L’appartamento stretto, cinquantadue metri quadri, arredamento scarso e muffa su alcuni angoli. Si entra e c’è la cucina, con la stufa che attrae le mani. Da lì poi altre due stanze. Una per dormire, una per lavorare. Il lusso di un bagnetto abusivo ricavato nella camera grande degli incontri. Un lavoro pagato con baratto ad un cliente titolare di un’impresa edile.
Ogni volta che lui ritorna per fare l’amore passa da lì anche solo per sciacquarsi le mani e osserva che tutto sia a posto, con un po’ di compiacimento. Tocca con un piede la tazza del water per vedere che non si muova. Sposta la tenda della piccola vasca e guarda che non ci siano spaccature nello stucco. Poi ritorna nella stanza da letto a fare quello di cui ha un po’ voglia.
La voglia la provoca Renata, che non è nome d’arte. È una donna di quarantuno anni, puttana da quando ne aveva la possibilità. Puttana come la madre, e come la figlia Piera, in arte Rosa.
Rosa ha sedici anni e spia dal buco stretto del muro che collega le due stanze con i letti. Due letti grandi composti da reti e materassi singoli. Nella stanza da dove adesso sta osservando ci dormono in tre.
Renata, Rosa e sua sorella Angelica, tredici anni.
Angelica perché quando è nata guardava il soffitto, e quella cogliona della suora in sala parto aveva detto che secondo lei guardava il Signore nostro Iddio.
È una casa con tre donne in cui ogni giorno passano tanti uomini. Quando gira bene venti. Ma nessun uomo ci dorme, nessuno si fa preparare la cena. E la sera in cucina, davanti alla stufa d’inverno e vicino alla finestra d’estate, ci sono soltanto loro tre che mangiano attorno al tavolino, guardate a vista dall’unico maschio, una fotografia di Biagio Cavallero in tenuta d’armi. Loro marito e padre.
Quello che Rosa vede dal buco nel muro è un nuovo cliente, è il motivo per cui deve guardare e imparare. Perché oggi lo cura la madre, domani toccherà a lei.
Costui è un marcantonio di Alessandria, in città per lavoro e consigliato da un amico che frequenta la casa da un paio di anni. Renata si è abbassata la vestaglia da lavoro, quella semi trasparente, e gli sta facendo vedere il seno grosso e cadente. Quello ci si tuffa come su un abbeveratoio, pastrugnando e leccando. Lei gli dice di stare calmo, che è troppo focoso, che così la consuma. Lui è incitato da quella finta ritrosia e ci mette più impegno. Intanto Renata gli ha iniziato a sbottonare i pantaloni e gli ha tirato fuori il cazzo, muovendo su e giù la mano per farlo preparare come si deve.
Quello si vede che ha foga, e così rapido le scoperchia la vestaglia e studia per toglierle le mutande. Lei gli ferma le mani, faccio io. Non può rischiare che il buzzurro gliele rovini. Sono mutande che, a detta di quello del banco di Porta Palazzo, vengono direttamente da Parigi. Renata ne ha comprate dieci per mille lire. Un investimento. Le sfila poggiandole sulla parte periferica del letto che verosimilmente non verrà stropicciata.
Lui le è dentro, sbuffa e muove i talloni come a cercare il fondo, somigliando a un neonato che impara a gattonare. Lei gli dice di fare piano, che è un toro, che è una bestia, che così la maltratta. Lui viene imprecando in dialetto, e ci sono cinque secondi poi per rifiatare uno sull’altro, il caldo dei corpi che si toccano e Renata che gira lo sguardo verso dove sa esserci lo spioncino tra i mattoni. È un contatto visivo che sempre a Rosa smuove qualcosa, un’intimità inspiegabile che resiste. Un giudizio.
Renata sposta l’uomo di lato, quello a pancia in su respira ancora forte e quasi parrebbe voler addormentarsi.
Lei gli dà un buffetto sulla guancia e gli dice che l’ha fatta godere tanto. Lui sorride, senza darlo troppo a vedere. Ci crede.
« Se vuoi farne un’altra però lavati. Se vuoi fumare apriamo un cicinino la finestra, sennò ci vediamo la prossima volta. Torni a trovarmi, vero? »
Rosa si toglie dal punto di osservazione e si mette a sedere sul letto. La sorella Angelica è china sul tavolo a studiare, con i tappi nelle orecchie per non essere disturbata. Rosa la osserva, la schiena magra dietro il largo telaio di una sedia di legno che la comprende come il trono di una regina bambina. I capelli raccolti in una treccia, le gambe unite e composte, il busto diritto. Si muove lenta arrivandole alle spalle e spia di nuovo, apertamente questa volta, nei quaderni disposti sul legno.
Angelica percepisce la sua presenza ma non volge lo sguardo.
« Cosa vuoi? »
Il tono è un poco più alto del dovuto, perché ancora non si è abituata ad usare i tappi per le orecchie, un regalo di una sua compagna di scuola con cui si scambia confidenze.
« Cosa stai studiando? »
« Aritmetica. »
Rosa rimane sulle spalle della sorella a osservare linee, numeri, segni indecifrabili per lei. Ipnotizzata e stupida.
« Vuoi aiutarmi? »
Qui Angelica toglie il tappo dall’orecchio destro e si gira finalmente verso la sorella. Il viso lentigginoso ha il ghigno della sfida.
« Ma crepa. »
Rosa le rifila un ceffone sulla nuca, Angelica subisce senza reagire. Soltanto si alza lentamente dallo scranno e conquista la parete più vicina, aderendo con l’intera schiena. In difesa.
« Lasciami stare. »
« Altrimenti cosa fai? »
« Urlo, e il cliente non torna più. »
« E sai cosa me ne frega a me. »
« Ah sì, certo. Così se perdiamo clienti tu poi cosa vai a fare? La sarta? »
« Zitta. »
« Oppure la scienziata? Dimmi un po’ quanto fa due per due. »
« Zitta, bagascia. »
« Scusa, è vero. Due per due è troppo facile. Sei per sette? Sai contare fino a sei? »
« A te ti dovevano chiamare sciagura, altro che angelica! »
Una risata soffocata nei lineamenti, il quaderno tenuto in grembo. Lo sguardo feroce verso Rosa.
Un quadro senza solidarietà interrotto dall’arrivo nella stanza della madre.
« Be’, che fate voi due? Vi infastidite? Neppure i gatti fanno come voi. »
Rosa è analfabeta. Piera è analfabeta. Non ha avuto tempo, così si dice e così le hanno detto.
Sua mamma l’ha messa a praticare il mestiere che aveva tredici anni, era già formata. Piccola, bionda, un seno capriccioso e un corpo adatto a dare piacere. Il prodotto delle cure amorevoli della madre.
Per maritarla? No. Amore, facendosi pagare.
La dinastia poteva proseguire, con buona pace degli uomini di casa. Quelli buoni a fare niente. A farsi ammazzare in guerra, come il padre di Rosa, che addirittura se ne era andato in montagna a fare il matto. Ammazzato con un colpo di fucile da un tedesco. Bum. Un colpo e nessuna gloria. Lo avevano saputo tanti anni dopo. E loro che pensavano stesse facendo carriera, che avrebbe portato dei soldi. O almeno la gloria. Tanti nel dopoguerra si erano vantati di avere l’anima morta per la giusta causa. Loro nemmeno quello. Avevano dovuto aspettare il millenovecentocinquantadue per sapere la verità. E nel millenovecentocinquantadue ormai non importava più. C’era intanto stata la vita da proseguire.
Renata ha sempre e solo fatto una cosa, quella che le aveva insegnato sua madre.
E lei si era sentita in dovere di trasmettere il mestiere a sua figlia.
Sono le nove di mattina, Angelica è andata a scuola. Rosa e Renata sono nella cucina. Rosa sta piangendo, ha paura.
« Disgraziata, piangere adesso è inutile! »
La figlia si tiene le mani in grembo, stritolandole e raschiando pellicine e unghie.
« Smettila di torturarti, ti rovini soltanto. »
Le si avvicina premurosa e separa le mani.
« Per qualche settimana solleva su e giù la bombola del gas. Devi affaticarti, devi sudare. Corri, salta, fai le capriole. Ti preparo qualche intruglio con il prezzemolo. Così può darsi che lo caghi via senza andare da Ersilia. »
« Non mi fare andare da Ersilia, non voglio. »
« Se non ci riesci da sola non c’è altro modo. Non fare la bambina. »
Ero una bambina.
Ersilia è una donna del quartiere, sessantenne. Sei o sette figli, non si sa bene con esattezza. E una specialità, quella di sapere praticare gli aborti. In casa, con alcol, aceto, due stracci e uno spillone di ferro. Non si conosce molto di quella pratica. Ma le voci tra le donne girano, alcune certezze ci sono: provoca immenso dolore, e qualcuna ci è rimasta morta dissanguata. Se hai fortuna poi non resti più incinta. Toglie tutto, l’Ersilia, senza andare troppo per il sottile. Raschia via, un lavoro pulito.
È pure orba da un occhio, la vecchia megera, un aspetto che farebbe persino ridere. Ma nessuno quando entra in casa sua ha voglia di ridere.
Da lei non vanno soltanto le donne che praticano il mestiere. Anche impiegate, studentesse, la panettiera vedova per non dare scandalo.
« Ti faccio fare da quella bestia di Maurizio, quello di Moncalieri. Con il gancio che si trova ti può dare dei bei colpi. Lo dobbiamo aizzare, lo devi saper scatenare quello lì. Hai visto come mi monta, quando ha la fregola? Mi tocca mettermi la crema quando mi entra nel culo. Bisogna che chiedo all’Ersilia se è meglio che ti faccia davanti o dietro. Quello che serve di più. Se è necessario ci mettiamo in due e lo guido io. Io lo so cosa gli piace di più, so come stuzzicarlo. »
« Se prendo la febbre? Mi metto nuda in campagna mentre piove. »
« Ecco, brava, così mi muori tu. Bella idea del cavolo. Vuoi forse lasciarmi sola? È questo che vuoi? »
« Mi berrò la conegrina. »
« Ma smettila, stupida. Anzi, la conegrina usala per pulire il bagno, che oggi con la scusa di questa sciagura non hai ancora combinato niente. »
Si separano, nel silenzio della casa tagliato soltanto dalle imprecazioni sottovoce di Renata, e i sospiri che non sono più pianto di Rosa.
Quando bussano alla porta Rosa corre in cucina, cercando di capire le istruzioni. La madre si batte le mani sulle cosce dandosi da fare.
« Sarà il terrone, mi sono dimenticata che giorno è oggi. Devo ancora preparargli la busta. »
« Metto su il caffè? »
« No, no, che magari lo ha già preso da un’altra parte. Lascia che ce lo chieda lui, se proprio vuole. Risparmiamo. »
Il terrone bussa ancora, Rosa gli apre.
« Signore belle, buongiorno. »
Entra in casa chiudendosi da solo la porta alle spalle. Rosa si è già diretta verso le camere.
« E che ha oggi la piccolina, ha fretta? L’ho spaventata forse. »
Sorride, guardandosi intorno. Prova ribrezzo per quel luogo. Quel quartiere e quella città. Forse anche quella latitudine. Rimpiange spazi assolati e pomeriggi senza doversi impiegare, giù in Puglia.
La chiamata in servizio al Nord aveva gratificato un’intera famiglia, e spaventato lui. Ma oramai erano sei anni che stava lassù, si era persino sposato una di Torino.
Non certo una di quelle piemontesi con la squacchera, che tanto gli avevano fatto schifo quando si era iniziato a guardare intorno. Sembravano vecchie con il mal di denti sin da ragazzine. Certo rimpiangeva sempre le femmine del Sud, piene e carnose, scure. La differenza di gusto tra la polenta e la mozzarella. Ma la sua Beatrice era una bella ragazza con tutte le cose al loro posto. Uno sguardo intelligente, un corpo ben fatto.
Il padre con l’automobile.
È vero, uno dei motivi per cui l’aveva corteggiata era la sua posizione. Ma non il solo. In quel momento, incredibilmente, poteva permettersi degli slanci di passione. Avrebbe poi dato la colpa al sangue giovane.
Lei non aveva resistito al fascino della divisa, ai baffi pronunciati, alle mani grandi e calde. L’aveva fatta sua in pochi mesi, vincendone la ritrosia e l’iniziale diffidenza per quel maschio che veniva da lontano e da cui il padre l’aveva più volte ammonita di stare alla larga.
« Quelli là... »
Ma in fondo era pur sempre un rappresentante delle forze dell’ordine, e persino il padre severo aveva convenuto che avere in casa un poliziotto non sarebbe stato un così cattivo affare. E già in un paio di occasioni la divisa era riuscita a essere un buon servigio.
« Nessuno ti deve più rompere i coglioni. »
E così era stato.
Quella stessa frase era stata pronunciata nella cucina di Renata, due anni prima.
« Ora ci sono io. Quello là non si farà più vedere. »
Quello là era Benito, un travet del crimine che riscuoteva per conto della mala locale, al momento scarsamente organizzata. Renata aveva creduto per qualche minuto di poter guadagnare di più, finalmente libera dalla tassa mensile della protezione. Ma non aveva capito che la tassa passava soltanto di mano in mano e anzi, aumentava di prezzo. Ora c’era lui. E tanto doveva bastarle come spiegazione. Non chiese molto altro.
Adesso lei e Capramozza, il poliziotto protettore, stanno in piedi nella cucina. Renata ha posato sul tavolo la busta con i soldi. Lui l’ha notata, ma senza fretta di accaparrarsela. Da quella casa finora non erano mai arrivati problemi, rendeva bene e non aveva dovuto intervenire troppo con il vicinato. Magari fossero state tutte così. Inoltre, sa che Renata ha una buona macchinetta del caffè. Aspetta di farselo domandare, ma quella rimane in silenzio.
« E che avete oggi? Vi è morto il gatto? Manco un caffè mi offri? »
« Certo, mi devi scusare. Ma oggi qui è calata la sfortuna e ce ne dobbiamo ancora rendere conto. »
« Che è successo? Mi tocca intervenire? »
« Ma no, ma no! Potessi risolvere tutto con la rivoltella. Qui ci vorrebbe l’intervento del Signore. Ma proprio lui ha deciso di darci fastidio. »
Rosa ascolta la conversazione e scruta i due da un altro buco del muro, quello che collega la camera da letto con la cucina. Da ogni camera si può guardare in un’altra. Persino dalla camera del lavoro si può spiare il bagno, una correzione che avevano fatto in favore di un cliente vizioso, cui piaceva vederle fare i bisogni ma senza essere visto. O fare finta di.
« Che cosa mai è successo, allora? È venuto qualche scocciatore? Vi siete ammalate? »
Dicendo questo Capramozza si guarda attorno, come se una malattia potesse palesarsi negli arredi o sui muri. Controlla le mani, cercandovi traccia di contaminazione.
« Non mi fate scherzi, eh. »
Renata osserva quei gesti. Sono i gesti di un uomo di ventotto anni che ha imparato i giochi degli adulti tardi e troppo in fretta, e che a quelle regole deve attenersi. Non è mai stato ragazzo, ricorda sicuramente la mamma e la pasta al forno della domenica. E chissà l’insofferenza in cosa si è trasformata. Ferite lievi cui la vita costringe a reagire per moltiplicazione, facendole divenire infette, purulente, e creando sovente uomini incompleti.
« Rosa mi è rimasta incinta. »
« Mannaggia alla Madonna. »
A tutto c’è un rimedio.
Capramozza era nato nel 1930 a Foggia, ultimo figlio di contadini. Anche lui sarebbe finito condannato all’ergastolo dei campi, ma una circostanza fortuita e un po’ di scaltrezza lo aiutarono a schivare la consuetudine e il destino.
C’era infatti un cugino di sua madre, Olivio, scapolo e senza figli, che aveva ereditato una discreta fortuna durante la guerra. Nessuno era mai riuscito a collocarlo da un lato o dall’altro della barricata. Faceva affari con i tedeschi? Con gli alleati? Con i malandrini di Andria o Cerignola?
All’indomani del conflitto riuscì comunque a preservare quasi tutta la ricchezza di famiglia, continuando a vivere nell’agio e nel rispetto dei concittadini. Prestava soldi.
Le visite nei suoi confronti da parte dei familiari si rivelavano perlopiù delle scontate missioni alla ricerca di aiuto economico. Elemosine, raccomandazioni, suggerimenti. La grande casa disposta su tre piani accoglieva sempre persone, mai però all’ultimo, dove vi era l’appartamento di Olivio, appunto.
Nei pochi incontri che avevano avuto si era dimostrato sempre curioso e gentile nei confronti del ragazzo. Gli aveva regalato qualche moneta, dei libri, una catenina d’argento. Così non fu strano per il nipote decidere di andare a visitare lo zio, un pomeriggio che si trovava vicino a casa sua per delle altre faccende.
Chissà che non ne fosse venuto via con qualche denaro, o anche solo un souvenir. Certo, era una confidenza forzata, quella che si accingeva a praticare. Senza avvisare, senza chiedere. Ma si era accorto di un certo ascendente nei confronti dell’uomo, e a vent’anni si è mantenuta una giusta ferocia adolescenziale per cui si mangia se si ha fame, si ride se si è contenti. Si ruba quando c’è l’occasione.
Non incontrò al piano terra l’anziana governante Addolorata.
Decise di entrare comunque, per accorgersi di essere solo. La tentazione di infilare qualcosa nei calzoni era gustosa, ma si trattenne. Perdere la fiducia e l’attenzione del cugino Olivio sarebbe stata una tragedia per lui e la sua famiglia. L’anno precedente aveva provveduto ad esempio lui da solo al pranzo di Natale. C’era stata persino la cioccolata, a tavola.
Capramozza censurò le mani curiose e si decise a varcare una soglia fino ad allora proibita. Quella delle scale che portavano all’ultimo piano.
Se fosse stato beccato a ficcanasare avrebbe pur sempre potuto dire di essersi preoccupato. Che temeva fosse successo qualcosa di spiacevole allo zio. Che si stava prodigando.
Trovò la porta dell’appartamento socchiusa, e anche quello gli parve strano, seppur fosse la prima volta che si trovava lì davanti.
La spinse lentamente ed ebbe la tentazione di chiamare lo zio Olivio, chiedere se ci fosse qualcuno. Non era spaventato. Aveva già visto più di un uomo morto, la povertà e la morte si frequentano.
Perché Capramozza, mentre saliva l’ultima rampa di scale, era sicuro di stare per scoprire un cadavere. Lo zio era stato ammazzato. Una rapina, o una resa dei conti. C’erano di sicuro di mezzo i soldi. Lo strozzino è un mestiere che attrae rispetto e odio negli stessi occhi.
Forse anche per questo motivo la voce gli rimase in gola, e non chiamò nessuno, e nemmeno si annunciò sull’uscio. Semplicemente varcò la soglia e iniziò a sentire dei bisbigli. Voci intime. Una era di suo zio Olivio.
Non era morto.
L’altra di un ragazzo giovane, uno che aveva già visto in giro ma non si ricordava bene dove. Forse al mercato. Non ebbe il tempo di ripescare dalla memoria quel volto, perché la scena attuale occupò tutto lo spazio possibile nella sua testa, nei suoi occhi e nel suo cuore, così che iniziò a balbettare.
I due iniziarono a baciarsi. Un bacio lento, caldo. Avvinghiati nelle braccia l’uno dell’altro, i baffi dello zio che si scuotevano, spostati qui e là dal naso dell’amante.
Capramozza indietreggiando capì subito di avere assistito a qualcosa di tremendo.
Più di un omicidio. Perché probabilmente lo zio Olivio, come gli diceva suo padre, aveva sulla coscienza qualche cadavere. Ma tutto era perdonabile e a tutto c’era un rimedio.
Ma a quella cosa no.
Così mentre scendeva le scale silenziosamente, con il petto sudato e attento a non poggiare troppo i talloni, scoprì di stare maneggiando anche un’altra idea, meno nobile ma altrettanto efficace. Aveva trovato un tesoro.
« Eccome, cazzo! »
Ritornò a casa di corsa, facendo balzi lunghi, e intanto la sua idea montava, lievitava, diventando una verità.
Chiese udienza allo zio qualche giorno dopo. Aveva preparato un discorso netto, preciso, non violento. Non ce ne sarebbe stato bisogno.
Fu così.
Lo zio gli chiese cosa avrebbe voluto in cambio del silenzio, non dimenticando di rammentare al nipote che tanta impertinenza avrebbe significato la morte, in altre situazioni. Rimaneva calmo, e Capramozza si stupì della maniera di affrontare quella contingenza tanto faticosa. Se ne sarebbe ricordato, in futuro, come un insegnamento.
Gli rispose che necessitava di un lavoro.
« Ma chi lo dice a tuo padre che gli tolgo due braccia come le tue dal campo? »
« Proprio per questo motivo mi devi trovare un posto che gli faccia dimenticare il dolore doppio alla schiena. »
La raccomandazione era arrivata in fretta, con risolutezza. Stipendio fisso, la schiena salva. Certo, c’era il rischio che qualche delinquente ti piantasse un fendente in pancia. Ma Capramozza era bravo a schivare i fendenti, e la delinquenza la conosceva bene.
Si sapeva fare i fatti suoi, inoltre. Dote sempre apprezzata quando si passeggia nelle terre di mezzo delle vicende umane. Aveva capito il valore delle cose non dette, che superava di gran lunga quello delle cose rivelate. I silenzi coprivano le parole e dalle parole scappavano, nascondendosi. Un segreto valeva oro.
Dopo un anno di servizio, nel 1952 venne trasferito al Nord, perché la celere aveva bisogno di nuove braccia cui affidare la sicurezza delle città, e le città in cui c’erano più disturbi erano al Nord.
Torino stava diventando un porto avventuroso per tante persone.
La città della Fiat in pochi anni aveva accolto trecentomila abitanti in più, superando la quota del milione. Quasi tutti legati alla fabbrica delle automobili, quasi tutti meridionali. Ma lui non aveva dovuto costruirsi nessuna valigia di cartone.
Il posto fisso nella polizia era di certo un passo avanti lussuoso nell’albero genealogico della sua famiglia. I genitori si commossero e gli altri fratelli vennero morsi dall’invidia.
Però il posto fisso era pur sempre un lavoro, e al Nord Capramozza era lontano dalla sua terra e dallo zio Olivio. Dal maresciallo che lo aveva fatto entrare sotto raccomandazione, e dalle strade conosciute di Foggia. La vita costava di più ma lo stipendio era lo stesso. E non era alto.
Un suo collega, davanti a un amaro, era notte e loro avevano smontato dal turno, gli disse che si era messo ad arrotondare con dei servizi per conto di alcuni suoi paesani.
« Arrotondare come? »
« Lavoretti, cose semplici. »
E così anche Capramozza in seguito si era messo ad arrotondare tramite dei lavoretti. Alcuni più semplici di altri. Era un uomo in divisa, non potevano certo impiegarlo per faccende troppo sconvenienti. Ma era furbo, e di stazza importante. Sbrigativo, non propenso a lasciarsi cullare dal ripensamento. Capì di potersi infilare in maglie larghe, che quella era una città da registrare, in via di assestamento. Era l’America per chi non poteva andare in America. E l’America si sa che è grande, c’è posto assai.
« Torino la bella città, si mangia si beve e bene si sta! »
Si faceva cantare ai bambini degli immigrati, per convincere tutti di quale fosse la terra promessa.
I giri che dalle sue parti erano tenuti saldamente in mano sempre dallo stesso potere, quello malavitoso, qui non si decidevano ancora a prendere padrone. Fu con il tempo che comprese come la prostituzione stesse diventando un affare colossale. Dove c’erano tante persone, c’erano anche tante puttane. La nuova legge che stava per arrivare avrebbe liberato le vacche dalle stalle. Da qualche parte bisognava pur metterle. E poi c’erano le molte case private, che senza troppa pubblicità non erano mai scomparse e che ora sarebbero diventate l’approdo per gli orfani della casa chiusa e della marchetta regolamentata. I prezzi sarebbero aumentati.
Le prostitute, pensava Capramozza, avrebbero benissimo potuto difendersi da sole. Soprattutto quelle che praticavano in casa. Ma gli si imponeva la protezione. E chi meglio di lui sapeva cosa volesse dire proteggere dei cittadini. Ancor più se donne. Così si era sostituito, insieme ad alcuni suoi colleghi, a dei malavitosi di quartiere. In alcuni casi veniva preso un accordo direttamente con il gargagnano, che veniva depotenziato ma a cui si assicurava vita lunga. Perché il garga poteva essere spodestato da qualcuno più prepotente o feroce di lui. E invece nell’abbraccio caldo delle forze dell’ordine, seppur deviate, aveva una posizione più solida. Il meno peggio. Ma significava sopravvivere.
Lui si era preso alcune case in zona Vanchiglia, un perimetro tagliato a croce che lo portava da corso Belgio fino a piazza Vittorio per lungo. E dal ponte di corso Tortona fino ai Giardini Reali per largo. C’erano in quel recinto tre o quattro case, almeno di quelle controllate da lui. Qualcuna non aveva ceduto, perché il gargagnano era uno dalle spalle solide e ben assestato. Non bisognava pestare i piedi proprio a tutti.
Perché appunto c’era spazio, il materiale non mancava. I clienti aumentavano. I padri di famiglia potevano concedersi qualche extra di nascosto dalle loro mogli. Era sempre stato così, e sarebbe andata così anche nella Torino del cosiddetto boom economico.
E poi c’era stata la moglie, questa delicata creatura incontrata durante il servizio. Erano bastati un’occhiata, un sorriso, e poi ritrovarla ancora in quel negozio dove diceva grazie buongiorno e buonasera, diligente. Il negozio, una gioielleria, era del padre. Lì dentro si trovava solo il meglio della clientela torinese. Guanti, cappotti, acconciature fresche di parrucchiere.
Ma gli sguardi di Capramozza erano stati dedicati a Beatrice, timida e impacciata nel raccontargli il tentativo di rapina appena subito.
Il resto era stato tutto semplice. Un piccolo appostamento qualche giorno dopo, un saluto.
« Si ricorda di me? »
Un invito tenue per una bibita. L’appuntamento.
Il matrimonio dopo due anni. Il padre diffidente verso il brutto terrone venuto a prendergli la figlia.
Una vita di lavoro, poi arriva questo qui e me la porta via. La mia bambina.
Eppure andava bene, il destino a volte è un raccolto che si accetta.
Altro invece non funzionava.
Dall’unione non stava arrivando nessun figlio. Non era normale. Ormai erano quasi tre anni che ci stavano provando. Erano giovani e in salute. Lei prendeva tutto quello che il medico le aveva prescritto per facilitare la gravidanza.
Ma non succedeva niente.
Eppure a tutto c’è un rimedio. Così quando Capramozza viene a sapere che Rosa è rimasta incinta, il suo cervello si attiva e prende la strada dritta, abituato a raggiungere l’obbiettivo e a dimenticare i rovi e le pozze.
Pensa che Rosa sia bella, bianca, ben fatta. Come sua moglie. E non sia ancora stata rovinata dal mestiere, tanto è vero che già qualche volta aveva pure ipotizzato di farcisi un giro, con quella ragazzina. Ma non gli andava di mettere l’uccello dove lo mettevano altri. Gli veniva in mente di stare toccando un altro uomo e gli si ammosciava. Così si accontentava di immaginarsi mentre lo faceva con lei. Un gioco economico. La testa e la mano. Spesso gli uomini sono estremamente semplici.
Espone sussurrando la sua idea a Renata.
Quella ascolta e se lo guarda tutto come il figlio maschio che non ha mai avuto. Come se fosse arrivato nel tinello il Papa a benedire la casa e garantire loro disgraziate la salvezza eterna.
Si tocca ovunque, Renata. I capelli, la sottana, mette a fare il caffè e poi sistema le ciotole, le sedie. Smania, non è troppo abituata a elaborare dei piani. Vorrebbe facesse per intero lui, le spiegasse cosa fare e infine la mettesse al corrente. Vorrebbe che la proposta fosse buona, e che senza andare a trattare ci si trovasse d’accordo.
« Che cosa hai in mente? »
« A che punto è? »
« Lo abbiamo appena saputo. »
« Allora manca ancora parecchio. »
« Ci vuol niente a fare il conto, se la natura si comporta bene. »
« Faremo in modo che succeda. »
I due rimangono in silenzio, in piedi davanti alla finestra. Guardano verso il cortile del condominio vicino con i balconi a ringhiera, i panni stesi, i bagni comuni con la porta di legno aperta per arieggiare.
Là fuori c’è il futuro e avrà forse il colore ocra dei muri di Torino. Ma ad ambedue in quel momento pare di aver trovato un’occasione così luminosa da doverla trattare con cura. Una piccola america.
« Devo andare. Ripasso domattina e ne parliamo con più calma. Per ora non dirlo a tua figlia, ci pensiamo domani. Tu fatti un po’ di conti. »
« Certo, certo. Non te lo regalo mica il frutto della mia bambina. »
Capramozza è già di spalle, vicino alla porta. Si volta e guarda minaccioso Renata.
« Senza esagerare. »
Mentre scende le scale comincia a pensare alle parole da usare con sua moglie, e ancor di più con il suocero.
Dovrà parlargliene subito, la sera stessa. A cena. Deve convocarli, a rapporto.
« Ho avuto una bella idea. »
Compiaciuto se la carezza nella testa. Sorride. Ripensa alla faccia di sua moglie e a quella del suocero. Smette di sorridere. Se lo immagina mentre gli espone il piano. Gli occhietti piccoli che si aprono e chiudono, la pelata che suda. Lo sguardo sempre sul punto di confessarti che gli viene da vomitare.
« ’Sto scassacazzo. »
Il suocero è un uomo e vuole diventare nonno. La mancata gravidanza della figlia lo sta mettendo in imbarazzo. Il terrone gli ha trovato una soluzione, anche se non delle migliori. Ma non ci sono tante altre strade, c’è solo da sperare che quella picia sia davvero bella e carina come dice Capramozza. Lui non la vuole vedere. E nemmeno la deve vedere sua figlia.
« Non si devono mai incontrare, siamo intesi? »
Beatrice ha pianto tutto il tempo. Lei vorrebbe aspettare ancora un po’, ma la fanno sentire in colpa, suo padre, suo marito e persino la sorella maggiore la fanno sentire sbagliata, incapace, come se pigrizia e negligenza da parte sua fossero la causa del mancato concepimento.
Danno per scontato che sia lei a non poter avere figli.
Ma lui. Ma lui?
Adesso è tardi, Capramozza ha trovato questa ragazza. Durante una retata, dice. Una prostituta, gli ha confessato di essere incinta.
Chi sarà il vero padre? Le malattie? Perché non me la vogliono fare incontrare?
Altresì c’è un aspetto che la turba, la fa sentire una sfruttatrice, una negriera. Questa povera ragazza verrà tolta da casa sua, portata via dalla madre e fatta covare lontano, in un posto sicuro. Protetta, così dice Capramozza, da un ambiente tranquillo.
A Savona, in casa di un suo cugino, che ’sti terroni hanno sempre mille cugini, come le aveva detto il padre. Ma ora tornano utili, a quanto pare. Soprattutto quelli che vivono sulla costa. Aria buona, il sole. Cose così.
La madre in prestito dovrà andare a Savona e portare in grembo suo figlio, o figlia. Quindi verrà riportata a casa, tornerà a lavorare.
Per lo stesso periodo anche Beatrice dovrà assentarsi dal lavoro e dalla vita pubblica. Farsi vedere il meno possibile in giro. Verrà fatto un annuncio, ma tra qualche tempo. Per amici e parenti, e qualche cliente. Lei si farà vedere in giro con un pancione, useranno un cuscino legato sotto i vestiti. Brevi passeggiate, soltanto utili ad avallare la versione. Saranno in pochissimi a sapere la verità e così dovrà essere per sempre.
Due donne chiuse in casa, in attesa di una menzogna.
La malinconia di Beatrice inizia qui.
Cinquecentomila lire. È la cifra su cui si accordano. Duecentomila subito e il resto a gravidanza conclusa. Il timido tentativo di ulteriore rilancio da parte di Renata è subito troncato dal poliziotto.
« Fosse per me ti avrei dato la metà. Ma i soldi li mette mio suocero, e quello con le puttane come voi non ci sa fare. »
La partenza di Rosa è fissata per il lunedì successivo. La porterà Capramozza stesso, in auto. Da Torino a Savona sono cinque o sei ore, non esiste ancora l’autostrada.
Verrà consegnata al cugino e alla sua famiglia. Si terranno in contatto per telefono, e a Rosa verrà concesso saltuariamente di telefonare anche a Renata e a sua sorella Angelica. Non lo farà mai.
Il cugino riceve centomila lire subito e altrettante gli spetteranno alla restituzione. Il parto avverrà però a Torino. E questo è quanto occorre sapere.
Il giorno della partenza Rosa mette in una borsa tutto quello che ha, e tutto quello che ha sono qualche straccio e un paio di scarpe.
« Lì ti compreremo qualcosa. »
Renata e lei non si parlano dal mattino in cui lo sbirro è tornato per dire loro cosa sarebbe successo, il come e quando. Renata aveva acconsentito. Cinquecentomila lire. Una lotteria vinta.
« Così tua sorella potrà continuare a studiare. »
« E io? »
« Quando ritornerai ti comprerò dei vestiti. »
« Posso andare dalla parrucchiera? »
« Figlia mia, non ti stai mica sposando! Questi soldi li useremo per le cose che ci servono. Sistemiamo un po’ la casa. Andrò dal dentista, che ho la bocca rovinata. Comprerò quaderni e libri a tua sorella. »
« Lei non ha fatto niente. Voglio la mia parte. »
Le sembrava di stare facendo qualcosa di utile e di dover essere premiata.
Riceve uno schiaffo.
E quella è la sua parte, il saluto tra lei e sua madre.
Il viaggio in auto ha l’imbarazzo di un ascensore occupato da sconosciuti. Capramozza si spinge a domandarle se le faccia male la guancia, appena partiti. Sa riconoscere i segni di un ceffone, ne ha già presi e dati tanti. Non ottenendo risposta, borbotta qualcosa poi riprende a seguire la strada. Una premura sprecata.
Nel tragitto fischietta, intona qualche canzone. Le parla di suo cugino e della sua famiglia, celebrandone virtù e rettitudine.
« Ti troverai bene, vedrai. »
Non si trova bene. Il cugino è un fabbro sdentato e ubriacone. La moglie è storpia, cuce e rammenda in casa. Piccoli lavoretti su commissione. Le due figlie femmine, grasse e sgraziate, sono nullafacenti in attesa di marito. Lei dovrà dormire in una camera puzzolente, con le due vacche. Quasi casa sua le sembra un posto da rimpiangere.
Il primo istinto è tentare la fuga. Dove? Ovunque. Ma ha paura. Ed è incinta. Se torna da Renata prende le botte. Se si fa beccare dallo sbirro prende le botte. E in che città l’hanno costretta a trasferirsi? Non sa neanche dove si trova. Liguria. Mare. Genova. Chissà. Un suo cliente le aveva detto tempo prima che un giorno avrebbe voluto scappare con lei in Francia. La Francia dovrebbe essere vicino a Torino, ma non sa se vicino a Savona.
La casa dei suoi prossimi mesi è situata di fianco alla chiesa di San Francesco da Paola. A cento metri c’è il fiume, che finisce dopo un chilometro abbondante in mare.
Chissà se magari dal mare si può arrivare in Francia.
Le due figlie irsute e sudate non fanno altro che carezzarle i capelli, come se fosse una bambola. Non hanno mai visto così da vicino una creatura bionda. Escono sempre insieme per andare a fare la spesa, ogni tanto la portano con loro perché Capramozza ha ordinato di non tenerla troppo chiusa in casa e di farla camminare. Almeno una volta al giorno.
Così quando non si deve andare a fare la spesa si cammina fino al mare. Rosa in mezzo a loro come una piccola bambola. Le due si guardano attorno e squadrano i maschi della città. Ma portandosi in giro Rosa i maschi della città, anche i più sprovveduti, guardano solo la nuova arrivata. Le due cugine comunque sono contente, perché qualcuno di loro si ferma, le avvicina, e loro possono giocare a fare i gendarmi, allontanare i disturbatori. Chi in malo modo, chi con un sorriso, rimandando possibilmente il discorso.
E così Rosa viene portata in giro persino più del richiesto. La mattina vicino al mare, la sera sul corso. Le due sorelle di un quintale la sorreggono, quasi la trascinano da un marciapiede all’altro. Si fanno offrire un gelato, una bibita. Cose mai successe. Si stupiscono ma accettano tutto. La presentano come una loro cugina, facendo soltanto aumentare la curiosità attorno a lei.
Rosa non è mai stata così di frequente a spasso. È infastidita eppure inebriata da tutti quegli incontri nuovi. Scruta i vestiti, gli atteggiamenti mondani, le goffaggini. Intravede vite altrui.
Ha sedici anni, non si può essere seri a sedici anni.
Lei conosce già gli uomini e i loro segreti, ma sempre e solo dallo stesso punto di vista, seppure esclusivo. Lo considera lavoro, abitudine, normalità.
Le cugine ne sono invece attratte. La incalzano, lei non vuole parlare. Loro la trattano male e la minacciano di botte. Allora racconta qualcosa, inventando anche dei particolari di fantasia. Nel letto di sera le sente che si toccano, pensando a quelle confessioni, sente i loro petti capienti e pesanti che soffiano, vede le braccia e le dita cicciottelle che si agitano, le cosce che non resistono. Infine russano, chissà cosa sognano.
Il giorno dopo le chiedono altre avventure, oppure di raccontare ancora quella di ieri, quella che è piaciuta tanto. Ma i movimenti che fanno la notte poi le paiono tutti uguali, anche per intensità. Come se la loro testa potesse contenere solo un certo spazio di languore, quello sufficiente al sollievo animale.
A sedici anni Rosa conosce gli uomini e ne ha incontrati più di cento. L’hanno usata, vezzeggiata per mezz’ora. Pagata, e saluti. Non ha frequentato principi innamorati, cavalieri coraggiosi. La sua esperienza è ancora acerba. Non comprende le sfumature. Del bianco conosce il vuoto e del nero la pesantezza. Potrebbe rubare della cioccolata o ingoiare un uomo.
Al primo piano della stessa palazzina dove è custodita abita una famiglia molto numerosa. Sulle scale ha incrociato lo sguardo con un giovane dal volto gentile, che le ha sorriso. Dal balcone, qualche giorno dopo, le ha fischiato. Un suono dolce, non la stava richiamando come un cane. La stava corteggiando. Una canzone. Lo incontra spesso e mai da solo, lo osserva dal balcone. È marcata a vista e lui lo intuisce, ma si mandano segnali.
Rosa esce di casa nella notte, quando tutti russano. Per la prima volta conosce il brivido della libertà e del vizio. Scende le scale, è in vestaglia. Uno scandalo cui non può pensare. Le hanno visto già tutto, gli uomini, non sta facendo la prima comunione vestita così. Con il tempo imparerà a non dare in regalo neppure uno sguardo.
Ma ora è leggera, raggiunge il fischio di usignolo e si sussurrano delle parole casuali. Non sanno cosa dire, ma sanno perché se lo vogliono dire. Così finiscono per toccarsi, la carne è più semplice. Lui le mette una mano tra le gambe, lei lo ferma.
« Non puoi. »
« Perché? »
« Davanti non si può. »
Ma non lo fa rientrare in casa scontento. Lo appoggia contro il muro e gli parla piano, vicino all’orecchio, carezzandogli la nuca.
Raggiunge il risultato di non farlo questionare e di eccitarlo.
Con l’altra mano gli sbottona i pantaloni, trovandolo già duro. Lo massaggia per un po’, quello ansima, muove il bacino nel vuoto, sbatte le anche. La tocca dappertutto, tranne tra le gambe, anche se non comprende il divieto. Non vuole però rischiare l’ammonizione, perché quello che sta ottenendo è più di quanto sperava.
Lei lo continua a masturbare fino a quando il ragazzo esplode, lei si scansa e ambedue osservano zampillare il liquido verso il pavimento. Poi il respiro scende, le mani si sfilano e le braghe si richiudono.
« Devo andare. »
Si rivedono ancora, stesso orario, mentre il palazzo dorme. Rosa gli fa conoscere cosa può fare la sua bocca, e usa quella di lui per darsi piacere.
Poi non ce la fanno più, succede sempre di notte e questa volta i no che gli intima Rosa si affievoliscono, inesorabilmente convinti dalla voglia reciproca. Riesce soltanto a chiedergli di fare piano, come se stesse conservando in grembo dell’argenteria preziosa.
Si accoppiano, lui la prende da dietro alzandole la vestaglia. Le bacia la nuca, ma non come hanno fatto gli altri prima di lui. Lui la bacia perché vuol baciare lei, o almeno è giusto esserne convinta. È una sensazione nuova e sorprendente.
Non si stupisce quando lui le chiede di andar via insieme. Di fidanzarsi. La gioventù è una festa di esplosioni pazze e persino dolorose. Rosa si sente in dovere di raccontargli perché è lì. Lui ha la tremenda cocciutaggine degli asini e dei giovani.
« Non mi importa. Se è figlio di nessuno, sarà figlio mio. E poi ne faremo altri insieme. »
Pare un eroe greco. Forte e ribaldo.
La baldanza nei riccioli che accennano a cascare sulla fronte.
« Ti amo. »
Rosa piange, di gioia e imbarazzo. Sulle scale buie c’è puzza di muffa ma in quel momento è il regno di un amore. Lo bacia sulla bocca. È la prima volta che bacia un uomo per davvero.
Risale le scale ridendo, non si può essere seri a sedici anni.
L’indomani incontra in cucina la moglie storpia. Quella aspetta di non avere nessun altro ad ascoltarle, quindi parla.
« Senti, a me non me ne fotte di quello che fai. Puttana eri e puttana sei, pure con la pancia piena. Ma un po’ ti capisco. Gli uomini fanno schifo e tu devi ancora impararlo. O forse lo hai inteso e sei solo scema. Ma a me i soldi di mio cugino mi servono. Se non te ne sei accorta, qui viviamo nella merda. Quindi bada a quello che fai. Se ti becco ancora una volta ad uscire di nascosto strangolo lui, e a te ti lego al letto. »
Rosa non risponde, non c’è da rispondere. I fuochi si spengono. Nei cinque mesi a seguire viene fatta uscire raramente e con l’ordine di starle sempre addosso. I vicini di sotto vengono minacciati, debbono tenere a bada i propri maschi.
Il cugino di Capramozza prende lo spasimante di Rosa da parte e con l’aiuto di una mannaia lo convince a cambiare principessa.
La pancia non si riesce più a nascondere, e la favolosa cugina inizia a diventare una bestia strana e sospetta. Nelle rare passeggiate non tutti i maschi la guardano più con cupidigia. La puzza di fregatura aleggia. Ma Rosa è bella, e lo strano trio continua a imperversare in città, come un circo che passa per una stagione e poi magicamente scompare. Come un ricordo aggredito da una sbronza.
Anche l’anno 1958 sparisce. In febbraio viene approvata la legge Merlin, dal nome della sua ispiratrice, la senatrice Lina Merlin. Vengono dichiarate illegali le case chiuse. Le porte si spalancano il 20 settembre. Per la Patria è una perdita, e un grave rischio. Dirà in aula il senatore Pieraccini: « Quelle donne non possono uscire dalla casa altro che per andare a messa (se a qualcuna di costoro ciò piace) oppure per andare a visitare qualche loro parente o qualche loro figlio; in questi casi sempre accompagnate da un uomo della squadra del buon costume. Le postribolanti abitano raccolte in una casa le cui finestre sono chiuse a lucchetto, se non sono murate; non possono trattenersi neanche a prendere il fresco d’estate; per contrasto le meretrici libere vagano adescando in cento modi gli adulti e i giovani, facendo mostra della loro bellezza e delle loro carni, esagerando nei dettami della moda con scollacciature, gonnelle corte e via dicendo. Nel postribolo la scostumatezza è sottratta agli occhi del pubblico ».
Schiere di giovani avevano imparato come si tratta una donna proprio dentro una casa chiusa. Convinti fosse giusto. Qualcuno ne ha nostalgia, persino chi non ci è mai entrato. La nostalgia è un monumento famoso che non serve per forza visitare.
Finisce l’epoca del bordello, non quella della prostituzione.
Rosa partorisce, un maschio, il 10 gennaio del 1959.