia. «Non so se ci sia ancora. Nel caso, potreste allontanarlo, per favore?»
«Mando subito qualcuno».
Julia guardò la credenza, su cui era posato un portafoto con due ritratti, uno di Anna e l’altro di Edna e Jim. Accanto, c’erano una foto di lei e Brian in vacanza in Turchia e un’istantanea dei suoi genitori il giorno delle nozze. Adesso suo padre era morto, sua madre era malata, Anna non c’era più, e lei si stava separando da Brian... La sua famiglia era a rischio di estinzione.
A meno che, ovviamente, Anna non fosse viva e riuscisse a diventare grande e farsi una famiglia in qualche Paese lontano. Ma, anche così, per certi versi sarebbe stato lo stesso. La sua famiglia non esisteva più...
«Avete scoperto qualcosa di nuovo?» chiese Julia. «Avete trovato il bidello?»
Il silenzio dell’ispettore Wynne fu eloquente. «No» rispose dopo un po’. «Non l’abbiamo trovato. Qualcosina in più abbiamo scoperto, però. Si chiama Lambert, Julian Lambert, non risulta intestatario di veicoli, ma è in possesso della patente di guida. Quindi stiamo controllando se abbia preso un’auto a nolo. Abbiamo contattato varie agenzie di noleggio, ma finora non abbiamo scoperto niente».
«Tutto qui?» si meravigliò Julia. «Come si fa a scomparire nel nulla in questo modo?»
«È insolito» ammise la Wynne. «Lo troveremo».
«C l’ha lui Anna, me lo sento» disse Julia. «Non può che averla lui. Non avrebbe fatto perdere le tracce, giusto? Ci sarà un motivo per cui nessuno sa niente, no?»
È stato lui, pensò Julia. La polizia lo rintraccerà e libererà Anna.
«È sospetto, sì» ammise la Wynne. «Ma non tiriamo conclusioni affrettate. Ci preoccupa anche la scomparsa di suo suocero. Non siamo riusciti a rintracciare neanche lui».
«Non dà notizie di sé da parecchio» replicò Julia. «Penso che Brian e sua madre non ne sappiano niente».
«Già» disse l’ispettore. «Ma da qualche parte dovrebbero risultare residenti, sia lui sia la signorina Wilkinson...»
«La signorina Wilkinson?» chiese Julia. «L’insegnante?»
«Esatto» rispose la Wynne. «Abbiamo contattato la scuola, che non conosce il suo attuale recapito. Nessuno di quelli con cui abbiamo parlato ha idea di dove sia. Anche lei è irreperibile».
«Pensa che potrebbe esserci un nesso con la scomparsa di Anna?» chiese Julia. «Capisco sia strano non riuscire a rintracciarli, ma personalmente non vedo che cosa c’entrino con mia figlia».
«Per ora neanch’io» ammise la Wynne. «Ma in questi casi tutto ciò che contiene qualche anomalia va preso in esame. Occorre esplorare ogni possibilità».
«Si saranno trasferiti all’estero» suggerì Julia.
«In genere le persone lasciano tracce» replicò l’ispettore. «Dichiarazione dei redditi, conti correnti, anagrafe... Di solito non incontriamo tanta difficoltà a capire dov’è una persona». Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «A meno che, naturalmente, questa non voglia deliberatamente rendersi irreperibile, per qualche motivo».
«Per qualche motivo» ripeté Julia. «Per esempio...»
«Gliene posso citare diversi» la interruppe la Wynne. «Il signor Crowne aveva qualcosa da nascondere, per esempio, forse una relazione con una studentessa minorenne, e la Wilkinson era sua complice, oppure totalmente succube. Potrebbero essere stati scoperti e avere deciso di darsi alla macchia».
«Non credo proprio. Voglio dire, io Jim l’ho conosciuto. Non era il tipo». Jim Crowne non era un pedofilo, Julia ne era sicura. D’altra parte, non si sa mai. Certo, non si sa mai.
«Saremmo più tranquilli se riuscissimo a parlargli» insistette la Wynne. «Se diramassimo un appello, gli chiedessimo ufficialmente di presentarsi, lei avrebbe obiezioni?»
Julia era titubante. Per lei non sarebbe stato un problema, ma forse per Brian sì. Per Edna sicuramente.
«Non lo so» disse Julia. «Ne parlo con mio marito».
«Ritengo sarebbe importante» insistette la Wynne. «Spero non abbiate nulla in contrario. Perché, vede, se lo riterremo utile alle indagini, procederemo d’ufficio».
Dunque non mi stai chiedendo il permesso, pensò Julia. Tanto valeva dire di sì. Se poteva essere utile per ritrovare Anna, chissenefrega delle sfuriate di Edna.
«Va bene» disse. «Procedete pure. Ha bisogno di altro, ispettore?»
«Per ora no, grazie» rispose la Wynne. «Nel caso, la richiamo. Manderò un agente ad allontanare i giornalisti, ma le consiglio di non uscire, almeno per oggi. Non si faccia vedere».
Lo disse come se per lei stare in casa fosse una prospettiva piacevole, confortante. Come se la casa fosse un luogo sicuro in cui rifugiarsi nei momenti di crisi. Forse per l’ispettore Wynne era così, ma per Julia no. Per Julia casa voleva dire il ricordo costante di Anna e del fallimento del suo matrimonio.
Dove altro poteva andare, però?
«Va bene» rispose. «Seguirò il suo consiglio».
«Be’» disse Brian. «Mi fa piacere che tu sia qui. Peccato che ci sia voluto questo per vederti».
Suo fratello Simon posò la valigia e incrociò le braccia. Era più alto di Brian, quasi uno e novanta, e più magro. Stava perdendo i capelli e aveva il viso smunto e due rughe che dagli zigomi scendevano fino alla mascella. Sembrava un attore che interpretasse un ufficiale della seconda guerra mondiale: severo ma distinto, un gentiluomo.
«Sono qui per aiutare» replicò. La voce era simile a quella di Brian, ma più profonda, più ricca, con un lievissimo accento americano. «Sono tuo fratello».
Brian ostentò indifferenza, ma Julia capì che era disperatamente contento di vedere Simon e disperatamente triste per la rarità dei loro incontri. Non riusciva a mascherare il bisogno di approvazione, compagnia, amicizia. Adorava Simon, forse perché se n’era andato prima di perdere l’ascendente che tutti i fratelli maggiori hanno su quelli più giovani.
Julia intuì i traumi che aveva subito Brian, quanto doveva essersi sentito abbandonato dal padre e dal fratello, che lo avevano lasciato solo con la madre. Non era stata una bella vita. Per esprimersi come avrebbe fatto la psicoanalista di Laura, Brian aveva gli armadi stipati di problemi per il futuro.
Simon si rivolse a Julia. «Mi fa piacere vederti» disse. «Peccato che le circostanze siano queste. È una storia terribile».
«C’è un sospettato, perlomeno» rispose Julia. «È già qualcosa».
Simon inclinò la testa di lato. «Oh. Potete dirmi qualcosa di più?»
Brian gli spiegò del bidello e, nel farlo, si risollevò leggermente.
«Mi sembra una pista promettente» osservò Simon. «Incrociamo le dita». Cercò lo sguardo del fratello. «La mamma come sta?»
«Bene. Sta bene. Sai com’è fatta».
«Sì. Anche se non la vedo da un po’».
Brian si strinse nelle spalle. «È sempre uguale. Prepotente».
Si relazionavano con una strana miscela di familiarità e distanza. Avevano tanto in comune – erano gli unici al mondo a conoscere Edna in quanto madre, tanto per cominciare – ma ignoravano un sacco di cose l’uno dell’altro. E Simon se n’era andato. Questo fatto restava sospeso fra loro, tacita accusa di tradimento da parte di Brian, tacita replica di autodifesa per Simon. Ascoltandoli, Julia si chiese che cosa fosse successo esattamente per convincere Simon a partire e – ancor più interessante – che cosa avesse provocato in Edna tanto odio per Laura.
«Pensi di andarci?» domandò Brian. «Pensi di andare a trovarla?»
«Non mi ha invitato» rispose Simon. «E non mi va di presentarmi così, senza preavviso. Potrebbe prenderla male».
«Avete un sacco di cose da raccontarvi» disse Brian.
«Sì, ma non credo che abbia voglia di parlare con me». Simon sorrise. «A meno che non sia cambiata».
«Non è cambiata».
«Allora si limiterà a ricordarmi che ho fatto una pazzia a sposare Laura e a lasciare l’Inghilterra. Non credo sia pronta a discutere in maniera costruttiva degli errori che abbiamo entrambi commesso. Eppure è passato tanto tempo, potremmo anche metterci una pietra sopra...»
«Sì...» concordò Brian. «È tua madre, in fondo».
«Lo so» replicò Simon. «Purtroppo non so quanto conti, ormai, quanta importanza io dia a questo fatto. Sono stato bene senza di lei in questi ultimi dieci anni e farla uscire dalla mia vita non è stato facile. Farla rientrare... non è una prospettiva che mi alletti, devo dire. Sono venuto per te, Brian, per darti tutto il sostegno che posso. È l’unico motivo». Raccolse la valigia. «Ho preso una camera all’Apple Tree Hotel. Devo andare a confermare la prenotazione e ho bisogno di riposarmi un po’: il viaggio è stato lungo. Chiamatemi quando volete. Ditemi che cosa posso fare».
«Grazie» disse Brian.
Julia si alzò in piedi. «Vado a prendermi da bere» disse. «Ci vediamo, Simon».
In cucina, si versò un bicchier d’acqua. Non aveva sete, ma non era per bere che si era allontanata: voleva lasciare soli i due fratelli. Si sentiva di troppo, testimone di qualcosa che non aveva diritto di vedere. Sapeva che nel loro passato c’era un’ombra, ma non aveva capito quanto importante fosse e quanto avesse contaminato il loro rapporto. Era evidente che si volevano bene – l’adorazione di Brian era chiarissima e il fatto stesso che Simon si fosse messo in viaggio dagli Stati Uniti dimostrava il suo attaccamento – ma c’era qualcosa fra loro che si era deteriorato irrimediabilmente.
Julia sentì chiudere la porta di casa e si chiese se avrebbe mai scoperto che cosa era successo veramente.