Capitolo Secondo

La nascita di Rama

Ad Ayodhya Dasarath, era in attesa della nascita dei suoi figli. I re e i bramini che avevano preso parte al sacrificio se ne ndarono, colmi dei doni e dei ringraziamenti dell’imperatore. Passarono quattro stagioni, e quando un giorno si videro in cielo stelle di buon auspicio, Kaushalya diede alla luce un figlio di nome Rama. Benché Rama fosse il Signore del creato, Kaushalya lo tenne al seno con amore materno, incapace di vederne la natura divina. Uscì dalla sala del parto splendente, col suo bimbo dagli occhi come petali di loto.

Subito dopo nacque a Kaikeyi un figlio di nome Bharata; e a Sumitra, che aveva avuto due porzioni d’ambrosia, nacquero due gemelli, Lakshmana e Shatrughna. Tutti questi tre bimbi erano splendenti e luminosi. In cielo i Gandharva, musicisti celesti, si misero a suonare melodiosamente, mentre le schiere di Apsara danzavano. I tamburi risuonarono e piovvero fiori. Ad Ayodhya le strade si riempirono di cittadini in festa, con menestrelli, bardi e cantori d’inni sacri che celebravano la gloria della nascita di Rama e i suoi fratelli.

Re Dasarath era pieno di gioia e donò un mucchio di gioielli ai sacerdoti. Poi ordinò che fosse preparata una gran festa in tutto il regno. Vasishtha fece la cerimonia dell’imposizione del nome e gli altri riti di passaggio. Rama eccelleva fra tutti i fratelli. Il corpo splendido aveva il colore dello smeraldo celeste, e incantava tutti coloro che lo incontravano. Era devoto al padre, si dilettava nella scienza del tiro con l’arco, e imparò rapidamente a cavalcare cavalli ed elefanti, e a condurre i cocchi. Lakshmana fin dall’infanzia era molto attaccato al fratello maggiore, era quasi come la sua ombra, e lo aiutava in ogni modo. Senza Lakshmana, Rama non mangiava né dormiva, e quando andava a cacciare nelle foreste, lui lo seguiva da vicino per proteggerlo.

E così era Shatrughna verso Bharata, anche loro erano inseparabili. Dasarath era felice dei suoi quattro figli come Brahma dei quattro Deva che presiedono i quattro quarti dell’universo. I principi erano come tigri e tuttavia erano anche modesti, saggi, lungimiranti e dediti allo studio. Presto divennero istruiti nell’arte del governo in tutti i suoi aspetti.

Quando gli studi dei figli volsero al termine, il re cominciò a pensare ad ammogliarli. Un giorno, mentre era assorbito in questi pensieri arrivò a palazzo il potente mistico Vishvamitra, che disse alle guardie: “Dite al re che Vishvamitra, figlio di Gadhi, è arrivato alla sua porta.”.

Le guardie furono colpite alla vista di questo splendente Rishi, e si precipitarono da Dasarath per avvertirlo. Subito Dasarath andò coi suoi ministri ad accogliere il saggio, come Indra sarebbe andato da Brahma. Lo fece entrare e rispettosamente gli lavò i piedi e, a mani giunte, gli disse: “Il tuo arrivo è gradito come una coppa di nettare celeste, come la pioggia nel deserto, come la nascita di un bimbo per una coppia senza figli o la scoperta di un tesoro. Cosa posso fare per te?”.

Dasarath conosceva la fama di Vishvamitra, noto in tutto il mondo per la sua strettissima ascesi, il suo comportamento virtuoso e per i suoi quasi illimitati poteri. Una volta Vishvamitra aveva creato un’intera costellazione di pianeti che scintillavano nei cieli del sud. Il re si sentì onorato della sua visita e si chiese cosa lo avesse portato ad Ayodhya e, seduto ai suoi piedi continuò: “Tu meriti ogni mio possibile servigio, e mi sento fortunato che tu sia venuto alla mia porta. Alla vista del più grande saggio fra i sacerdoti bramini, la mia notte si è trasformata in un’alba luminosa, e al solo vederti sono stato benedetto come se avessi visitato tutti i luoghi di pellegrinaggio. O nobile saggio, qualunque cosa tu desideri considerala fatta, come ospite tu sei per me come un dio.”. Vishvamitra, felice di essere accolto così bene replicò: “Ho gradito ciò che mi hai detto, o re. Tu sei di nobile discendenza, e sei stato educato dal divino Vasishtha. Prova ora la tua parola esaudendo il mio desiderio.”

Vishvamitra aveva un corpo snello e forte, di colore dorato, coperto di una pelle di cervo nero, e teneva in mano un bastone ed un recipiente per l’acqua, i suoi unici averi. Col suo scopo in mente aveva camminato per tre giorni senza dormire e mangiare, e sapeva quanto sarebbe stato duro per Dasarath adempiere a ciò che stava per chiedergli. Lo guardò fermamente negli occhi e gli disse: “Sono qui davanti a te, perché sto celebrando un sacrificio. Tuttavia due demoni, Maricha e Subahu, ne ostacolano il compimento. Sono nemici giurati degli uomini e dei Deva, e possono volare prendendo l’aspetto che vogliono. Ogni volta che il mio sacrificio sta per completarsi, questi Rakshasa arrivano dall’alto e gettano carne e sangue rovinando tutto. Sono venuto da te, stanco e frustrato.”. Dasarath lo ascoltò attentamente, sapeva che Vishvamitra non sarebbe venuto da lui, imperatore della Terra, se non avesse avuto bisogno di un difficile intervento. I Rakshasa erano esseri pericolosi che odiavano i saggi, il re sapeva che stavano diventando sempre più distruttivi e Vishvamitra lo confermava.

“Sebbene io possa distruggere questi demoni con una maledizione, o re, non lo faccio in quanto una condizione del mio sacrificio è che io non ceda all’ira, e la mia mente rimanga ferma e serena. Non spetta ai bramini di attaccare il nemico ma è compito dei re e dei guerrieri. Quindi prestami tuo figlio maggiore, il più forte, Rama. Pur essendo giovane ha grande valore e può affrontare qualunque Rakshasa”. Il re rimase a bocca aperta e guardò Vishvamitra con orrore. Diceva sul serio? Mandare Rama… il principe era solo un ragazzo, non era mai stato in battaglia. Non v’erano dubbi sul suo valore, ma come avrebbe potuto affrontare i Rakshasa? Quegli esseri pericolosi conoscevano ogni tipo di magia e potevano sfidare perfino i Deva. Che possibilità avrebbe avuto Rama contro di loro?

Vedendo la reazione del re, Vishvamitra cercò di rassicurarlo. “Non devi temere per Rama, lo accompagnerò io, e sono sicuro che appena incontrerà quei Rakshasa, troppo sicuri delle proprie forze, li distruggerà facilmente. Quindi fallo venire con me per dieci giorni, non lasciare che il tuo amore paterno prenda il sopravvento. Darò a Rama doni che lo renderanno famoso in tutti i mondi e te lo rimanderò sano e salvo. O re, non dubitare”. Vishvamitra conosceva la vera identità di Rama, con la sua meditazione poteva vedere nel suo cuore il Signore Supremo, e sapeva che Rama era la stessa persona. E sapendo che la missione di Rama sulla Terra era l’annientamento dei demoni, stava agendo come strumento del suo volere.

Dasarath, ignaro dell’essenza divina del suo giovane figlio, era sconvolto e disperato al prospetto di perderlo. Con un forte dolore al cuore, cadde a terra svenuto. Dopo un po’ si riprese e disse al saggio. “Mio figlio ha meno di sedici anni. Come può combattere i Rakshasa? Verrò io stesso a distruggere i demoni, a capo di centinaia di migliaia di soldati addestrati. Non prendere Rama!”. Dasarath cercò disperatamente di far cambiare idea a Vishvamitra, e gli disse che finché avesse respirato, avrebbe combattuto qualunque Rakshasa avesse disturbato i sacrifici, e gemendo disse: “I Rakshasa combattono slealmente, e Rama non è esperto, non è ancora del tutto addestrato e non è in grado di valutare le forze e le debolezze del nemico. Inoltre non conosce l’uso delle armi celesti che servono per sconfiggere i Rakshasa”.

Dasarath si inginocchiò davanti al saggio e lo guardò con le lacrime agli occhi, ma vedendolo deciso gli prese i piedi e lo implorò. Cercò di pensare a una vita senza Rama, ma non se la poteva immaginare. Gli era arrivato un figlio degno della successione dopo così tanto tempo e preghiere, e che figlio! Ogni giorno che passava egli si rendeva più caro agli anziani con il suo comportamento virtuoso, ed ora stava raggiungendo la maturità ed era pronto a prendere la posizione di principe reggente. Come avrebbe potuto perderlo ora? Il re continuò la sua supplica. “Dubito che potrei sopravvivere anche una sola ora separato da Rama. Ti prego, non portarlo via, o se proprio lo devi, lasciami venire con lui. Prenderò tutto il mio esercito e scaccerò i demoni. Dimmi cosa sai di questi Rakshasa, o saggio, e io farò tutti i preparativi necessari”.

Vishvamitra rispose: “Vi è un Rakshasa di nome Ravana a cui Brahma ha conferito il dono dell’invulnerabilità. Ha una forza straordinaria ed è seguito da numerosi Rakshasa, ed ha tormentato la Terra e il cielo. Quando non ha voglia di attaccare i sacrifici dei saggi di persona, manda i suoi luogotenenti Maricha e Subahu”. Sentendo il nome di Ravana il re si allarmò e disse: “Nemmeno tutti i Deva e i Gandharva insieme a tutto l’esercito dei pianeti superiori potrebbero sconfiggere quel demone. Come posso affrontarlo, io che sono un semplice mortale? E Rama? Brahma ha reso Ravana imbattibile, e con tutte le mie truppe non potrei sconfiggerlo”.

Il re aveva sentito molti racconti delle imprese di Ravana che molti anni prima aveva ucciso Anaranya, un suo antenato, aveva sconfitto i Deva e addirittura il potenteYamaraja. Affrontarlo in battaglia sarebbe stato un suicidio. Il re disse, torcendosi le mani: “Come posso permettere al mio gentile figliolo di rischiare la sua vita affrontando Ravana? Piuttosto verrò io con il mio esercito a morire per proteggere il tuo sacrificio, ma Rama resterà qui”. Sentendo queste parole Vishvamitra si infuriò: Dasarath non aveva fede in lui? Come osava negargli la sua richiesta? La sacra legge imponeva ai re e ai guerrieri di obbedire sempre ai bramini e rispettarli, e Dasarath aveva dato la sua parola. Gli occhi del saggio lampeggiavano d’ira. “Ti tiri indietro dopo che ti sei solennemente impegnato a soddisfare le mie richieste? Questo rifiuto sarà la vergogna e la rovina del tuo casato. Se non te ne importa io me ne andrò, e tu potrai restare pacificamente con i tuoi cari, convivendo col tradimento della tua promessa”.

Perfino i Deva in cielo si spaventarono alla furia di Vishvamitra e la Terra tremò. Il saggio Vasishtha, che capiva il pericolo della maledizione incombente di Vishvamitra, disse al re: “Tu sei nato nella dinastia del dio-sole e sei la personificazione della virtù. Non è da te cessare di essere un giusto, tu sei famoso per essere veritiero e fedele alle tue promesse. Fatti forza, perché se non fai fede alla tua promessa perderai tutti i meriti che hai acquisito con le tue buone azioni. Manda Rama con Vishvamitra, non importa quanto sia esperto nel combattere, perché sarà protetto dal saggio”.

Vasishtha che conosceva la missione divina di Rama, disse al re che Vishvamitra aveva un potere inimmaginabile ed un vasto sapere, e nel passato, mentre governava un regno, aveva ricevuto da Shiva la conoscenza di tutte le armi celesti, e l’avrebbe certamente trasmessa a Rama. Vishvamitra era in grado di punire i Rakshasa, ma voleva Rama solo per aiutarlo. Dasarath era ancora poco convinto, e con il volto rigato di lacrime, le mani tremanti, unite in preghiera, chiese a Vishvamitra di cedere. Allora Vasishtha prese il re in disparte e gli rivelò la vera identità di Rama. Inoltre gli disse che l’arrivo di Vishvamitra era voluto dalla provvidenza per il bene del mondo, e quindi non c’era da aver timore se Rama andava col saggio.

Il re era sconvolto: per lui Rama era il suo caro figlio, bisognoso di protezione, come poteva essere il Signore Supremo? Il saggio non poteva mentirgli, ed il re accettò le sue parole, e sentendosi un po’ rassicurato, acconsentì a mandare Rama con Vishvamitra accompagnato da Lakshmana, che non avrebbe mai lasciato Rama combattere da solo. Dasarath mandò a chiamare i suoi due figli e li abbracciò, e mentre le sue mogli piangevano, li affidò a Vishvamitra dicendo: “Servite questo saggio come servireste me, figli miei. Pregherò per il vostro ritorno. Andate con la mia benedizione”. Rama e Lakshmana, guidati da un sorridente Vishvamitra, lasciarono il regno sotto gli occhi dei genitori e dei cittadini. Vasishtha intonò inni e preghiere di buon auspicio e in cielo risuonarono i tamburi e caddero fiori.