Dopo un paio di anni in affitto ha fatto una proposta importante al proprietario e quello, stupito e soddisfatto, non ha nemmeno rilanciato. Li ha presi, i soldi, e le ha dato le chiavi. Davanti al notaio le ha stretto la mano come un vecchio amico che le stava restituendo un quaderno di appunti del liceo.
Rosa ha comprato anche l’appartamento sopra suo figlio, al quinto piano. È stato ancora più semplice. Era in vendita, ha fatto telefonare al commercialista, tre giorni dopo avevano chiuso la trattativa.
Era molto contenta, quel giorno. Una contentezza bambina e frizzante che le aveva restituito vigore e sicurezza. Stava facendo qualcosa per suo figlio, ne era sicura.
Adesso gli è sopra, e sotto. Più che un abbraccio somiglia a una morsa, ma lei non sarebbe d’accordo e sente di stare facendo la cosa giusta. Gli appartamenti di fianco li tiene d’occhio, ma son pieni di terroni di seconda o terza generazione che non si muoveranno mai. Fosse per lei si sarebbe comprata l’intero palazzo in una settimana. Ha anche pensato di lanciare un’offerta collettiva. Porta a porta. Una follia da cui è però subito rientrata.
Giovanni Maria Carovio è perplesso. Le ha chiesto come mai tanto interesse per quel condominio. In quella zona. Lei gli ha detto di farsi i fatti suoi.
« Sono anche fatti miei. »
I soldi no, quelli sono solo di Rosa. D’altronde non è il primo acquisto inspiegabile da parte della sua cliente. Quante traiettorie strambe nel giro di denari provenienti da quella donna. Non è mai stata un cliente come gli altri. Ha dovuto anche faticare per ripulire tutti quei soldi in nero che provenivano da lei negli anni d’oro. Sta scontando adesso quel periodo di splendore. Sta versando una marea di tasse, è una barca che quasi non si muove più.
Ma come dirle di no. È un suo servitore.
Il commercialista a volte ragiona anche per lei. Un pomeriggio era passato a trovarla in casa, doveva farle firmare dei documenti. Il suo sguardo si era posato su un quadro che non aveva mai notato prima di quel momento. Ci si era avvicinato, curioso.
« È nuovo? »
« Un paio di mesi. »
« Chi te lo ha dato? »
« Uno che è morto. »
« Qui? »
« No, era un cliente saltuario, uno da un paio di volte l’anno. Ma si vede che mi era affezionato. È venuto una sera, tutto di corsa, sembrava scappasse dal diavolo. Mi ha detto che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci vedevamo. Io gli ho chiesto se si stava per trasferire in America. Volevo buttarla sul ridere, conciato com’era mi faceva pena. Non voleva nemmeno consumare. »
« Aveva una malattia? »
« No, diceva di aver combinato dei casini grossi. »
Carovio intanto continuava a esaminare il dipinto.
« Di cosa si occupava. »
« Mai capito, io lo sai che mi faccio i fatti miei. So quello che mi dicono e me lo faccio bastare. »
« Lo so, lo so. »
« Comunque sto picio non riusciva a stare fermo, sudava, camminava avanti e indietro per la casa. Io stavo aspettando un cliente, iniziavo anche io a smaniare. »
« Lo hai cacciato? »
« Gli ho detto che mi faceva piacere fosse venuto a salutarmi per l’ultima volta. Cercavo una frase di circostanza, per congedarmi. Tanti dicono addio poi ritornano. Forse gli piace fare così. »
« E lui? »
« Ha preso la porta ed è uscito come un treno, ma è subito rientrato. Aveva in mano un cartone molto grosso. »
« Il quadro. »
« Appunto. Pareva mi stesse regalando la Sindone. »
« Cosa ti ha detto? »
« Che ero l’unica a meritarlo. »
« Ti voleva parecchio bene. »
« Perché? Piace anche a te? Proprio bello, con tutti quei quadretti. Elegante. Infatti l’ho messo qui, appena si entra. »
« Non ti ha detto come mai ne era in possesso? »
« Ma no, ti ho raccontato che sembrava morso dal ragno. Mi ha dato in mano il pacco e mi ha baciata tutta, mi ha abbracciato. Son sicura che si è anche commosso. Stava per far piangere anche me. Non sono riuscita a trattenerlo, è scappato via. »
« Rosa, se questo è ciò che penso è un regalo che ricorderai. »
« Costa? »
« Non hai idea. E in fondo nemmeno io. »
« Quanto? »
« Valore inestimabile. Ma è roba che scotta. »
« L’ha sgraffignato? Ecco perché lo hanno fatto fuori. »
« Tu cosa ne sai? »
« L’ho letto sulla Stampa, due settimane fa. Ho riconosciuto la foto, anche se a me lui aveva detto di chiamarsi in un altro modo. »
« Hai appeso nel soggiorno di casa un Mondrian. »
« Chi è? »
« Un fuoriclasse. Mi vergogno a pronunciare il suo nome. »
« Esagerato. »
« Un pittore olandese. Uno dei più grandi. »
« Allora è roba che costa. »
« Devo approfondire. »
« Non me lo portare via, mi piace tanto. Ci farei anche le pareti con tutti quei quadretti. Non possiamo conoscerlo questo pittore? »
« Rosa, lascia perdere. »
« Lo paghiamo bene, faglielo sapere. »
« Mi fai stare male. »
« Fai quel che vuoi, ma non me lo togliere. »
Invece Giovanni Maria Carovio glielo aveva tolto, pochi giorni dopo. Aveva fatto delle ricerche, ed era convinto quello fosse un Mondrian originale, sparito durante la Seconda guerra mondiale e mai ritrovato. Roba pericolosa da tenere nel tinello di un appartamento, specie come quello di Rosa.
Per non scontentarla le aveva fatto fare una stampa della stessa opera, e con quella aveva sostituito l’originale che ora riposava imballato con cura in un deposito sicuro.
Con il tempo gli sarebbe venuto in mente come piazzarlo. C’era da farci parecchi quattrini. Miliardi, probabilmente. Doveva solo trovare il canale giusto, quella era merce con cui non aveva mai avuto a che fare, roba da bruciarsi le mani e finire alle Vallette.
Ogni tanto ripensava a quel tesoro appeso con noncuranza, con chiodo e martello, su una parete della casa di Rosa. E rideva, incredulo.
Rosa era un miracolo, anche di ignoranza e gretta incoscienza.
La sua tutela nei confronti di lei il più muto ma efficace gesto d’amore.
Forse una creatura tanto bella avrebbe meritato di guardare quel quadro tutti i giorni. Forse avrebbero potuto guardarlo insieme, appeso in un grande salone. Il loro.
Avrebbe lavorato anche in questa direzione, sarebbe stata l’operazione più rischiosa e importante della sua vita. Ne valeva la pena. Non si era mai sposato, o almeno preso una relazione con serietà, aspettando appena un cenno da parte della sua assistita. Cenno che non era mai arrivato, e nemmeno fatto intuire. Eppure lui ci credeva, come credeva alla vastità degli universi e agli angeli custodi.
Il figlio pare non essersi accorto delle ulteriori mosse della vicina. Buongiorno e buonasera. E qualche sorriso di circostanza.
Ne ascolta i silenzi. I piccoli movimenti. Quell’uomo le pare abbia paura anche di disturbare se stesso. In cinque anni ha ascoltato entrare in casa sua una decina di persone.
Il padre di Beatrice, un povero uomo spento e dispiaciuto dagli eventi della vita, dall’aver seppellito la propria figlia. Di essere così vecchio. Vorrebbe rivedere in quel ragazzo, in quell’ormai uomo, ancora sua figlia. Ma sa che non è possibile, è solo suo nipote, l’incantesimo è rotto da tempo e loro due non hanno molto da dirsi. Anzi, sembrano quasi regolare una pratica, ogni volta che si vedono. Succede sempre meno spesso, prima invece lo voleva incontrare ossessivamente. Gli anni Ottanta sono stati un incubo, per quel ragazzo. Ripercorrere la vita di Beatrice, riguardarne le foto, accompagnare in chiesa il nonno. Poi il tempo aveva cominciato a erodere la voglia. E i ricordi. Adesso si telefonano un paio di volte l’anno. E si incontrano altrettante volte. Il nonno passa da anni molto tempo come volontario alla mensa dei poveri, anche se ormai le gambe non lo reggono. Al proprio dolore bisogna dare una ragione di perdurare.
Poi c’è stata, una sola volta, la sorella di Beatrice. Una donna riuscita. Un bel marito, tre figli portati in alto dalla natura e dall’agio. La morte della sorella è stato un brutto incidente di percorso, che le ha restituito qualche ruga in più degli anni previsti. Lei lo aveva detto che non doveva sposare quel rozzo poliziotto.
Due dei figli studiano all’estero. L’altro è impiegato in una banca. Lei e il marito hanno festeggiato i quarant’anni di matrimonio con una crociera nei fiordi norvegesi.
Un uomo era stato a trovare suo figlio un paio di volte in breve tempo, circa una settimana. A Rosa era suonato il campanello della sua presunta omosessualità. Avrebbe spiegato tante cose, all’esterno. Erano in molti a sospettarlo, forse anche lei. La vedeva come una sventura, l’ennesima. Non perché avesse qualcosa di cattivo contro un figlio cupio, ma sapeva della difficoltà e delle fatiche che comportava tuttora, anche se quasi nel nuovo millennio, l’essere omosessuale. E suo figlio non le pareva uno con spalle grosse per affrontare un altro fardello. L’avrebbe dovuto aiutare? Forse era quello il momento di intervenire, su una necessità reale. Finora nessuno ci si era dedicato e tu sei sua madre, quale occasione migliore. Figlio mio, parla con me.
Il record di presenze nella casa ce l’aveva però una collega, la più presente. Sette volte in un anno. Li aveva ascoltati fare sesso, o almeno era quello che aveva pensato. Roba con poca passione, pareva. Nessuna parola, niente urla. Dei gemiti soffocati. Ascoltandoli, avrebbero anche potuto semplicemente fare insieme una seduta di aerosol.
Lei infine era sparita. Negli ultimi sei mesi non pervenuta.
Chissà come avrà il letto. Non cigola, viene usato con troppa educazione. Ha avuto anche l’immagine del figlio come perfetto ipotetico cliente. Gli avrebbe fatto bene.
Potrebbe indirizzarlo verso qualche sua collega. Ma ti pare, Rosa, che vai a mettere tuo figlio nelle mani di qualche sgualdrina tua concorrente.
Oh, potessi fare tutto io! Sarei così brava. Smetti di rigirarti in mano questi pensieri assurdi. Lo vedi che non sei una buona madre, lo vedi? Neppure con i pensieri. Sei solo una baldracca, e pure depravata.
Aveva avuto come clienti tanti ragazzini da svezzare, ancora vergini. Soprattutto in passato, erano i padri ad accompagnarli. A volte un amico fidato. O un fratello. Sempre uomini, perché l’iniziazione sessuale era una roba da uomini. Come se piantare l’uccello dentro una donna significasse un prima e dopo Cristo. Non era così, belli miei. Lei provava a spiegarglielo. Al sicuro della stanza, senza l’accompagnatore presente, prendeva in carico ben più di un semplice compito da assolvere. Era un passaggio importante, certamente. Ma l’imbarazzo di un ragazzo vergine non era diverso dalla disinvoltura baldanzosa di un militare, o di un orafo. Sarebbe stato il tempo a definirli come uomini.
Rosa conosceva, capiva, accoglieva. Le era capitato anche qualche ragazzino che proprio non ne voleva sapere. Si era messo a piangere. O quello cui piacevano gli uomini, e lei era la prima cui lo rivelasse. Non si stupiva, tutti in quel metro quadro di intimità sentivano, e lo avevano, il diritto alla confessione. Uno le aveva persino raccontato delle violenze subite dal padre. Rosa aveva rifiutato i soldi dell’uomo? No di certo. Aveva pure sorriso.
Ma al figlio aveva suggerito di andarsene via di casa. Non di recarsi a denunciare, o reagire dentro le mura domestiche. Andarsene. Lei sapeva cosa significasse la libertà individuale.
Che spesso coincideva con la solitudine, ma a questo era meglio non pensare.
Alcuni di quei maschi plasmati alla rinfusa erano ritornati, tempo dopo. Chi ci aveva preso gusto, ma anche chi aveva voluto semplicemente ringraziarla. Si era stupita a leggere nelle loro parole la gratitudine. Non ci era abituata. Anche i più soddisfatti dei suoi clienti raramente le dicevano grazie. Il letto, a maggior ragione quando è pagato, non è il luogo delle buone maniere.
Aveva forse fatto loro da mamma? Oh, ma che sciocchezze. Era il suo mestiere. Tutelare il cliente. Quello presente, e quello futuro.
Il figlio adesso lavora all’Auchan poco distante, così ha smesso di usare l’auto e ha disdetto l’affitto del garage. La accende una volta a settimana, nei giorni di riposo e in orari diurni che gli permettono agio, ci fa un giro di qualche chilometro, quindi la parcheggia con calma. Non corre più, il medico gli ha detto che soffrivano le giunture. Il ginocchio destro, soprattutto. Così si è iscritto in piscina. Due volte a settimana, cinquanta minuti a sessione. Orario del nuoto libero. È arrivato caparbiamente a fare ottanta vasche per volta, guardando in basso nell’acqua trasparente. Cosa pensa quando nuota?
Ha ragionamenti lenti, e senza spazio per capriole o curve improvvise. Come un carcerato di lungo corso, ha imparato a diluire l’attività del pensiero nel tempo. Il nuoto somiglia a un foglio bianco da riempire di righe.
Inoltre la piscina ha amplificato la sua solitudine e cattività, anche nell’esercizio fisico. Correndo aveva occasione di guardarsi attorno, vedere alcune persone più volte, seppur senza averci a che fare. Ma riconosceva la donna con il cane grosso, il nonno con il passeggino e poi lo stesso nonno con il nipote tenuto per mano, tempo dopo.
Si accorgeva di quei cambiamenti, di quelle vite che si spostavano in avanti? Aveva cognizione del mondo, del suo rotolare? La sua esistenza galleggiava, il paragone sarebbe dovuto essere palese. Lo stare all’aria aperta era una telecamera sulla vita degli altri che nella piscina veniva meno. Negli spogliatoi a malapena ci si salutava. Chi andava lì aveva voglia di andare via in fretta. C’erano l’odore del cloro, il sapore dell’acqua, e il rumore degli asciugacapelli a rubare la voglia di stare a parlare, o almeno a guardarsi negli occhi.
Ma neanche di questo si accorgeva. Il medico gli aveva dato un’indicazione e lui l’aveva rispettata.
Riesce a leggere Tuttosport, la domenica e il lunedì, anche per un’ora intera. Compra La Stampa ogni giorno, tenendola per la sera dopo mangiato. Legge quasi tutti gli articoli fino in fondo, perché ha paura che il giornale finisca e lui resti senza niente da fare. Ha tre o quattro trasmissioni televisive che segue con piacere. Il suo telegiornale è quello di Rai Due.
Si masturba guardando Drive In su Italia 1, che ogni tanto lo faceva anche ridere, e ora aspetta la mezzanotte perché da quell’ora sulle emittenti locali ci sono le pubblicità dei telefoni erotici. Non ha mai telefonato. Non devono sapere chi lui sia.
Ha cominciato a fumare, chissà perché. Se lo chiede spesso.
Per noia, che altro. Per emulazione? Di nessuno. Figlio mio, sono soldi spesi male. Quella roba ti uccide. Ma cosa stai dicendo, Rosa. Fuma sei o sette sigarette al giorno, come gli adolescenti. Sbuffa via lontano, senza compiacimento, il gesto non gli viene bene. Non lo prenderebbero in un film francese neppure come comparsa.
Eppure è bello come un angelo triste.
Questa è una delle cose che gli chiederebbe subito, se potesse parlargli. Perché hai iniziato a fumare? Così, all’improvviso. Rosa, puoi chiederglielo. Non c’è niente che te lo impedisce. Ma come, ma come! Mio figlio non merita di sapere quello che sono.
Rosa, hai forse paura?
Si addormenta un po’ prima della mezzanotte e si sveglia alle sei.
Un suo collega vedovo gli aveva raccontato di essersi innamorato del suo cane.
« Da quando ho lui non mi frega niente di nessun altro. »
Lo aveva colpito, tanta risolutezza. Così lui ha fatto un calcolo, e pensato che se si fosse preso un cane adesso gli sarebbe durato più o meno fino alla vecchiaia inoltrata. Possono durare anche una ventina di anni, dicono. È andato in un canile e ne ha preso uno non troppo vecchio. Sette mesi, una gamba messa male. Probabilmente non arriverà a vent’anni, ma che importa. Non conosce l’amore di un giorno, figuriamoci quello adulto che dura nel tempo.
Ci ha messo due mesi per insegnargli a non abbaiare troppo e non pisciargli in casa. Si è prima pentito di essersi fatto invadere i suoi spazi. Poi gli è piaciuto. Quando la mattina alle sei e mezzo prende il guinzaglio dall’attaccapanni sulla parete, quello è felice e si avvicina alla porta con il suo incedere claudicante. Passano mezz’ora al giardino, e alle sette di nuovo ritornano in casa. Il cane si abbandona sul divano, lui si prepara per andare a lavoro. Nessuno racconta bugie all’altro.
Ha comprato una bicicletta, e ha scoperto che pedalare lo rilassa. Così nel suo calendario settimanale ha inserito due giri in bicicletta al parco Colletta. Un paio d’ore, quando il tempo lo permette. Forse è anche più bello che correre, anche se per il fiato serve sicuramente di meno. Per il fiato servirebbe anche non fumare, se lo ripete spesso. Perché ha iniziato? Per un motivo stupido, che spesso sono i motivi da cui nascono le cose.
Ha trovato nel suo armadietto al lavoro un pacchetto di sigarette intero. Di una marca che nessuno dei suoi colleghi fumava. Ha infatti chiesto. Nessuna risposta. Lo hanno preso in giro. Una collega più giovane gli aveva detto di darlo a lei, che tanto era uguale fumare quella marca o un’altra. Stessa roba. Ma lui si era tenuto il pacchetto, quella lo aveva guardato male e sussurrato che era un barbone. E sfigato. Lui aveva pensato che fosse un segno del destino. O uno scherzo senza senso. Preferiva la prima ipotesi. Una volta a casa aveva aperto il pacchetto di Camel e tirato fuori una sigaretta. Non possedeva un accendino. L’aveva lasciata sul tavolo e si era guardato intorno. Niente. I fornelli. Ecco. Si era accostato con la testa un po’ spaventato. La fiamma blu si era accesa e lui aveva infilato dentro la sigaretta. Troppo e per troppo tempo. Gli era diventata tutta nera. Aveva tirato troppo forte. Era rimasto a tossire per alcuni minuti, la sigaretta rovinata a terra. Ci aveva riprovato il giorno dopo, con un accendino comprato dal tabaccaio del centro commerciale. Non gli piaceva il sapore, ma il tempo che occupava. Sembrava una cosa da uomini, misteriosa, uno spazio che si era ritagliato da solo. Non avrebbe smesso. Al cane dava fastidio, ma chi se ne importa. Quella bestia doveva ringraziarlo di averla salvata da una vita di solitudine. Adesso aveva lui. Aveva una famiglia. E poteva sopportare il suo padrone che fumava.
In fondo era probabile che stare insieme significasse proprio solo e soltanto sopportare. Era questa la sua idea di famiglia. E dire che lui aveva sopportato tutto, in quella diaspora. Ed era comunque senza una famiglia. La solitudine un angolo che ci si dimentica di spolverare.
Ogni tanto ha incontrato anche la sua vicina di casa, quella che abita di sotto. Gli pare un’impicciona, lo guarda strano. Gli pare viva da sola pure lei. Un po’ giovane per essere vedova. Ma, la vita.
Cosa ne sa, lui, della vita.
Rosa ha proseguito con i suoi ritocchini. Che termine di merda. Eppure.
Un giorno qualcosa è andato storto e si è trovata il labbro molto gonfio, così per la vergogna non ha preso clienti per una settimana. Si è data malata. Isabel le aveva detto di approfittarne per cambiare aria, prendersi una vacanza.
« Mi vergogno a farmi veder in giro così. »
« Non ti conosce nessuno fuori da Torino. E poi questo vizio di farsi infilare le siringhe addosso ce lo hanno in tante. Nessuno si scandalizza più. »
« Lo sai l’ultima volta come è andata a finire. »
« Ma sei vecchia, ora puoi farlo senza imbizzarrirti. Posa la spada. »
Ha le tette gonfie e dure, e sul culo interviene spesso. Le pare una parte da privilegiare. Tette e culo. Dai pure retta a quegli uomini che sui giornali dicono che la prima cosa che guardano in una donna è il sorriso.
Tette e culo. E una faccia che non sia da buttare. Ha schiarito anche l’ano e la vagina. Si chiama ricostruzione, una tecnica che arriva dagli Stati Uniti. Un restauro, in pratica. Anche se chi scopa con Rosa non si aspetta mica di trovarci il borotalco, tra le sue gambe.
All’alba del Duemila ha solo una ventina di clienti fissi. E qualche raro e saltuario avventore.
Uno di quelli che aveva abboccato le aveva chiesto quanti anni avesse.
« Quaranta. »
Si era messo a ridere.
« Te lo giuro, cane balengo. Non ridere o ti mordo le palle. »
Non si era lamentato del trattamento. Non gli aveva morso le palle, anche se a qualcuno quella pratica garbava.
Ma non lo aveva visto più. Venivano ogni tanto soprattutto trenta o quarantenni spiantati. Personaggi strani, disadattati. Non abituati ad avere a che fare con le donne. La trattavano molto frettolosamente. Si spogliavano impacciati, non sapevano dove mettere i vestiti. Era un gesto meccanico a smuoverli: dovevano scopare.
Nessuno di questi le portava fiori, così quando nel pomeriggio o l’indomani arrivava Aldo, o un altro dei suoi cavalieri resistenti, le pareva di ritornare la solita principessa.
La loro noiosa abitudinarietà una timida grazia.
Uno di questi saltuari clienti le aveva anche messo le mani addosso, perché non voleva pagare. Lei lo aveva maltrattato, avrebbe chiamato la polizia. Lui le aveva dato uno schiaffo ed era corso via. Il cane Bruno aveva ringhiato, ma tenuto legato non poteva fare il suo mestiere di cane da guardia. Rosa lo aveva dovuto legare perché alcuni clienti ne avevano paura, nonostante fosse un botolo innocuo. Ma era grosso, forse quel mascalzone lo avrebbe spaventato.
Mascalzone che l’aveva richiamata, qualche giorno dopo. Lei gli aveva bestemmiato in piemontese di non farsi più vedere, lui aveva detto che si scusava, che quel giorno aveva bevuto.
Rosa ne ha viste tante. Sopportato ogni capriccio. E schiaffi a centinaia.
Quello era un cliente. Rimaneva la sua devozione al lavoro. L’unica sua dipendenza e ragione di vita. Era il suo palco, non poteva sputare addosso agli spettatori paganti.
Aveva accettato di riceverlo, ancora. E quello aveva portato dei soldi tutti sgualciti, che sembravano stati strappati via da un’altra mano. Non le piaceva, per quale motivo lo faceva poi ritornare ancora? La devozione. Un tempo lo avresti mandato via? No, un tempo sarebbe stato uno dei tanti, solo che al tempo i tanti erano di più di adesso.
Prese a frequentarla una volta al mese. Era un omone grosso, dal doppio mento dei quarantenni abbondanti. Non si faceva succhiare, le diceva che non gradiva. Voleva subito scopare, ma per farlo si portava dietro delle riviste pornografiche. Era da tanto che Rosa non ne vedeva, quelle che prima teneva per i clienti le aveva riposte in cantina. Nessuno sfogliava una rivista di quel genere. Tranne questo marcantonio scimunito. Ma non aveva più fatto bizze, e pagava. Si arrabbiava quando non gli si induriva subito, diceva che era colpa di lei. Dicono sempre così, gli uomini. E quando non lo dicono lo pensano. È il motivo per cui finiscono per non scopare le proprie mogli. Ci trovano i difetti che in altre non vedono.
Allora Rosa gli prendeva le riviste, e insieme ne seguivano le scene più stuzzicanti.
Come una maestra di fianco all’alunno, il sussidiario di fronte a loro due.
Lui piano recuperava vigore, grugniva, e lei ne approfittava per farlo placare. Gli si metteva a cavalcioni, mentre lui continuava a sfogliare il giornale. La chiamava con i nomi delle attrici. Nomi esotici, dove Rosa comunque non avrebbe sfigurato. Le diceva fai questo e fai quello, le dava i tempi come un vogatore. La incitava urlando, nel finale.
Dopo aver fatto le cose, una volta alla luce della cucina, le pareva ritornare un brav’uomo. Era sempre successo così, con tutti i clienti. Una forma di riconoscenza che provava per loro, per tutti loro. Per averla scelta, premiata, adorata per almeno un’ora. Un complimento pagato.
Isabel lo aveva visto uscire, un pomeriggio.
« Hai bisogno dei soldi di quel mascalzone? »
« Non lo faccio più per i soldi, lo sai. Me lo hai già fatto ammettere, non umiliarmi ancora. »
« Allora non hai bisogno di lui. Ti piace? »
« C’è anche lui. Mi hanno insegnato così. È il mio lavoro. »
« Non bisogna per forza accettare. Lui non va bene. »
« Mica è un tuo cliente. »
« Stai attenta. »
Era stata attenta. Quando Isabel parlava, bisognava prestarle attenzione. Sapeva tutto, ti guardava negli occhi. Non si stupiva di pianti e nefandezze. La gioia la lasciava indifferente. Pareva l’incarnazione di un dio qualunque. Misericordioso e pazzo insieme. Ma non erano forse così tutti gli esseri umani? Lei, a differenza sua, sembrava saperlo e sembrava saperne qualcosa di più.
Mentre era in bagno, un giorno che la era andata a trovare, aveva controllato il portafogli del brutto cliente.
« Come le mogli fanno con i mariti. Come mi sono ridotta! »
Era vero. I portafogli non li aveva mai dovuti guardare di nascosto. Erano molti suoi clienti a mostrarglieli. Le foto, i soldi, i documenti, la monetina ricevuta in dono dall’amico morto. Il portafogli era un oggetto tenuto dietro il culo in cui contenere tutto se stesso. E Rosa ne aveva dovuti sopportare. Ma che bella lei, che bello lui. Quanti soldi hai, ma che bella bambina. Come se gliene importasse davvero qualcosa. Ma vai a quel paese!
Ora però guardava il portafogli di un cliente come una ladra. Nessuno glielo porgeva.
Si era appuntata mentalmente il nome e cognome.
Era pieno di matti che ammazzavano le prostitute, soprattutto le poveracce che battevano per strada. Succedeva, ciclicamente. Chi usava la corda per strozzare, chi tagliava loro gli arti, chi strappava gli occhi. Chi le scuoiava, chi le bruciava. Il catalogo era variegato, una liturgia del sangue.
Perché si accanivano con queste donne, erano così diverse dalle altre?
Che comunque la morte offesa non lasciava in pace.
Da pochi anni c’erano stati il disastro e il processo per i fatti del Circeo, protagonista un branco di ragazzotti di buona famiglia che si erano accaniti come bestie furiose su due ragazzine, uccidendone una e lasciando inconsapevolmente viva l’altra. Una vicenda che ha segnato la storia italiana, lasciando aperta la ferita. Ancora oggi quel feroce assassinio, quella violenza, nella sua particolarità, pare una pentola in cui bolle tanta della carne marcia del paese. Il fuoco sempre acceso.
Da Rosa andavano anche quelli di buona famiglia. Parecchi. Ma in ognuno di loro non avrebbe fatto fatica a intravedere un omicida. C’era sempre una patina di sommerso rancore nei confronti di una donna posseduta. Pagata, ancora di più.
Rosa non era troppo a rischio, non batteva all’aperto, ma non si poteva mai sapere.
E poi Isabel non sbagliava. La masca quando diceva una cosa ci potevi scommettere sopra.
Il futuro è un piatto che non andrebbe assaggiato, a volte può fare schifo.
Una mattina Rosa si sveglia presto, beve dell’acqua tiepida con mezzo limone spremuto e si prepara la colazione. Dopo andrà a camminare nel parco per quaranta minuti, con la musica nelle orecchie. Fuori fa molto freddo, un’anima grigia sembra avvolgere le cose e gli uomini. Non è colpa di Torino.
Alle undici verrà un cliente, nel pomeriggio un altro. E per oggi tanto basta. Rosa è un pensionato cui basta poco per riempire le proprie giornate. Dovrebbe essere in grado di dosare le energie, farsi bastare gli esigui sussulti della sua attualità. Ma non è ancora brava, è sempre scattante e nervosa. La sua abitudine al lavoro, e la paura del vuoto senza, la reggono e la logorano allo stesso tempo.
Sono le dieci, avverte uno strepito incredibile arrivare da casa di Isabel. Sente un urlo alto e durevole. Non pare umano.
Apre la porta e rimane bloccata dalle gambe e dal freddo che ci sente dentro. Non riesce a muoverle. Indossa una vestaglia, sotto niente.
Vede uscire dalla casa della sua vicina cani, gatti, un cavallo, dei conigli. Dalle finestre scompaiono i rami dell’albero, rientrano in casa.
Volano foglie intrise di acqua piovana, schizzi di mondo che non si muove, come sassolini, rametti, vasi di plastica.
Le gira la testa, non capisce a cosa stia assistendo. Un’allucinazione o un miracolo o un abominio. Tira un vento fortissimo, il cane Bruno è rintanato in silenzio nella cuccia. È spaventato lui e incredula lei.
Silenzio.
Rosa corre veloce, sulla soglia sbatte contro un uomo con il volto coperto. Lo riconosce. È lui, era scontato, doveva immaginarlo.
« Cosa le hai fatto, maledetto? »
Lei urla, lui corre via.
Rosa lo insegue fino al cancello, ma quello è lesto. Dove la trova questa energia, bastardo montone appesantito.
Scappa via, si dilegua.
Rosa ritorna sconfitta, ma ancora più agitata entra in casa di Isabel. Non ci sono più le tende che occupavano il corridoio, non deve attraversare nulla, niente da spostare. La casa è silenziosa, sgombra, pulita. Non c’è più l’albero, non c’è puzza di animali. Non c’è Isabel.
L’intero appartamento è arredato con mobili Ikea color frassino. Un tavolo anonimo nella cucina. Quattro sedie. L’orologio rotondo in metallo. Anche il bagno, anche la stanza da letto. Tutto fermo. Ovattato. Nessun sapore. A Rosa gira di nuovo la testa, deve uscire. Deve chiamare la polizia. Per dire cosa? Oddio sto diventando pazza. Doveva succedere.
Ritorna in casa sua e mette sul fuoco dell’acqua. Deve bere qualcosa di caldo, le sta venendo bruciore di stomaco. Ha le palpitazioni. Sarebbe un buon momento per cominciare a bere. O fumare. O ambedue. Forse dovrebbe vestirsi, ha addosso ancora solo una vestaglia leggera. Se arrivasse qualcuno? Nuda. Nuda. Nuda. In quel momento prova una inspiegabile vergogna.
Sul tavolo della cucina vede un foglio. Prima non c’era.
Si avvicina, c’è scritto qualcosa. Le pare di leggere una frase.
Non ci sono più.
Ha letto bene? Ora il foglio è bianco. Lo gira, non vi è nulla per lei. O era tutto lì?
Il resto non conta. Capisce qualcosa, capire tutto non serve. Accetta il mistero e la consapevolezza. E ora è senza un’amica che faceva finta di non avere. Una presenza.
Che le ha salvato la vita, immolandosi per lei.
La sfortuna a volte è un atto di coraggio.
Non arrivano altre telefonate, il grande e grosso non ritorna. Il suo nome e cognome erano finti, documenti rubati anni prima.
La polizia le dice di stare tranquilla. Ci penseranno loro.
« Stai tranquilla, Rosa. »
La chiamano per nome e adesso quel nome in bocca a loro le pare un indizio di pericolo.
Non si fida di nessuno. Come dai pellegrini riceve gli onori dei suoi soliti clienti, cui si dona con abbondanza. La trovano strana e goffa. Li tiene più del tempo concordato, propone loro di bere qualcosa lì con lei. Di stare ancora un po’.
« Aldo, vuoi ballare con me? »
« Devo andare, mi aspettano. »
« Fermati ancora un po’, dai. »
Ogni tanto entrano in casa come fossero venuti a trovare un’ammalata, come in ospedale. Ma io sono splendida, sono Rosa, non ricordi?
Un tempo ti mandavo via perché dovevo imbastire la scena per la recita successiva. Ora ho tempo, ora non so cosa fare quando non lavoro. I miei clienti sono la mia vita. E niente altro.
Ho paura.
Come si fa a stare sempre da soli? Un essere umano non nasce e cresce per stare da solo. Ha bisogno di un corpo vicino. Di una parola. Di un’attenzione ogni tanto, come guardare le stelle senza fare troppe domande.
Lascia la casa di Isabel vuota. Il commercialista le dice che deve smetterla di tenere gli immobili inattivi. Sono soltanto spese.
Decido io.
Come vuoi, Rosa.