L’indomani la fatica cambia di segno, diventa l’ossatura dei giorni, Paula si carica di energia nuova. La fine della fase dei marmi la tira su, schiena, testa, spalle, qualcosa di più agguerrito emana da lei, null’altro che una disposizione spontanea all’insuccesso, una rassegnazione alla caduta, e un desiderio di rilancio. Rialza il naso, rilassa la mascella, ora va meglio. Impressione di prendere finalmente l’abbrivio, impressione che l’aria fuori sferzi meglio la sua fronte e che il suo corpo si rafforzi, ventre e schiena tenuti, spalle e braccia slegati, movimento dei polsi più sicuro e più leggero, tutto semplicemente più bello. Osservare le stimmate del lavoro sul suo corpo le procura un benessere indicibile, una voluttà.

Ormai, si addentra nell’atelier con meno apprensione, più audacia. Certo, ancora fa fatica a controllare l’emozione che la penetra quando zigzaga nella sala per raggiungere il suo angolo, sgattaiolando tra i cavalletti assumendo un’aria di serenità che non inganna nessuno – le orecchie rosse e ardenti come braci –, ma quell’emozione le segnala di essere entrata in una zona effervescente, zona di mormorii e di attrito, ed è sempre una scossa di eccitazione pura, un elettroshock.

Gli altri allievi compaiono nel suo campo visivo. Cominciano a esistere per Paula e lei tra loro. Non sono numerosi, una ventina, e anche loro hanno occhi lucidi, unghie nere, la pelle che trasuda white-spirit, e proprio da quello li riconoscono nel quartiere anche quando hanno tolto il camice; e anche loro sono distribuiti a due o tre in appartamenti grandi e mal riscaldati a un tiro di schioppo dalla scuola, lavorano come bestie, si riuniscono in rare occasioni per una festa alcolica che si trascina fino all’alba dopo aver raggiunto verso mezzanotte il rispettabile numero di trenta persone in una cucina di dieci metri quadri – densità ritenuta favorevole a ogni incontro-scontro carnale un po’ tonificante con un essere che non ti si accolla. Paula rimane spesso la sera a lavorare nell’atelier, vi circola lenta, le braccia lungo il corpo e i capelli sciolti, indugia davanti ai lavori degli altri, si arrischia a guardarli mentre dipingono, e osa perfino farsi un’idea della loro pittura, e ben presto, le grida che lanciava nell’attimo in cui percepiva una presenza alle spalle, quelle grida stridenti, orribili, quelle grida scompaiono, il suo sguardo si fonde infine con quelli che si incontrano qui, questo grande groviglio di sguardi simultanei.

Quando passa in rivista gli allievi dell’Istituto, cosa che fa spesso in questo periodo, per i genitori, o per i pochi altri ai quali racconta di Bruxelles, Paula comincia sempre dal fondo della sala e procede in senso orario – certo allora visualizza un volto che si gira, la guarda dritto negli occhi e la saluta con un cenno del capo, come l’attore si pianta davanti alla cinepresa nei titoli di coda di una telenovela degli anni ottanta. Il primo a essere messo a fuoco è Jonas, su cui non si sofferma, riservando in questo solo a lui un trattamento speciale, Jonas è Jonas, ecco quello che si limita a dire, accelerando la frase e battendo la mano nel vuoto, come se nel suo caso bastasse aprire gli occhi per afferrare quel che c’è di diverso – quella miscela di delicatezza e di egoismo spropositato? – poi distingue, tra gli altri, un decoratore di teatro, venuto da Boulder, Colorado, inquietante sosia di Buster Keaton, stessa cravatta nera e stessa camicia bianca dal collo ad alette; un po’ più in là, pallida, vene in trasparenza, occhi cerulei, una restauratrice di cappelle barocche passata per l’Accademia di belle arti di Firenze dipinge mezza nuda sotto un camice di lino grezzo, in testa un turbante stile Artemisia; accanto a lei, testa di levriero afgano su un lungo torso stretto, grosse gambe corte, c’è un giovane banchiere londinese in sabbatico che non molla la sua T-shirt dei Sex Pistols e rumina chewing-gum in continuazione; poi, a destra di Paula, testa a palla di biliardo e corpo da lottatore, il solo artista dell’atelier, un tipo dalla voce catarrosa, mani come palanche, di Amburgo – là realizzava pannelli in ferraglia, in zinco, in lamiera ondulata, resti ossidati che dovevano raffigurare l’usura del capitalismo e la melanconia della globalizzazione, andava a racimolare quei materiali sui moli, al fiume, saltava sui pescherecci per risalire i bacini, superare le chiuse, andare sempre più in là verso l’estuario, verso il largo, e questo tutti i giorni che piova o tiri vento –; continuando ancora, a sinistra di Paula un giovane fiammingo ricciuto come un pastore greco, figlio di un rivenditore di granaglie dei dintorni di Gand, che finanzia i suoi studi giocando a biliardo nei retrobottega dei caffè del quartiere Saint-Gilles e fuma le Player’s; e poi le spagnole, Alba e Inés, due cugine la cui parentela si ramifica su tutto il Gotha, intreccia le famiglie da copertina di “Point de vue”, in occasione di battesimi e di matrimoni, e probabilmente anche loro sono state fotografate da piccole, guance tonde e guanti bianchi, tra le mani lo strascico di merletto di Blonda di Caen di una dama del loro clan – quando tocca a loro, Paula ci si sofferma, la loro presenza indica l’eterogeneità degli allievi dell’Istituto, l’atelier diviso tra squattrinati e queste fanciulle di sangue blu, che hanno frequentato scuole private dirette dalle suore, da cui sono scappate in fretta, tutt’e due sempre insieme, pochi studi ma una buona conoscenza delle lingue, entrate all’Istituto di pittura per poter poi ridipingere i castelli di famiglia disseminati sul vecchio continente, laddove sono marcite le boiseries, dove mancano i marmi, là dove il cesto fiorito si è scolorito in fondo all’alcova, ridono con lo stesso riso rauco quando annunciano di avere un mercato vincolato, di aver scampato matrimoni combinati per vivere il loro magnifico nubilato, e infatti sono festaiole, ragazze dalle gambe come tronchi e cuore generoso, linguaggio da carrettieri, creano cocktail multicolori e rollano canne sensazionali; infine, a meno di un metro dalle precedenti, intenta a dipingere cinciallegre su petali di rosa ascoltando rock metal, gli auricolari ficcati nelle orecchie, c’è Kate Malone – bel pezzo di ragazza, testa decisa e caratteraccio, nervi sempre a fior di pelle.

Questi personaggi che dipingono insieme quarantaquattro ore a settimana e che i parenti descriverebbero senz’altro come egocentrici, che disdegnano ogni consuetudine comunitaria, che uniscono narcisismo e megalomania in proporzioni notevoli e non accettano l’umiltà dell’artigiano altro che per meglio reclamare di essere artisti, questi personaggi, stranamente, finiscono sempre per formare un gruppo intorno a Natale. L’abbozzo di organizzazione accennato nel mese di ottobre diventa regola, instaurano abitudini, sedimentano un diritto consuetudinario per esempio per la pulizia e il rifornimento dei materiali comuni (ordini, consegne, distribuzione), aprono una cassa per le bicchierate dell’atelier, e l’obbligo di aiuto reciproco – si mettono in gruppo per finire il lavoro di chi si è insabbiato. Gli allievi di rue du Métal costituiscono del resto una piccola società a parte, collegata alla materia del mondo ma ripiegata su quattro strade della città, ermeticamente chiusa, tanto più che il lavoro non lascia loro tempo per annodare relazioni fuori dalle mura della scuola e che tutti hanno capito il vantaggio di cercare le risorse sul posto piuttosto che perdere tempo a girovagare. Così nella scuola si intessono legami sotterranei, legami amorosi, amicali, sessuali, inimicizie anche, legami sempre più stretti man mano che passano le settimane, si crea una rete sempre più fitta, sempre più attiva, fino a che la scuola non trova la sua forma organica e funziona ormai come un ecosistema – è un momento che la signora con il collo alto nero aspetta sempre con una certa impazienza, a quel punto si trova davanti a una forza unica, e questo a lei piace.

Ma ben presto, con un movimento pendolare che lei maliziosamente prevede, quegli stessi allievi cominciano a preoccuparsi della loro individualità, si contorcono, si mettono in punta di piedi per emergere con la testa dal plotone, e rivendicano il loro modo di fare, il loro tratto personale. Questa sete di distinzione che li tormenta riaffiora dopo il trattamento choc rappresentato dallo studio di legni e marmi, riappare come i grumi nella pastella e presto ogni allievo mostra sempre più apertamente di vedere i lavori imposti e gli esercizi come catene strette, rigide, che ne bloccano i gesti, ne soffocano la personalità, ne prosciugano il desiderio – è così che si esprimono, indignati. La signora con il collo alto nero finge di non sentire, continua a prodigare il suo sorriso impenetrabile tutto intorno e si strofina le mani – conosce bene gli allievi, ogni anno gli stessi, sì, lei li conosce a memoria. Sa che il confronto con la bottega rinascimentale, quell’immagine di fluidità creativa e di fermento collettivo nella quale amano vedersi riflessi, al principio lusinga sempre il loro ego – condivisione dei luoghi e delle tecniche, circolazione delle tendenze e dei saperi, senso del dovere e del controllo, valore dell’artigianato, rispetto della gerarchia derivata dall’esperienza, rinuncia al sé a favore del gruppo, continuità tra vita e lavoro –, prima di arrivare a definire quel minestrone da cui bisogna tirarsi fuori per esistere come individui. Bingo! Ed è allora che lei li affronta, li prende di contropelo. Recita loro le regole con voce così calma da risultare vagamente provocatoria, esige per esempio che siano rispettate al millilitro le proporzioni dei colori sulle tavolozze, nelle ciotole, ribattendo il metodo, è così che si fa, così e basta, esagerando in modo auto-caricaturale un accademismo ottuso, feroce custode della norma. Al minimo desiderio di interpretazione rilevabile su un lavoro, lei riporta l’allievo sul canone, sul modello, lo inchioda dalla parte del trompe-l’œil, dalla parte dell’illusione assoluta, bracca le pennellate sulla tela, l’emozione nei segni della spazzola, il tono troppo scuro di una gradazione o la luminosità troppo accesa di uno smalto, lei lavora all’annullamento del giovane pittore, a cancellare la pittura rispetto alla rappresentazione. Certo, giustifica quell’accanimento invocando la tecnica, la bellezza della tecnica, ma non è escluso che sia anche un po’ sadica. E tuttavia il sabato mattina, quando i lavori sono esposti uno accanto all’altro sulla parete dell’atelier, una ventina di immagini dello stesso formato, stesso legno, stesso marmo, una ventina di trompe-l’œil realizzati secondo lo stesso procedimento, lei si piazza davanti alla parete in silenzio – si sente che prende tempo, manipola l’attenzione dell’uditorio come un mago che mette in scena l’attesa, gestisce la suspense – poi lentamente, senza commettere un solo errore, attribuisce ogni lavoro al suo autore, poi lo solleva, in modo che si possa leggere il nome del falsario sul verso – e così si distinguono l’eccesso d’acqua sul lavoro di Buster Keaton, la pesantezza di Artemisia, l’uso eccessivo del bianco di Cina nelle esercitazioni del pastore greco, o ancora il decentramento del motivo sul foglio, tipico di Paula. Quando alcuni avrebbero scambiato il lavoro dell’uno con quello dell’altro, lei restituisce a ciascuno la sua singolarità.

Paula alzando la testa dopo l’episodio del Cerfontaine si rende conto che i camici macchiati di pittura attorno a lei contengono delle persone, che i pennelli sono tenuti da mani, legate a dei corpi, a dei volti, a dei temperamenti, a delle storie. E finalmente, lei che all’inizio di dicembre sosteneva di aver messo una croce su ogni rapporto e aver scelto la castità – non c’è tempo per questo, sosteneva su internet, grottesca, cow-girl solitaria che strizza gli occhi sulla prateria e sfrega un fiammifero sotto la suola dello stivale – lascia cadere il secondo proposito come si lascia scivolare dalle spalle uno scialle in una notte d’estate.

Si avvicina a Kate che un giorno le è piombata addosso all’uscita di una lezione e le ha chiesto di punto in bianco: sei tu che vivi con Jonas Roetjens? Kate fa parte di quelle ragazze che amplificano lo spazio che attraversano, sorridono poco ma ridono forte, fanno in continuazione battute di cattivo gusto, imprecano a voce alta quando viene il loro turno di ricevere la consegna della carta per l’atelier, poi si siedono sole tutti i giorni al bistrot per un vero pranzo di carne, si mostrano così preoccupate di distinguersi dalle figlie di papà dell’Istituto che non perdono mai l’occasione di far sapere che si sono pagate i corsi da sole – Kate, lavorando come fisionomista in un locale di Glasgow, il Nautilus, del resto lei ha dei pesci tatuati sulle braccia, pesci che mostra a Paula tirandosi su le maniche in mezzo alla strada, e le cui pinne si muovono quando gonfia i muscoli.

Alla vigilia delle vacanze di Natale c’è una festa da Buster Keaton, e nell’euforia generale Paula si ritrova a baciare in bocca un ennesimo cugino delle spagnole in fondo alla camera convertita in guardaroba, poi nuda con lui un’ora dopo in un’altra camera a cento metri dalla prima e identica alla sua. Il tipo è di passaggio a Bruxelles per un torneo di tennis, gambe lunghe e senso del timing, pelle della schiena coperta di nei – verrebbe voglia di approfittare, mentre dorme, e avvicinarglisi muniti di penna e squadra per tracciare le costellazioni visibili nella Via Lattea. Uno sopra l’altro poi intrecciati fino al mattino. Poi, lui si addormenta a pancia in giù, profilo schiacciato sul materasso, e quando Paula che si è rivestita si china sul ragazzo, sfiorandogli il viso con i capelli arruffati, lui apre un occhio, sorride, poi si gira sul fianco – e in seguito, lei si meraviglierà della facilità con cui si era lasciata scivolare in quella notte, lei che era tanto turbata dal sesso.