Ci si chiede come la giovane Paula Karst, questa ragazza qualunque, in una situazione protetta, abitudinaria, e per dirla tutta abbastanza fannullona, di quelle che passano la maggior parte del loro tempo sulla panca di un caffè insieme ad altre come lei, ogni particella di esistenza spumeggiante nell’espresso con quella miscela di grazia e di vacuità che rasenta il genio, come quella studentessa brusca e dilettante, per la quale l’avvenire doveva prima di tutto rimanere racchiuso in uno sfumato, si sia buttata a capofitto nel grande atelier di rue du Métal e, soprattutto, con quell’impeto. Come sia riuscita a trovare in tre giorni un bilocale vicino, rue de Parme, al 27, e un allievo iscritto all’Istituto per dividerlo con lei – Jonas Roetjens –; come abbia scaricato il suo ragazzo con freddezza – figura alla moda con tanto di pizzetto, di piccolo tatuaggio e risvoltino del jeans sopra la scarpa da ginnastica, indispettito da quel breve sms di rottura doveva aver stretto le labbra e poi inforcato una bici ridicolmente alla moda, filando verso il bois de Vincennes, lo stomaco attorcigliato dal dolore, rosso in fronte –, e meno ancora si capisce come sia riuscita a trovarsi il 30 settembre, a Bruxelles, davanti alla porta della sua nuova dimora, a svuotare con suo padre il bagagliaio di una Volvo station wagon dove viaggiava sballottando il solito mobilio da studente che viene sistemato con senso di responsabilità – lenzuola, caffettiera, lampada da scrivania, cavalletti, poche stoviglie, una sedia, un tavolo, una cassa di libri, due sacchi della spazzatura con indumenti, un aspirapolvere, un mocio, e tutta la dotazione informatica –; come sia riuscita a portar su tutto ciò per tre piani, resistendo, alcuni viaggi a passo di ginnastica, lei che non aveva polpacci, riluttante a qualsiasi sforzo fisico – nonostante braccia lunghe, e lunghe gambe, slanciata, appariva più alta di quanto non sia in verità dritta sotto lo statimetro –, lei che era sempre la prima a slogarsi i piedi, a sbattere la fronte, a lamentarsi per un crampo. Ma sta di fatto che il trasloco di questa ragazza avvenne in quattro e quattr’otto, lampadine avvitate, letto montato, computer e wi-fi configurati just in time! – è indiavolata o che? borbottava Guillaume Karst a ogni pianerottolo, ansimante, mani sui fianchi, schiena al muro.

Indiavolata, non ancora. Forse solo l’idea di dare uno scossone alla vita. Per il resto, Paula affronta quel che l’attende con disinvoltura, con delle idee a corto raggio. Non c’è scritto sul sito dell’Istituto che un buon livello di disegno non rappresenta una garanzia di ammissione? Non si tratta forse di seguire in quella scuola una formazione puramente tecnica, di acquisire conoscenze accessibili a chiunque sia disposto a lavorare? Non si tratta forse di imparare a copiare? Copiare. La scienza degli asini, Paula, insinua suo padre mentre prendono insieme un caffè in una stazione di servizio all’altezza di Valenciennes, il loro sguardo scivola sul bordo della tazzina verso l’orizzonte dei camion lanciati a tutta velocità sull’autostrada. Paula s’intestardisce: copiare, sì, proprio così. Già si piace immaginandosi da apprendista con le maniche tirate su, decisa a farcela, da artigiana che sgobba avendo scelto una strada modesta per penetrare nel cuore della pittura – apprendere il disegno, acquisire una conoscenza perfetta di tecniche e materiali, iniziare dall’inizio –; lei ama raccontarsi che bisogna passare da lì per mettersi in seguito davanti a una tela, una parete, un qualsiasi supporto, e che quel che conta arriverà dopo, altrove, in un altro mondo, quello dei veri artisti – ed è là che si sbaglia, e di grosso.

Quella prima sera, in piedi in mezzo alla sua stanza, Paula mani sui fianchi, ventre in avanti, respira forte. Una vampata di calore le scalda le tempie e la fa salivare. Ce l’ha fatta ad andarsene di casa, è successo, adesso vivrà la sua vita, ma non prova l’ardore che aveva immaginato nel pronunciare quelle parole. Per quanto rimetta in scena l’istante, prenda la posa, richiami l’azione inaugurale, il giovane eroe sulla soglia del futuro, che stringe gli occhi su un orizzonte saturo di promesse, si paralizza. L’ansia la soffoca, le serra il petto. Qualcosa si delinea, là, davanti, qualcosa per cui dovrà affrontare una vera battaglia. Improvvisamente diffida della facilità con la quale ha imboccato quella svolta senza incontrare un solo ostacolo, nemmeno la sua incapacità nel disegno, la sua mancanza d’audacia, la sua timidezza orgogliosa, neppure il costo della scuola, molto alto, somma che i suoi genitori avevano accettato di pagare senza battere ciglio – li ha sentiti bisbigliare nella loro stanza dopo l’annuncio delle tasse d’iscrizione e poi più niente. Adesso, più guarda i mobili nuovi, le tende che cadono perfettamente, la lucetta verde del computer, le poche stoviglie, e il telo da bagno impregnato dell’odore inebriante di bucato, tutta quella panoplia materiale che le era tanto piaciuto scegliere, quelle cose che la insediavano nel mondo degli adulti, più le guarda più scopre qualcosa che stona. Ripensa all’ultimo gesto di suo padre, quello subito prima di rimontare in macchina, una gamba dentro, l’altra ancora fuori, l’addome schiacciato contro lo sportello aperto, e quella mano alzata verso la finestra dalla quale sapeva che lei lo stava guardando, bye bye, lei non sentiva niente ma vedeva muoversi le sue labbra e la testa rovesciata all’indietro, bye bye, lui le sorrideva, aveva il volto disteso, l’aria contenta, di certo soddisfatto per aver compiuto il suo mestiere di padre, e forse anche, pensa lei, di averla fatta finita con il suo mestiere di padre, perché la mano che si agitava verso di lei, quel piccolo movimento con cui spazzava l’aria, significava anche che la stava allontanando, via, via, sì, più diminuisce la luce e più lei si dice che i suoi genitori devono aver visto in quella scuola di Bruxelles una benedizione per estrometterla da rue de Paradis. Si siede sul letto, svuotata, i gomiti affondati nelle cosce, la testa pesante, e non sente le chiamate di suo padre sul cellulare, ripetute, al momento di una sosta nell’area de La Sentinelle.