I

Estoril, marzo 1946

 

Dalla sua stanza al primo piano scese nella hall ancora deserta; deserta come lo era stata il giorno prima, la settimana prima, il mese prima... Ogni mattina si aspettava di trovare davanti all’entrata una fila di valigie, pronte per essere trasferite nelle varie stanze dal boy, e qualche famigliola seduta sui sofà, intenta a conversare e a sfogliare riviste e dépliant. Restò deluso anche quel giorno nel vedere che nulla era cambiato.

Attraversò l’ampio salone, diretto verso l’uscita, a disagio all’idea che tutto quell’apparato funzionasse solo per lui. Non si era ancora abituato al fatto di essere l’unico ospite dell’albergo. Spesso, nonostante l’estrema cortesia del personale nei suoi confronti, aveva la penosa sensazione di essere di troppo, e che tutti aspettassero solo la sua partenza per poter chiudere i battenti. Per il momento, tuttavia, non gli era possibile lasciare quel luogo.

Dall’inserviente al piano fino al ragazzo addetto al servizio in camera, tutti lo chiamavano «dottor Alexandre» – nessuno infatti si provava a pronunciarne per esteso nome e cognome, inframmezzati dall’altisonante patronimico. L’impiegato alla reception, che ne aveva registrato i dati,affermava che era nato a Mosca, ma che viaggiava con un passaporto francese. E tutti ne seguivano i movimenti con curiosità e una punta di sospetto.

Era lì da oltre un mese ormai, e tra il personale dell’albergo cominciavano a circolare delle voci sulle sue abitudini. L’imponente figura e lo sguardo penetrante sarebbero bastati da soli a incutere soggezione; per di più, aveva una voce autoritaria e tagliente, e sebbene nel chiedere un servizio si rivolgesse sempre con una cortesia che rasentava l’affettazione, quel suo modo di scandire con precisione le parole, quasi sillabandole, dava l’impressione che emettesse un ordine perentorio, aspettandosi di non doverlo più ripetere.

Ad accorgersene subito era stato il cuoco, o meglio, il cameriere incaricato di trasmettergli l’ambasciata. Quando per la prima volta gli aveva servito del pesce, si era sentito dire che lui detestava ogni creatura marina e che il cuoco era pregato di cucinargli solo carne, possibilmente al sangue. Carne e dolciumi. E vino, vino rosso, s’intende. Anche la cameriera ne aveva di cose da raccontare: per giorni e giorni, infatti, trovava il letto intatto, come se il dottor Alexandre passasse intere notti senza nemmeno coricarsi; e un giorno in cui per sbaglio era entrata senza bussare lo aveva sorpreso seduto in poltrona, davanti a una scacchiera, intento a divorare avidamente della carne cruda, portandosela alla bocca con le mani. Nessuno del personale sapeva con esattezza chi fosse e cosa ci facesse lì; tutti però erano pronti ad azzardare ipotesi fantasiose: per alcuni era una spia russa, per altri un nazista in fuga.

 

 

Ogni mattina, prima di pranzo, Aleksandr Aleksandrovič Alechin – questo il nome che nessuno riusciva a pronunciare – si concedeva una passeggiata verso il faro. Lungo la costa, lembi di spiaggia si alternavano a basse creste rocciose. Quel giorno il vento proveniente dall’Atlantico soffiava forte, e le frequenti mareggiate dei giorni precedenti avevano depositato a riva ammassi di alghe, frammenti di conchiglie e meduse ridotte a cumuli di gelatina iridescente. Lo stabilimento balneare era chiuso, e il cosiddetto solarium, una piattaforma di legno sorretta da palafitte che d’estate – a giudicare dalle cartoline in vendita sul banco della reception – era affollata di aitanti giovanotti e belle ragazze in costume da bagno, appariva nella luce invernale come il gracile scheletro di un animale antidiluviano con le lunghe zampe affondate nella sabbia. In alto torreggiava l’Hotel do Parque, quello in cui era alloggiato. Lungo il percorso che lo portava fino al promontorio dove sorgeva il faro, la facciata barocca dell’albergo, rivestita di abbacinanti azulejos, continuava ad affiancarlo, come ci affianca durante il cammino la luna quando è bassa all’orizzonte, e solo dalla punta estrema riusciva a scorgere parte del lato interno, quello rivolto verso il parco, denso di pini marittimi e tamerici.

Mancava poco all’inizio della primavera, ma la stagione balneare non sarebbe cominciata prima di maggio; eppure l’hotel restava aperto. Nella sala da pranzo sedie e tavoli erano accatastati lungo una parete, e i pasti gli venivano serviti in camera. Il suo alloggio, contrassegnato da una targhetta in ottone con il numero 43, era sufficientemente spazioso e aveva un ampio balcone affacciato sull’oceano: una vista magnifica per chiunque, ma non per lui, che vedeva in quella distesa d’acqua senza fine l’immagine stessa dell’ignoto. Spesso, per accertarsi se ci fosse qualcun altro in quell’eremo, percorreva da un capo all’altro il corridoio, passando in rassegna un susseguirsi di porte tutte chiuse, tutte uguali fuorché per il numero sulla targhetta; a volte tendeva l’orecchio davanti all’una o all’altra, ma non udiva mai il minimo rumore. Era salito anche ai piani superiori, ma pure lì c’erano porte e ancora porte, e nemmeno una voce che trapelasse dall’interno.

Per quanto ridotto, il personale era molto efficiente, e in cucina c’era un cuoco a sua totale disposizione. Forse, si diceva, di lì a poco l’albergo si sarebbe riempito di gente, per un congresso, un seminario o qualcosa del genere. Era da un mese che non scambiava parola con alcuno, se non qualche battuta con Manuel, il ragazzo che gli serviva i pasti in camera. Il tempo trascorreva in un alternarsi di lunghi periodi di sonno e veglia. Giorno e notte si confondevano, e la solitudine stava ormai diventando insopportabile.

L’ultimo dottore che l’aveva visitato gli aveva fatto una diagnosi infausta. Era stato esplicito: il fegato era in condizioni preoccupanti, soffriva di duodenite acuta e inoltre si stavano manifestando i sintomi di un’angina. Se non avesse smesso di bere smodatamente, e di fumare quaranta sigarette al giorno, non sarebbe vissuto a lungo.

«Quanto mi resta?».

«Un anno al massimo».

«E se smetto?».

«Qualcuno di più».

«Allora forse non mi conviene» aveva risposto ridendo – benché ci fosse molto poco da rallegrarsi all’idea della morte. In realtà, la paura di morire era sempre in agguato e per quanto cercasse di inabissarla nel più profondo della coscienza, si manifestava d’improvviso, soprattutto la notte, quando, tormentato dall’insonnia, camminava per ore avanti e indietro nella sua stanza.

Alla fine però, rimasto quasi al verde, era stato costretto a smettere di bere e a doversi accontentare della bottiglia di Alentejo che gli veniva servita ai pasti.

 

 

A volte ripensava a come era arrivato fin lì, a Estoril, in quell’ultimo lembo ventoso d’Europa, unico ospite di un albergo aperto fuori stagione. Stentava ancora a credere che, nel momento in cui tutto era sul punto di crollargli addosso, un incontro inaspettato lo avesse rimesso in piedi. Gli era sembrato quasi un segno della Provvidenza.

Solo il mese prima, infatti, si trovava a Lisbona, ma la direzione dell’albergo dove era alloggiato lo aveva letteralmente cacciato, sequestrandogli i bagagli finché non avesse provveduto a saldare il conto. Quella sera vagava per la città chiedendosi dove avrebbe passato la notte. Gli rimanevano pochi spiccioli in tasca: giusto il necessario per mangiare un boccone accompagnandolo con qualche boccale di birra. Aveva raggiunto a piedi l’Ás de Ouros, un locale che restava aperto fino all’alba. Erano appena le nove, e l’ambiente era ancora semivuoto. Al centro della sala una coppia di ballerini anziani si trascinava sulle note di una fisarmonica, a qualche tavolo si giocava a carte e c’era anche uno spazio riservato agli scacchi, che però appariva deserto. Così si era seduto in un angolo e, disposti i pezzi su una scacchiera, aveva cominciato a muoverli distrattamente, nell’attesa che si presentasse qualcuno con l’intenzione di sfidarlo; e poiché anche a scacchi non si giocava mai senza una piccola posta, avrebbe avuto l’opportunità di guadagnarsi qualche consumazione extra. Di sicuro, però, non avrebbe approfittato della propria abilità e, come sempre faceva, avrebbe concesso all’avversario di turno un vantaggio adeguato.

Non dovette aspettare molto. Qualcuno si fece avanti: un uomo di mezza età, dall’aspetto comune, con un abito senza pretese; si sarebbe detto un rappresentante di qualche compagnia assicurativa, o un funzionario municipale.

«Eu posso ter a honra de jogar um jogo?».

Lo sconosciuto parlava un portoghese corretto, benché inquinato da un accento che lasciava supporre non fosse la sua lingua madre.

«De boa vontade».

I pezzi furono ricollocati sulle case di partenza. L’uomo sedette pesantemente di fronte a lui, sistemando con cura le falde del soprabito che teneva ancora indosso. Poi propose:

«Una birra?».

«E vada per una birra» rispose Alekhine. «Prima di iniziare, però, devo avvertirla che sono imbattibile».

L’altro sorrise, incredulo. «Davvero?».

«Mi sento quindi in dovere di darle un vantaggio».

«Sarebbe?».

«Un Cavallo, un Alfiere... anche una Torre, se vuole».

«Ah, no, se devo perdere, voglio farlo ad armi pari».

«Come preferisce. Io l’ho avvertita».

L’altro non sembrò preoccuparsi troppo. Il sorteggio gli fu favorevole, assegnandogli i Bianchi. Già dalle prime mosse fu chiaro che non era proprio un novellino, ma dopo aver condotto l’apertura in modo impeccabile, a un tratto sollevò il proprio Re dalla casella e, in segno di resa, lo rovesciò in mezzo alla scacchiera. Quel gesto sembrò ad Alekhine irritante, addirittura offensivo.

«Che cosa significa? Perché vuole abbandonare? La sua era pur sempre una solida posizione».

Lo sconosciuto si mise a ridere: «Ma di certo la mia solida posizione non sarebbe durata ancora a lungo di fronte al campione del mondo».

A quel punto l’uomo, dopo essersi scusato per la piccola sceneggiata, si presentò con il nome di Spitzler. Disse di essere un funzionario governativo e di aver avuto il preciso incarico di rintracciarlo. Lo informò che il match per il titolo mondiale era stato già fissato: lo sfidante era un russo, di cui, però, ancora non si conosceva il nome. A breve la notizia sarebbe apparsa sulla stampa internazionale. Gli assicurò quindi di aver saldato il conto dell’albergo, e per ultimo gli consegnò una busta con del denaro, insieme all’indirizzo dell’Hotel do Parque, a Estoril, dove avrebbe potuto soggiornare completamente spesato. Lui si sarebbe rifatto vivo al più presto.

«A chi devo tutto questo?».

«Lei ha ancora degli amici» aveva detto l’uomo, prima di andarsene.