Ma un mese più tardi, quando il cielo su Bruxelles prende il colore del porridge e arriva il momento dei marmi, Paula segna il passo. I nomi meravigliosi si induriscono, impongono dei codici di rappresentazione rigorosi, un sistema di convenzioni, una sintassi e un vocabolario così normativi quanto quelli di una lingua. L’intransigenza della signora con il collo alto nero raddoppia, inamovibile sulla strutturazione dei vuoti e dei pieni all’interno del dipinto, draconiana sui colori, insiste ossessivamente che niente riuscirà senza il dominio di quell’alfabeto, senza aver appreso i nomi – verde Polcevera, mischio della chiesa di San Siro, alabastro del Gazzo. Dipingere i marmi è darsi una geografia, dichiara in sostanza all’esordio, prima di ingiungere a tutti di esaminare una lista di opere tra le quali si trova un manuale di geomorfologia (detto “il Derruau”), un catalogo sommario dei marmi antichi, le memorie di un armatore di Saint-Malo, alcuni articoli sulle nozioni di facies metamorfiche, e Paula decisamente arranca.
È novembre, fa freddo, lei ha la pelle ruvida e il naso che cola, le labbra screpolate agli angoli, una faccia da letto sfatto. Così stanca che le succede sempre più spesso di addormentarsi vestita: si siede sul bordo del materasso, toglie le scarpe da ginnastica senza slacciarle, appoggiando la punta di un piede sul tallone dell’altro, pullover addosso cerca il gancio del reggiseno, lo slaccia, fa scivolare le bretelle elastiche sotto le maniche, lungo le braccia, lo estrae da sotto lo stomaco e lo lancia in un angolo della stanza, poi crolla su un fianco, sotto il piumino, e si addormenta subito, e ci si domanda dove sia finita la ragazza che faceva la doccia tutte le sere, si detergeva la pelle con le argille giapponesi e le schiume vitaminiche, la ragazza vivace che non avrebbe mai sacrificato alla fatica il suo rituale serale, la spazzola di bosso e il dentifricio alla menta. La sua camera è un prolungamento dell’atelier della scuola, analogamente esposta a nord e altrettanto mal riscaldata: le sue lenzuola puzzano di trementina, il suo pigiama è macchiato di colori, le ciotole sporche invadono il davanzale della finestra e i pannelli con il verde Alpi mal riuscito lastricano il pavimento – lei pensava che quel marmo sarebbe stato facile da dipingere, perché semplice, monocromo, il mare di notte, il mare fitto, basaltico, un nero smeraldo, percorso di filamenti di un verde più chiaro (la serpentina) o bianco (il talco) a formare in superficie una rete morbida, fibrosa, simile a cotone idrofilo sfilacciato, ma al contrario è una varietà che solo i pittori con molta esperienza si arrischiano a realizzare, cosa che lei non sa –, bisogna dare profondità alla pietra, e per questo entrarvi dentro, scendere all’interno, ma lei non ci riesce, lei si perde. Così sfinita che è lenta, è pesante, dolorante. Ma almeno mangi? le chiede il padre una sera in cui lei telefona all’ora di cena. Paula mangia, certo, ma poco, convinta che il suo corpo smagrito sia più forte, più duro, e il suo sguardo più lucido senza zucchero nel sangue – non è una cosa molto furba. Quella stessa sera, annuncia con voce secca che abbandona, che vuole andarsene di lì, l’ideale, di fatto, sarebbe che l’andassero a prendere adesso, domattina al più tardi, rimballare tutto l’armamentario della piccola allieva con la stessa facilità con cui l’avevano disfatto, e oplà, è finita la commedia. Suo padre mastica lentamente. Paula immagina le occhiate che lancia a sua madre, le sopracciglia ad accento circonflesso e le spalle che si alzano, il palmo della mano che copre il ricevitore mentre lui sussurra che le dico? Si consultano e poi sua madre prende il telefono, con tono dolce e inflessibile pronuncia le parole “compagno” “coinquilino” ma Paula ascolta quelle parole senza crederci, gli occhi fissi sulla punta della scarpa che gratta una macchia di colore sul parquet, sente che sua madre parla a nome suo e di suo padre, della coppia indivisibile che formano da tanto tempo, quella monade misteriosa con la quale era così difficile crescere. D’altra parte, Jonas è la stella dell’atelier e se la cava benissimo da solo, è quello che risponde con durezza; è vago, indifferente, selvaggio, mangia fuori casa e torna solo per dormire, così che Paula non lo incrocia altro che a scuola dove è da un pezzo che non capitava uno con un talento come il suo. Facile viverci dunque, non c’è mai. Paula si isola, la fatica si spande nel suo corpo come un veleno e la taglia fuori dal mondo esterno.