Jonas Roetjens. E questo, chi sarebbe? aveva gridato Guillaume Karst al di sopra della ciotola in cui montava le chiare a neve – una meringa? –, la sera in cui sua figlia gli aveva chiesto di firmare il versamento di una cauzione per l’appartamento che avrebbe preso a Bruxelles. Il volume della radio era al massimo per coprire il rumore della frusta elettrica cosicché nella cucina regnava un baccano infernale, e la ragazza aveva finito per scrivere con il gesso la parola “coinqu” su una lavagna appesa al pomello della credenza. Suo padre le aveva dato un’occhiata senza abbandonare il suo arnese, poi si era chinato di nuovo sulla neve che montava nella ciotola, il collo incassato tra le spalle, i jeans a vita alta, quel giorno cucinava rabbiosamente, accanito, la punta della lingua stretta tra le labbra. E quindi l’hai visto? Aveva alzato ancora di più la voce – di certo approfittava della situazione, lui che si rivolgeva sempre a tutti in modo equilibrato. Paula aveva fatto segno di no con la testa, allora lui le aveva voltato le spalle e si era aggrappato a quella frusta che sfondava i timpani e le molecole celate nella chiara d’uovo.
Jonas ha suonato alla porta dell’appartamento con tre giorni di ritardo, è comparso nell’ombra di uno zaino a forma di menhir, una cartella da disegno appoggiata contro la gamba, un materasso retto con un dito in piedi sul pianerottolo – un materasso per un letto a una piazza, grigiastro e macchiato. Stretta di mano. Paula. Jonas.
Fin dalla scena iniziale, Paula si è dimostrata amichevole, preoccupata di fare buona impressione su quello sconosciuto con cui si apprestava a condividere trenta metri quadri nei sei mesi successivi. Vuoi che ti aiuti a portare su della roba? Allegra dunque, ma il ragazzo ha scosso la testa e ha risposto a voce bassa, grazie, sono a posto, è tutto qua, ha preso la cartella da disegno e ha varcato la soglia mentre Paula si faceva da parte al suo passaggio, incollava la schiena al muro indicandogli una porta socchiusa: là, è la tua camera, io ho preso l’altra, quella in fondo. Il ragazzo ha annuito, d’accordo. Dalla cucina, Paula l’ha osservato mentre si liberava del suo carico con un movimento di rotazione delle spalle, esaminava il luogo con uno sguardo circolare, poi rifaceva lo stesso andirivieni trascinando il materasso – la fronte nascosta dalla visiera del berretto da baseball mentre il resto del volto per contrasto è illuminato, le guance scavate, come risucchiate dall’interno, il naso dritto, le labbra piene, i segni di un’acne recente sulle tempie. Si è spostato in silenzio, è scivolato nell’appartamento, lungo, flessuoso, fianchi stretti, caviglie nude, braccia come allungabili, mentre armeggia con il pagliericcio e lo lascia cadere a terra nella sua camera con un rumore sordo – le stesse braccia che ho io, ha pensato Paula. Al momento di tendergli il mazzo di chiavi, si è sforzata di sorridergli, un sorriso complicato che non diceva niente di cordiale ma che era un misto di timidezza, calcolo e delusione, perché il look di Jonas, più ancora del suo aspetto fisico, l’aveva sconcertata – felpa della tuta lucida zippata fino al collo sotto l’impermeabile nero, jeans troppo corti, scarpe da ginnastica bianche, orecchino da pirata e braccialetti di perline ai polsi, e malgrado tutto ciò, qualcosa di indecifrabile. E poi lei avrebbe voluto vederlo senza berretto adesso, che alzasse un po’ la visiera, avrebbe voluto vedere i suoi occhi, ma no, niente, le sue pupille rimanevano in ombra, intense e penetranti sul fondo, un animale nictalopo, un gatto, ha pensato lei mentre gli dettava il codice wi-fi, gli mostrava il frigo, gli armadietti, l’aspirapolvere, piccola casalinga improvvisamente pronta a declinare le regole di una coabitazione futura, ma a quel punto, come se lui avesse capito che la cosa poteva andare avanti per un po’, l’ha interrotta posandole una mano veloce sull’avambraccio: ora vado. Paula guance in fiamme ha fatto segno di sì precipitosamente, ok, a domani, è indietreggiata di un passo per appoggiarsi al lavandino mentre Jonas infilava le chiavi in tasca, sì, a domani – tono di voce basso, breve cenno del capo. Poi è la corsa giù per le scale, rumore di balzi leggeri che a poco a poco svanisce.
Paula ha lanciato uno sguardo sulla bottiglia di vino e i due bicchieri disposti sul tavolo, get together drink che avrebbe dovuto suggellare l’avvio di una coabitazione, piccola astuzia da adulti alla quale lui si era voluto sottrarre, ma momento a cui lei si aggrappava ancora, come si aggrappava ai riti, a tutto ciò che permette di scandire il tempo, di dargli una forma, tanto che ha afferrato il cavatappi nuovo fiammante, ha agguantato la bottiglia per il collo, poi l’ha aperta, si è versata un bicchiere che ha bevuto in un solo fiato, occhi chiusi, e in quel lungo sorso d’alcol, l’istante in cui ha visto Jonas lì sul pianerottolo, quell’istante le si è riproposto davanti agli occhi: le sta di fronte, sembra racchiudere in sé un destino molto intenso, un nocciolo di energia compressa di cui si indovina che si infrangerà, si aprirà e si consumerà fino in fondo.