Abbagliata fin dalla soglia dell’atelier il primo giorno, entrando in un locale rettangolare di quindici metri per dieci, alto circa cinque metri, cemento a terra e lucernari in vetro; il luogo è dotato di un ballatoio che corre lungo le quattro pareti, utilizzato per contenere centinaia di rotoli e di cartoni da disegno, di campioni, di materiali di piccole dimensioni. Paula è subito attratta dalla luce dell’inizio che bagna quel luogo, una luce bianca, diffusa, tanto più limpida quanto l’ingresso e il corridoio sono caliginosi, come se bisognasse passare per questo spazio ermetico di opacità per vedere chiaro prima di mettersi al lavoro. Una ventina di telai girevoli sono disposti a spina. Lei sguscia verso uno di quelli sul fondo, appoggia su uno sgabello di legno la sua scatola di colori, si infila il camice. Gli altri allievi si disperdono per la sala, lei sente parlare inglese a qualche metro di distanza, si tiene pronta, e poi la signora col collo alto nero fa il suo ingresso, piccola qui, più piccola di come era nel ricordo di Paula, ma occupa immediatamente un volume importante di spazio. Dopo di che, c’è l’inventario, la direttrice chiama ogni pennello con il suo nome e gli allievi verificano la sua presenza nella loro scatola, e quelli di Paula sono belli e puliti, la ghiera scintillante, il ciuffo morbido – qui si distingue un pennello da acquerello, un petit-gris in pelo di vaio, un mozzato, uno striper, uno affusolato su asta di legno in pelo di martora Kolinsky, e quello che considerava come il suo pennello feticcio, un pennello da lacca in pelo d’orso dell’Alaska, un regalo di Marie, sua madre, la sera prima della partenza. Sono tanti quelli di cui Paula non conosce la funzione e che ha sistemato come si raduna una banda prima di una rapina, assicurandosi della loro presenza silenziosa e leale, e che lei ora guarda con curiosità: sono strumenti fatti per ricreare il mondo.

E dopo, il dolore. La pratica nell’atelier è effettivamente “molto fisica” – eufemismo ridicolo – e il carico di lavoro che percuote immediatamente l’allieva è tanto più violento perché lei fino a quel momento si è ben poco messa alla prova. Mal di testa e dolore al naso – seni congestionati –, mal di schiena – vent’anni e già con i lombi in fiamme –, male ai piedi – vesciche ai talloni a forza di pesticciare tante ore davanti al suo pannello, cosicché al terzo giorno si decide a ordinare su internet un paio di running con la suola curva fabbricate apposta per i maratoneti – e c’è quel dolore da contrazione a forza di alzare il pennello e tenerlo in orizzontale che le procura un’infiammazione alla spalla, pesa sulla scapola. Paula comincia a conoscere quel corpo in cui è nata – era ora. Quel che la sorprende, tuttavia, sono gli occhi, che dalla prima sera le fanno male come lividi sui quali si prema l’indice.

Ottobre, gli alberi. Sensazione di entrare in una penombra bucata qua e là da pozzi di luce, in uno spazio acustico attraversato da altre voci, altri corpi armoniosi o dissonanti. Anche da altre lingue, e quella che parlano nell’atelier è una lingua sconosciuta, che Paula dovrà apprendere, decriptare china su tavole anatomiche che definiscono una sezione trasversale, tangenziale o radiale, un legno tagliato a sciavero, oppure segato a quarto, che catalogano il nodo, l’amoerro o la screziatura, la fibra, il parenchima, i vasi. Lei tiene nella tasca del camice una piccola rubrica dalla copertina nera e una matita, accumula parole come un bottino di guerra, come una riserva, turbata immaginandone la quantità – come una mano tuffata alla cieca in un sacco di cui non raggiunge mai il fondo –, mentre enumera gli alberi e le pietre, le radici e i suoli, i pigmenti e le polveri, i pollini, i pulviscoli, mentre impara a distinguere, a specificare e poi a usare quelle parole per sé, cosicché quel taccuino prenderà progressivamente il valore di tutore e di bussola: man mano che il mondo scivola, si duplica, si riproduce, man mano che la fabbrica dell’illusione si compie, è nella lingua che Paula individua e fissa i suoi punti fermi, i suoi punti di contatto con la realtà.

È dura. Lei si domanda ogni mattina se riuscirà a farcela, sei mesi, un autunno e un inverno, si ripete che tutto si sistemerà, che è questione di giorni, che prenderà le misure. Ma fatica a trovare la sua cadenza. Superato lo choc iniziale – di cui in seguito racconterà con il piacere esibizionista di chi ha ricevuto il battesimo del fuoco – e immaginando di aver trovato una sorta di ritmo, si lascia andare a dormire di più, a bighellonare sui social per un post alla sua banda, alle sue compagne – la scemetta! Allenta per un breve momento che poi produce un contraccolpo di tale violenza che lei torna immediatamente alle abitudini iniziali: sveglia alle sei, a letto a mezzanotte, distacco da tutte le reti, bye bye a tutti quanti, finite le chiacchiere. Ma è un convento il tuo o che cosa? avevano commentato sarcastiche sulla rete. Curiosamente Paula si era inorgoglita di quell’allusione a una vita ascetica, aveva sorriso. Dopo di che, aveva estremizzato il suo silenzio, tardando sempre di più nel rispondere ai messaggi delle amiche che reclamavano foto dei ragazzi della scuola, e cancellando senza nemmeno leggerli gli sms del suo ex che non aveva ancora accettato, a quanto pare, che tra di loro era finita per sempre e la tormentava con insinuazioni sessuali pesanti senza alcun rapporto con il tenore piuttosto casto della loro relazione. I segnali che manda fuori dall’Istituto diminuiscono fino a scomparire completamente, e lei finisce per limitarsi solo a rispondere al telefono quando chiama rue de Paradis. Euforica, affascinata da quello che impone al suo corpo e che mai avrebbe pensato di poter sopportare, dalla sensazione di scoprire nel cuore del lavoro uno sforzo sconosciuto, per cui ardere.

I luoghi, tuttavia, la disorientano e la scuotono. Impressione di raggiungere ogni mattina un retro-mondo, un mondo situato dietro al tempo, o più esattamente un mondo in cui il tempo è stato smontato in placche e poi rimontato in disordine, ricostruito. È persa. Si sloga regolarmente le caviglie attraversando l’atrio, depistata nella penombra e negli odori di fredde tappezzerie, e non riesce a percepire la luce pallida dell’atelier in fondo al corridoio, l’odore di idrocarburi e il fremito di giungla, senza rallentare il passo, senza avere il cuore che batte all’impazzata e lo stomaco che si torce. Una volta dentro, nella luce, la situazione si complica ancora. Dipingere in mezzo a un gruppo la destabilizza e la opprime. Accettare di essere vista, far trapelare le sue emozioni nell’istante di dipingere, urta il suo pudore – come fosse nuda. Ma la configurazione dell’atelier, e soprattutto l’esistenza del ballatoio come una balconata sul teatro che si svolge al di sotto, non le permette alcuna ritirata: la si può vedere al lavoro da qualsiasi posizione. Orgogliosa, lei si ritrae. Non indugia mai nell’atelier ma corre a casa immediatamente dopo la fine dei corsi, come si approda a un riparo, camminando in fretta, ansiosa di sottrarsi agli sguardi che la seguono, ai commenti pronunciati dietro le spalle, a quegli incoraggiamenti in cui non sente altro che condiscendenza, a quelle critiche che le fanno venir voglia di fare dietrofront e piantare il suo pennello in quelle bocche troppo aperte, perché la smettano di rompere, suscettibile come tutte le persone timide che si ribellano, ombrosa, ispida. La si vede raccogliere le sue cose in fretta e furia e poi scappare via incassando la testa nelle spalle, la fronte sempre orientata a terra, senza mai guardarsi intorno – ed è là che si gioca la sua idiozia tattica ed è là che si ferisce: rannicchiata dietro al suo cavalletto in fondo alla sala, guardando di sbieco, risucchiata, Paula non può vedere quelli che dipingono accanto a lei altrettanto accecati, vacillanti, e Jonas che non si fa mai vedere a rue de Parme, la sua vita ridotta ormai a quel foglio di grande formato (100 x 65) srotolato su una tavola di legno, il pannello.

Si appassiona. Ascolta, prende nota, lavora, ma non alza ancora la testa se non durante le presentazioni che fa la signora con il collo alto nero ogni mattina all’ora prevista, niente trucco e capelli tirati su, sguardo sibillino quando le gira intorno senza dire una parola, una mano bene aperta sul ventre, l’altra con il pennello, il panno, la spugna, mostrando tutto intorno un pezzo di legno, zebrano venato, nauclea marezzata, come mostrerà un mese più tardi un frammento di roccia metamorfica, una paesina toscana o un calcare a stromatoliti della Gran Bretagna, per sottolinearne la bellezza antidiluviana, spontanea, enigmatica, una bellezza innocente, precisa lei impenetrabile mentre il pezzo di legno sul suo palmo o la scheggia di pietra identifica il punto di un campo magnetico le cui onde concentriche si propagano su tutto il gruppo: una bellezza non umana. Dopo di che lei fa la sua lezione in piedi, di tre quarti davanti al cavalletto, senza mai voltare totalmente le spalle alla classe, e dipinge davanti a loro, dando l’esempio, sostituita in certi giorni da due colleghi la cui comparsa impone anch’essa il silenzio, mette sull’attenti, fa convergere gli sguardi. Il loro passo da pattinatori si sente fin dall’atrio, le suole che scivolano sul pavimento a gran velocità, e d’improvviso eccoli sulla soglia dell’atelier, corpulenti, storici, come se il passato li avesse rigurgitati là con una capriola, e Paula per lo più si immobilizza, sconvolta. Si assomigliano come due fratelli, grande testa sapiente, lunghe mani da incastonatore, un fondo di cattiveria inossidabile quando si rivolgono alla classe, curvi, il ventre stretto in un pantalone di velluto color zafferano o lampone schiacciato, un grembiule di tela rozza a proteggere l’insieme, esponendo come i prelati della curia romana calzini rosso sangue di filo di Scozia su caviglie stranamente esili. Dispensano i loro corsi lentamente, con voce incrinata, rotacizzando, la parola manierata, da erudito, le perfidie misurate, si asciugano costantemente l’angolo delle labbra con fazzoletti immensi che estraggono dal fondo della tasca con gesto rapido e poi fanno sparire come prestigiatori in scena, mentre le loro dimostrazioni sono chiare, la loro gestualità precisa, le loro fonti documentate. Paula si rannicchia durante le loro lezioni, cerca di diventare trasparente, l’idea che la possano interpellare, o peggio ancora, che possano prendere il suo lavoro come contro-esempio – possiamo vedere lì proprio quello che non bisogna fare, le cose più abborracciate, le più scontate direbbero mentre alzano gli occhi al cielo dietro ai pince-nez e le loro dita fini e contorte come artigli avanzerebbero sul suo pannello, per strappare tutto all’improvviso, accartocciare, ridurre il foglio a una palletta da ping-pong che si lancerebbero alle spalle con un sorriso molle raggelando tutti, deve ricominciare, signorina, ricominciare da capo –; lei si applica tutte le sere a ripetere la lezione, ripercorrendo ogni tappa, isolando ogni gesto, dispiegando tutto il processo fino a saperlo scandire a voce alta, recitare a memoria, come una poesia, dopo di che si lascia cadere all’indietro sul letto, senza fiato.

Impara a vedere. Le bruciano gli occhi. Esplosi, sollecitati come mai prima, ovvero aperti diciotto ore su ventiquattro – media che in seguito includerà le notti bianche al lavoro e quelle di festa. Al mattino, sbattono ininterrottamente come se fosse in pieno sole, le ciglia vibranti in continuazione, ali di farfalla, ma dopo il tramonto, sente che si indeboliscono, l’occhio sinistro cala, poggia sul lato come ci si butta su un declivio di erba fresca sul bordo della strada. Li cura, sciacqua le palpebre con acqua di fiordaliso, ci mette bustine di tè congelato, prova dei gel e dei colliri ma niente riesce a lenire la sensazione di occhi stanchi, secchi, con le pupille rigide, niente impedisce la formazione di occhiaie scure e ostinate – un marchio sul viso, stimmate del passaggio e della metamorfosi. Perché vedere, sotto la vetrata dell’atelier di rue du Métal, scossa e allucinata tra gli odori dei colori e dei solventi, i muscoli doloranti e la fronte in fiamme, non consiste più solo nel tenere gli occhi aperti sul mondo, significa lanciarsi in una pura azione, creare un’immagine su un foglio di carta, un’immagine analoga a quella che lo sguardo ha costruito nel cervello. E tuttavia, non si tratta di vedere nel dettaglio e con precisione – quello è il meno, pensava Paula, e poi si innervosiva sentendo i genitori vantare la sua “precisione da orefice” –, non si tratta semplicemente di riprodurre la realtà, di rifletterla, di copiarla. Vedere, qui, è un’altra cosa. Paula non sa cosa, non ancora, ma d’istinto capisce di aver sottovalutato quanto dovrà fare in quel luogo. E il sabato mattina, nella luce di mezzogiorno nel grande atelier, al momento di girare i pannelli, gli allievi si scostano per lasciare il passo alla signora dal collo alto nero perché possa avvicinarsi ai lavori e commentarli, dare indicazioni concrete, semplici, parole che alcuni avrebbero stupidamente giudicato troppo semplici e insipide ma che nel silenzio assumevano una forma esatta, un peso giusto, un senso appropriato – pensate a dipingere con i vostri ghiacciai interiori, con i vostri vulcani, con i vostri sottoboschi e i vostri deserti, le vostre ville in abbandono, con i vostri alti, altissimi, altopiani –, tra gli allievi si vede Paula, gli occhi lucidi, mentre in lei si dischiude questa verità: l’idea che il trompe-l’œil è ben altro che mero esercizio tecnico, ben altro che una semplice esperienza ottica, ma un’avventura dei sensi che riesce a scuotere il pensiero, interrogare la natura dell’illusione, e forse perfino – è il credo della scuola – l’essenza stessa della pittura. Nel suo cervello esuberante ma disordinato, l’insegnamento che riceve si risolve in un principio elementare di cui lei si appropria lentamente: il trompe-l’œil deve mostrare al tempo stesso in cui nasconde, e questo implica due momenti distinti e successivi: un tempo in cui l’occhio si sbaglia, un tempo in cui l’occhio si corregge; se lo svelamento dell’impostura non si verifica – la signora con il collo alto nero si ferma, alza le spalle, cala sulla platea il suo sguardo freddo di uccello solitario – questo significa che ci si trova di fronte a un’idiozia, di fronte a una formula, a una mistificazione, di conseguenza il virtuosismo del pittore, l’intelligenza del suo sguardo, la bellezza del suo dipinto, tutto ciò non può essere riconosciuto, tutto ciò resta inafferrabile. E attenti, continua lei, questo uccide il piacere, rovina il lavoro – ed era quanto di peggio potesse dire, una condanna senza appello, arrotando le erre espelle con disgusto le parole: distrugge il vostro lavoro.

Imparare a imitare il legno, significa “fare la storia con la foresta” – la signora con il collo alto nero aggiunge “stabilire un rapporto”, “entrare in relazione” – e Paula lascia che quella frase le giri a lungo per la testa, perché decanti. Aspetta. Nell’atelier freme una vita vegetale, che si dirama sui pannelli, prolifera sulle tavolozze dove i colori sfumano i gialli, attenuano i bruni, accolgono un po’ di rosso per il mogano e quel nero assoluto che si trova nel cuore dell’ebano più puro. Gli alberi si spaccano, i loro legni rivelano alburni chiari, durami sempre più scuri, insegnano un repertorio di forme, un intrecciarsi di filamenti diritti, ondulati o a spirale, una silloge di pori e nodi che codificano un mondo a portata di mano. Una foresta si innalza nell’atelier, intessuta di storie che mescolano le selve dell’infanzia – quelle delle fiabe, quelle del lupo e della fata, di sassolini bianchi e della volpe, quelle che si attraversano stringendo forte la mano del galeotto evaso –, i boschetti di campagna, le giungle politiche, ogni allievo contribuisce con la sua, e quella di Paula è una foresta di cinema, visibile su una pellicola di memoria bruciata a tratti ma dove si può vedere ogni dettaglio del volto di Marie, sua madre, la bocca spalancata, l’occhio sul mirino della Super 8 con la lente Zeiss, il collo sfiorato dai bei riccioli d’oro che captano schegge di sole, e si fondono con il vasto sottobosco dove, durante quel mese di agosto, sta girando un cortometraggio, – L’enfant des fougères, la storia di un bambino selvaggio ispirata da quella di Victor dell’Aveyron, di un bambino senza genitori, senza fratelli e sorelle, il colmo della stranezza per Paula sempre un po’ perduta d’estate, quando le vacanze riuniscono intorno a lei una famiglia numerosa –, sequestra i ragazzini di casa, i più grandi da attrarre davanti all’obiettivo, da snidare dalla loro camera o dalla televisione, i più piccoli, eccitati, che vanno convogliati, e tra di loro quindi Paula, nove anni, che nell’istante esatto in cui sua madre grida “azione!” entra nel film, avanza nella foresta familiare che si trasforma man mano che la cinepresa riprende, diviene quel territorio sconosciuto dove scompaiono le distanze, dove crolla la temperatura, dove il sonoro aumenta – ogni rumore esplode per poi vivere la sua vita di rumore –, il piano-sequenza dura, la bambina Paula procede in pieno mistero, non riconosce più il sentiero smottato per il passaggio delle macchine agricole, scavato nella terra secca, né i buchi lasciati dagli zoccoli delle mucche, né la zona dei giochi dove ogni ceppo ha il suo nome, dove i petardi vuoti e le cicche si mescolano alla terra, dove le palle da tennis giallo fluorescente dimenticate sotto un ramo sono divenute grigiastre, spugnose, lei si sente trasformare in un’altra, la penombra crivellata di luce, perforata di raggi che si incrociano in tutti i sensi, si sente parte di una storia, attenta a ogni passo, raggiunge la capanna del bambino selvaggio dove l’aspetta, seduto su un masso fumando una Gitane, un ragazzo a torso nudo, cappello di cuoio e occhialoni da aviatore – il cugino più grande, che lei non riconosce.

Quercia, pino, eucalipto, palissandro, mogano maculato, tuia dell’Atlante, liriodendro della Virginia o catalpa, ottobre passa e Paula ce l’ha fatta, è confusa, sudata, scarmigliata, una notte sogna che la sua pelle è diventata lignea, ma produce immagini, anche se il suo pannello si distingue dagli altri, travagliato, sempre un po’ debole. Fino al giorno in cui sente per la prima volta parlare della velocità del frassino, della melanconia dell’olmo o della pigrizia del salice bianco, e l’emozione la sommerge: tutto vive.